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Utilissimo e notabilissimo documento è veramente quello, che il nostro poeta nel presente (per quanto la sua sententia ne dimostra) non primo, ma ultimo sonetto, scritto da lui, e in escusatione del suo amoroso errore, di che tutta l'opera diffusamente tratta; di se stesso ne porge: che, quantunque l'uomo ne' suoi giovenili anni si lassi (come porta l'umana fragilità) in qualche lascivo errore incorrere; almeno, giunto poi ne gli anni discreti, si debba da quelli del tutto rimanere, e con ogni suo ingegno, per non voler alcun esempio reo lassare, e per liberarsi d'ogni biasimo, nel quale potrebbe forse incorrere, cercar di rimuover della mente degli uomini ogni sospetto, che di lui potesse essere.
Perché essendosi egli alcun tempo da le speranze e vane passioni d'amore lassato trasportare, e venuto poi ne gli anni maturi, e del suo amoroso errore, come vedremo in fine de l'opera, riconosciuto e del tutto pentito; ora, per volersi d'ogni biasimo, nel quale potesse essere incorso, liberare, per tre efficacissime e quasi irreprobabili ragioni dimostra, quanto degno essere si senta dire di remissione e scusa. Prima significando esser nella sua giovinezza caduto, ne la quale ogni fallo sempre per se stesso si rende meno vergognoso, e più che tutte l'altre tollerabile. Secondariamente dimostrando, quanto sia in tale età la quasi insuperabile forza di questo lascivo amore, poi che appresso di coloro, da quali è per prova inteso, dice, ch'egli spera trovar pietà, e non solamente perdono. Ultimamente quello, perché non biasimo, ma somma lode merita, si è come molti sono, i quali, quanto più nel vizio invecchiano, tanto più della mente divengono insani. Ma essendo alla sua matura età pervenuto mostra, come detto abbiamo, da ogni lascivia essersi rimosso, conoscendo il vitio nell'età senile tanto essere da vituperare, quanto nella gioventù da essere tollerato.
Onde Ovidio,
Quæ bello est habilis, Veneri quoque; covenit ætas, Turpe fenex miles, turpe senilis amor
. E Mar.
in Afrum
,
Haec faciunt sane iuvenes: deformius afer Omnino nihil est Ardelione sene
. Il medesimo afferma egli in quella canzone. Ben mi credea passar mio tempo omai, dicendo, che in giovenil fallir è meno vergogna, onde a gli uditori de l'opera il suo parlar drizzando, quali in questa forma dice, Voi, che in rime sparse, Voi, i quali in rime divulgate, e in diversi luoghi manifeste e note, ascoltate il suono di quei sospiri, ond'io, De' quali io in sul mio primo error giovanile, Quando in parte era altr'huom da quel ch'i sono, per aver, come vuol inferire col pelo cangiato i costumi, Nutriva, pasceva il core. Onde ancor in quel sonetto Poi che 'l camin m'è chiuso di mercede, Pasco 'l cor di sospir, ch'altro non chiede.
Ove sia chi, cioè, quando fra voi sia persona, la qual intenda per prova, che cosa è Amore; Spero trovar del vario stile, In ch'io, nel quale io fra il van dolore piango, e fra le vane speranze ragiono, pietà, non che solamente perdono.
Ma hora veggio bene, si com'io fui al popol tutto gran tempo favola, Imitando Hor. Nelle
Odi
, ove dice,
Heu me per urbem; nam pudet tanti mali; Fabula quanta fui
.
Onde, della qual cosa, Sovente, spesse volte, mi vergogno di me medesimo, Et il frutto del mio vaneggiare, è vergogna, e'l pentirsi, e'l chiaramente conoscere, che quanto piace al mondo, è sogno breve. Onde Salomone,
Vanitas vanitatum, et omnia vanitas
.
Questo che si legge primo, essere l'ultimo sonetto scritto dal Petrarca.
Tre ragioni per le quali il Petrarca dimostra di esser degno di scusa.
Ovidio, dell'età convenevole ad amore. Marziale
contra Afro
.
