Lunario del Paradiso

Poem Number: 
23
Author: 
Gianni Celati

In Lunario del paradiso, romanzo di formazione (Bildungsroman) di Gianni Celati, uscito nel 1978 (citiamo la terza versione del 1995), il protagonista va in Germania, a Amburgo, per ritrovare la giovane Antje, incontrata un giorno su una spiaggia adriatica. Rifiutato dalla ragazza che non gli parla e non lo guarda, comincia un periodo difficile che rammenta la famosa canzone delle metamorfosi. Se Petrarca, prima di arrivare alla prima ‘trasfigurazione’, ripercorre la sua vita fin dalla prima giovinezza (“Nel dolce tempo della prima etade” [Rvf 23, 1]), invocando l’aiuto della sua memoria (“E se qui la memoria non m’aita” [15]), il narratore celatiano problematizza i suoi ricordi (“a dire il vero non l’ho presente nella memoria” [37]), rinviando il racconto autobiografico a più tardi (“Ho pensato per cominciare di raccontarle la mia vita, fin dalla nascita” [41]). Nella canzone, la metamorfosi iniziale è quella nel lauro, metonimia di Laura, che continua a determinare la situazione dell’io narrante (“[...] mi face oblïar me stesso a forza: / ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza” [19-20]). Gli incontri successivi s’interrompono sempre al momento in ‘Petrarca’ infrange un divieto, di cantare, di parlare, di scrivere, di guardare, subendo instantaneamente una metamorfosi ricalcata su quelle ovidiane. Nel romanzo, il desiderio di Giovanni di trasformarsi nella donna amata: “[...] vorrei stare a guardarla fisso per ore, vorrei trasmutarmi in lei, succhiare la sua essenza dagli occhi; non essere più io del tutto, essere solo una parte di lei” (39), viene ostacolato dai divieti paterni di avvicinarla. Ogni volta che il protagonista infrange uno di questi divieti, quando per esempio vuole contemplarla, toccarla, abbracciarla, baciarla, l’ubbidiente figlia lo richiama all’ordine; “cosa vuoi? [...] what do you want?” (38 e 43), e lui, “fedele, tramortito” (55), ubbidisce: “D’accordo, io accetto tutto, sono alla sua mercé, purché lei mi parli e io possa guardarle la bocca, i denti, le labbra che si muovono così delicate” (38). Nel suo tentativo di evitare qualsiasi irritazione di Antje (“così distante e dura di faccia” [39]) – “Allora le arranco dietro e basta, silenzio completo” (43) –, si legge in filigrana la paura di ‘Petrarca’, “mercé chiamando” (63), nei confronti di una Laura sempre pronta a tornare “ne l’usata sua figura”, ad arrabbiarsi (“Ella parlava sì turbata in vista”) e ad ammonirlo (“I’ non son forse chi tu credi” [78, 81 e 83]). Un altro momento in questo periodo di frustrazione amorosa sono gridi del protagonista, "chiamandola quella Antje” (25), che rimandano ai gridi petrarcheschi (“chiamando Morte, et lei sola per nome” (144). Nel motivo ricorrente della macchina da scrivere che stimola una memoria non sempre affidabile: “qui solo posso riassumervi quel poco che mi viene in mente” (97) ci pare infine possibile di riconoscere un’allusione alla “penna” petrarchesca e, più specificamente, ad un passo metanarrativo della canzone delle metamorfosi: “Ma perché ’l tempo è corto, / la penna al buon voler non pò gir presso: / onde più cose ne la mente scritte vo trapassando, / et sol d’alcune parlo / che meraviglia fanno a chi l’ascolta” (90-94). (Peter Kuon)

University of Oregon

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