Ove in vece di quando
Orazio nelle
Odi
Salomone de' vani piaceri della vita
Abbiamo non solamente la vita e i costumi del poeta, e della sua eccellente Laura la vera origine narrato, ma della Valle c'abitata fu da lui, e del luogo, ove il loro amore ebbe principio, copiosamente ancora detto.
Onde ora conveniente cosa ne pare di dover ad ogni esposizione del testo particolarmente venire; cominciando dalla prima parte dell'opera, la quale dal presente sonetto in questa forma nel suo principio suona:
Era 'l giorno, ch'al Sol scoloraro
, avenga che da altri sia stato posto nel primo luogo il sonetto che seguita. Ma due ragioni ne moven a creder, che questo debba tutti gli altri precedere: l'una, per esservi descritto il tempo, la quale cosa da molti altri poeti ne' principi dell'opera è stato usato; e il poeta stesso nel principio de' suoi
Trionfi
veggiamo averlo descritto. L'altra, perché in questo l'opera si addrizza a Madonna Laura per la quale egli la fece. Dove abbiamo da notare ch'essendo esso poeta sempre d'onore e laude stato desiderosissimo; e per questo, non poco temendo poter del suo amoroso errore, appresso del vulgo in alcuna mala opinione incorrere; quasi in infiniti luoghi d'essa opera s'è ingegnato sua scusa dimostrare; ora da le occulte insidie d'amore ingannato, ora dal suo inevitabil destino costretto, ora dalla troppa eccellentia della cosa amata indotto, esser quasi stato sforzato all'amoroso giogo doversi piegare.
Onde in questo principio della sua narratione per voler similmente quanto poteva al biasimo; nel quale per tale error fosse potuto incorrere; rimediare, adduce una molto escusabile ragione; per circoitione dimostrando il dì, che dell'amor di Madonna Laura fu preso, esser stato il Venerdì Santo, nel quale, come vedremo, non li pareva, che dalle insidie d'amore fosse da guardarsi. Onde drizzando il suo parlar ad essa Madonna Laura quasi in questa forma dice, Che quand'egli fu preso del suo amore, era il giorno, che si scoloraro i rai al Sole per la pietà del suo fattore. Perché Matteo al XXVII. cap. Marco al XXV. cap. Luca XXIII. testificano, che nella morte del Salvatore; che fu del sole e di tutto l'universo fattore; furon fatte le tenebre sopra della terra dall'ora sesta sino all'ora nona.
E, ch'egli non si sguardò, cioè, che d'esser stato preso non ne fece altra cura. Che, cioè, per la qual cosa, i begli occhi di lei lo legaro, volendo inferire che quando a' primi movimenti da quali egli fu preso, avesse rimediato, non sarebbe nel secondo inconveniente di lassarsi legare incorso. Onde disciogliersi allora era la dificultà: è per questo Ovidio,
Principiis Obsta: sero medicina paratur. Cum mala per longas convalere moras
. Ma, perché egli non se ne guardasse, dice, essere stato il non parergli, che allora fosse tempo da far riparo contra colpi d'amore; volendo inferire, che per essere giorno di passione, ogni uomo, lassando da parte tutti gli altri pensieri, solamente si devea della morte d'esso Salvatore, accendere e contristarsi: come dice c'aveva fatto egli, il qual securo e senza sospetto, solo a tanta acerba morte avendo volto tutto l'animo, se n'andava. Onde, come d'ogni provedimento sprovveduto, gli strali d'esso amore, che furono di Madonna Laura gli amorosi sguardi, poteron senza alcuna contraddizione per la via degli occhi penetrare al cuore. Cominciarono li suoi guai Nel comune dolore, cioè nel dolor, che di tal morte comunemente ogni uomo doveva avere, avvenga, che li altri intendono del dolore, che gli Amanti comunemente sogliono soffrire, soggiungendo che al suo parere non fu honor d'un tanto Signore ferirlo di saetta in quello sprovveduto stato, che gli era, Madonna Laura la qual di ragione e di pudicizia era armata, non aver avuto ardire non che di ferirla, ma solamente dimostrarle pur l'arco, cioè, di farne pur alcuna dimostratione; volendo inferire, che in tal atto, essendo egli tanto possente Signore, aveva segno di molta viltà.
Cagioni di aver posto il presente sonetto nel primo luogo
L'eclisse nella morte del Salvatore
Ovidio dello invecchiarsi in amore
Nel precedente sonetto il poeta per rimediare quanto poteva al biasimo nel quale si immaginava, per lo suo amoroso error, appresso gli uditori della presente opera, poter incorrere, ha dimostrato, come sprovvedutamente, e in tempo da non deverli guardare, era stato dalle insidie d'amore oppresso. Ora in questo, il medesimo affermando, aggiunge un'altra validissima ragione: la qual è, ch'amore non lo venne ad assalire per farlo tanto di Madonna Laura innamorare, quanto, come reo nimico, per vendicarsi di lui e punirlo d'infinite offese, che prima in resistergli gli aveva fatto, avendo in vano più volte tentato di farlo di altre donne innamorare; dal quale assalto dimostra non essersi potuto in alcun modo difendere. Adunque dice, che fece, come fa colui, che aspetta luogo e tempo a vendicarsi; e perché, si come nella vita di lui, e nell'origine di lei abbiamo dimostrato, essendosi egli la mattina del Venerdì Santo, su le piagge della sorga con Madonna Laura ritrovato, parve questo ad esso amore, come vuol inferire, luogo e tempo a deverli vendicar di lui, luogo per essere amenissimo; e specialmente del mese (come fu) d'Aprile, ed aver forza simil luoghi di leggermente poter inducer gli animi ad amare; tempo, rispetto al giorno, nel qual, com'ha di sopra detto, non li parea, che dalle sue insidie fosse di guardarsi.
Onde non altrimenti gli avenne, ch'avenir suol al Castellano, il quale avendo lungamente fatto con la sua virtù resistenza a' nemici, e venendo tempo nel quale giudica, che da quelli non fa più da doversi guardare; abbandona le porte del castello, e ritirarsi dentro dalla Rocca, pensando, che non lo presente bisogno, ma per quello, che potrebbe avenire, volerla fortificare, acciò ch'ancor le porte col procinto di fuori, per la fortificazion di quella, ne renda più securo: quando sopraggiungendo i nemici, e trovando non solamente le porte del castello abbandonate, ma la rocca ancor di dentro delle cose necessarie sfornita, turbano in un subito e ogni cosa mettono in disordine; né danno spazio al castellano di poter correre a l'arme, o di far altra provvigione onde si possa difendere. Perché avendo il poeta ancora egli lungamente con la sua virtù ripugnato contra gli assalti d'amore; ed essendo venuto nel quale, come ha di sopra detto, non li pareva che fosse da far riparo contra de' suoi colpi, aveva essa sua virtù abandonate le porte del castello, le quali sono questi nostri esteriori sentimenti; avvenga, che in questo luogo solo per gli occhi, de' quali è propriamente il vedere, l'intenderemo, e erasi ristretta, come dice al cuore, il qual è la rocca del corpo.
Per fare ivi, pur in esso cuore, e così ancora negli occhi, sue difese: perché fortificato il cuore, cioè l'animo gli esteriori sentimenti, e specialmente quello del vedere, che solo da esso animo è governato, e retto, ancora gli viene ad essere fortificato, e fatto continente contra ogni vista, che potesse all'animo alcuna concupiscenza rapportare. Ma in quello, che la virtù del poeta pensava di intendere a tal opera, fu dal colpo dell'amoroso sguardo di Madonna Laura assalito, nel quale primo assalto, essendo essa virtù, con la quale egli era usato di resistergli, turbata, dice, che non ebbe tanto di vigore né di spazio, che potesse, per difendersi, pigliar l'arme della ragione, o veramente, per lo strazio, che vedeva, per l'amorose passioni esser di lui, lo potesse accortamente ritrarre al poggio.
Perché in due modi possiamo difender l'animo dalle passioni, e perturbazioni; l'uno, con la propria virtù e con la ragione resistendo; l'altro, accortamente ritraendolo al poggio, ciò è da tali passioni, e perturbazioni consideratamente dipartendolo, e a più degne e alte cagioni alzandolo, faticoso veramente ha ciascuno e alto effetto. Onde Aristotele, nell'Etica del primo,
Difficilius enim est resistere voluptatis, quam irae
, e Boezio nel terzo libro de l'altro,
Felix qui potuit gravis terrae solvere vincula
. Dal quale strazio oggi, la sua detta virtù dice, che lo vorrebbe, ma per l'abito già fatto nelle voluptà, non lo può aiutare. Fu mortal il colpo, per lo smisurato piacer ch'egli, come suol inferir, ne prese, ma per esser poi dal dolore, che per quello pativa, stato raffrenato, egli non ne morì, onde in quel sonetto Sì tosto, com'avien, che l'arco scocchi, di tal primo colpo a Madonna Laura parlando, E certo son che voi diceste allora. Misero amante a che vaghezza 'l mena? Ecco lo stral, ond'amor vuol ch'è mora. Ora veggendo come 'l duol m'affrena, Quel che mi fanno i miei nimici ancora, Non è per morte, ma per più mia pena. Soleva prima nel mio cuor ogni saetta spuntarsi, perché ad ogni altro amore aveva sempre, mediante la sua virtù, dato repulsa: la qual virtù in altro non consiste, che in repugnar in ogni disonesto e non ragionevole appetito: né maggiori difese contra di quelle possiamo fare al cuore, che riconciliarlo ben con Dio: come vuol il poeta inferire, ch'egli, essendo nei giorni santi, voleva fare; ne' quali almeno ogni buon cristiano debbe, quanto può, a' suoi passati errori cercar di rimediare, e giusto 'l suo potere por freno a quelli, ne' quali per l'avvenire potrebbe incorrere.
Intenzione di Amore contra il Petrarca.
Comparazione presa dal Castellano.
Ivi, cioè nel cuore.
In due modi si può difender l'animo dalle passioni. Aristotele della voluptà. Boezio.
Avendo il poeta ne' due precedenti sonetti assai bene in sua scusa dimostrato esser quasi stato sforzato di doversi all'amoroso giogo piegare, ora in questo volendo similmente Madonna Laura di esser ella in umile e oscuro luogo nata con non poca laude delle sue bellezze scusare, adduce l'esempio del Salvatore, in sentenza dicendo, che sì come esso Salvatore volse far a Pietro e Giovanni parte nel regno del cielo, et egli stesso in umile provincia nascere, per essergli sempre piaciuto d'esaltare la sua umiltà: così allora d'un picciolo et umil borgo, aveva dato al mondo una tanto bella donna, quanto Madonna Laura era, per similmente esso picciolo et umile borgo esaltare. Onde per circoizione dice che Dio, il qual nel suo mirabil magistero, che fece in crear questo nostro, e quell'altro Emisfero sotto a noi, mostró la sua infinita provvidenza, e nel creare che fece Giove piú di Marte mansueto; intesi per tutte le varietà , mediante le quali l'uno e l'altro emisfero si regge, mostró la sua infinita arte, Venendo in terra a illuminare le sue antiche mosaiche carte; le quali, perchè sino ad allora non era stato chi l'avesse sapute interpretare, avevano celato il vero; non vuolse, come vuol inferire, per lo suo conversare altri re, signori e principi, ma tolse Giovanni, il quale fu poi Evangelista figliuol di Zebedeo, e fratello di Iacopo maggiore, e Pietro apostolo figliuolo di Simone e fratello di Andrea, ciascuno pescatore, come in San Luca al quinto capitolo si recita; a' quali fece parte del regno del cielo.
Così del nascer suo, dice, che non volse far grazia a Roma, ove gli alti e superbi palazzi, imagini e gloriosi trionfi erano, ma sì a Giudea fatta suddita e povera provincia, tanto gli piacque sempre l'umiltà sopra ogni stato voler esaltare. Onde nel Cantico di Maria Vergine:
Deposuit potentes de fede, et exaltavit humiles
. E così ora d'un picciol' e povero borgo, dice, averne dato un tale e tanto splendido e lucente Sole, che la natura, e quel tal borgo, luogo, onde, cioè, del qual si bella e formosa donna, la qual assomiglia ad esso Sole, nacque; si ringrazia, sono di tanto dono ringraziati.
La stella di Giove è contenuta nella sesta sfera, ed è pianeta benevolo, caldo e umido, diurno e mascolino, e nelle sue qualità è temperato: quando è congiunto con buoni pianeti, influisce ottime e utili influenze. Ma perchè si sono attribuiti i folgori, il poeta non dice che sia tutto, ma più che Marte mansueto, la stella del quale è contenuta nella quinta sfera, è pianeta caldo e secco, mascolino e diurno, influisce collera, e foco, animosità e appetito di vendetta.
1. Cristo elesse gli umili e volle nascere in umile provincia
2.Giudea suddita e povera provincia
3. Giove dove è contenuto e natura di quello. Marte.
Parendo al poeta aver ne' precedenti sonetti in qualche parte se stesso del suo amoroso errore, e Madonna Laura di viltà scusato: e volendo dar principio alle lodi di lei, mostra ora in questo, per più esaltarla, che ricorrendo con la memoria a quel tempo, che la prima volta l'aveva veduta, per volerla di quella tanto eccellente bellezza descrivere, che in quel tal tempo ella era, e misurando con tanto soggetto lo 'ngegno, come n'ammaestra Oratio nella
Poetica
dicendo,
Sumite materia vestris, qui scribitis, aequam viribus: et versate diu, quid ferre recusent, quid valeant humeri
: mostra trovarsi tutte le cose necessarie mancare. Nè altra esposizione li daremo, essendo per se stesso molto facile, e chiaro.
Oratio nella
Poetica
che lo scrittore prenda materia dalle sue forze.
Ha il poeta nel precedente sonetto dimostrato, quanto egli fosse mal sufficiente a dover le lodi di Madonna Laura dire. Ora in questo dimostra il simile avvenirli in quelle del suo bel nome: il quale non per quello di Laura, essendole da lui per più dolce, e sonoro concento stato attribuito, l'intende, ma di Lauretta come dal diminuitivo del Lauro, la lingua latina imitando, ella si domandava perché nella sua provenzale al Lauro dicono Lozier, et in lingua francese Lorier.
Ha adunque questo nome di Lauretta tre sillabe, delle quali la prima si è Lau che laude vuol che significhi, la seconda ch'è Re, reale, la terza ch'è Ta, vuol che significhi tacere. Onde dice, movendo egli i suoi sospiri a chiamar lei, et il nome ch'Amor li scrisse et affisse nel cuore, che di fuori ne' suoi primi accenti, per la sillaba Lau, s'incomincia udir laudando: poi venendo alla seconda, che Reale vuol che significhi, dice, che tale accento raddoppia poi il suo valore all'alta impresa di doverla nominare e dir di lei: ma che la terza sillaba glielo vieta, et ammoniscelo che debba tacere: perché a farle onore è soma da più forti omeri de' suoi, cioè impresa da più eccellente ingegno del suo. Adunque dice, che la medesima voce insegna laudare e riverire, pur che sia chi ivi chiami o donna degna d'ogni riverenza, e onore, se non che forse Apollo si disdegna, ch'a parlare dei suoi rami sempre verdi, al nome di lei, et alla favola di Dafne trasformata in lauro alludendo, la lingua mortale venga presontuosa, e temeraria. Adunque ammonito dal fine del nome stesso, giudica che sia da tacerlo. La notissima favola di Dafne è da Ovidio nel j. libro del
Metamorfosi
recitata.
Lauretta era il nome vero di Laura
Lauro in lingua francese detto Lorier
Lauretta divisa in tre sillabe, quello che significa, espone il Petrarca.
Nei precedenti sonetti il poeta oltre alle scuse fatte del suo amoroso errore, ha la bellezza col bel nome Madonna Laura lodato ora e questo tornando ad essa sua bellezza lodare, e a dolersi non poterle, per troppo timore, il suo concetto esprimere, fa comparatione dal Sole a la terra; quando nel tempo della Primavera co' suoi raggi la scalda, a Madonna Laura e lui; quando dai raggi dei begli occhi di lei egli è riscaldato: avvenga, che piu perfettamente il Sole in quella, che Madonna Laura in lui mostra che operi: perché il Sole genera dentro della terra quelle radici, che poi producano alla superficie le foglie consequentemente i fiori che fanno Primavera per lei: e Madonna Laura avvenga che generi dentro in lui quei pensieri, da quali sono poi generati gli atti, ch'egli gli aveva pensato voler usare, e consequentemente le parole ch'egli intendeva voler dire, no fa però tanto, che possa queste in forma aprire, che faccian Primavera per lui.
Vi sa adunque descrizione di tempo dicendo, che quando il pianeta, che distingue, che separa e divide l'ore, il qual effetto è proprio del Sole, si ritorna ad albergar col Tauro, si ritorna ad entrar sotto tal segno, che dall'infiammate corna di quello cade virtù, per la quale il mondo si veste di color novello: perché riscaldando egli coi suoi raggi in tale stagione, come abbiamo detto, la terra, quelle radici, delle cui foglie la contraria stagione aveva spogliato il mondo, si dispongono a volerlo un'altra volta di quelle rivestire. E non solamente che adorna poi le rive e i colli di fioretti, appositive quel che s'apre a noi di fuore, ma dentro dalla terra dove mai non s'aggiorna, cioè dentro alla quale mai non si sa giorno, ma sono sempre tenebre, essa virtù fa gravido il terrestro umore di sè, onde, cioè perché, tale, rispetto alla qualità, e simile frutto, rispetto alla similitudine di quello, che dalle vecchie radici era prima stato prodotto, si colga, cioè si possa cogliere. Perché la virtù del Sole, che ha fatto gravido esso terrestro umore di nuove radici, la dispone ancora a producer alla superficie foglie, e fiori tali e simili a quelli, che dalle vecchie radici già erano stati prodotti. Così dice che Madonna Laura che tra l'altre donne è un Sole, muovendo in lui i raggi dei suoi begli occhi, vi crea pensieri, atti, e parole d'Amore: ma che ella come, o in ogni modo se li governi o volga, per lui non è mai Primavera, com'è per la terra, mediante la virtù dei raggi del Sole: perché, sicome il Sole per la virtù dei raggi crea dentro della terra le radici, e poi le dispone di producer fuori l'erbe, e consequentemente i fiori, i quali facendo poi aprire viene a fare Primavera per lei; cosi vuole inferire, che Madonna Laura muovendo i raggi dei suoi begli occhi in lui crea dentro quei pensieri d'Amore, da quali nascono poi di fuori gli atti e le parole, che egli, alla presenza di lei essendo per volerle i pensieri generati di dentro aprire, aveva pensato voler usare: ma come, o in che modo ella governi o volga essi suoi occhi non sia mai che egli possa esprimere, e aprire esse parole in forma, che possano essere intese, e facciano Primavera per lui: anzi assalito da quel timore, che nasce da loro troppo lucente bellezza, gli nega il poterle apertamente in luce, com'egli desidera, producere, onde nell'ultima stanza di quella canzone, Poi che per mio destino, solamente quel nodo, che Amore circonda alla mia lingua, quando l'umana vista il troppo lume avanza fosse disciolto, i prenderei baldanza di dire parole in quel punto si nuove, che farian lagrimar chi l'intendesse: ma piu chiaramente in tutto quel sonetto piu volte già dal bel sembiante umano, et in quello, perché io ti abbia guardato di menzogna, lo dimostra.
Vuole adunque il poeta inferire, che quando egli avesse di tali atti e parole possuto usare, ch'egli avrebbe forse fatto muover Madonna Laura a compassione di lui, non essendo cosa, che tanto muova gli animi, quanto gli atti e le parole. Onde nel terzo capitolo del Trionfo d'Amore di Madonna Laura parlando, Ella mi prese, e io ci avrei giurato difendermi da uomo coperto d'arme. Con parole e con cenni fui legato. E nella vij. stanza di quella canzone Vergine bella, che di Sol vestita, Mortal bellezza, atti, e parole m'hanno tutto ingombrato l'alma. Sono alcuni, che per quel verso, Onde tal frutto e simile si colga, intendono essere stato un presente di tartufi, che il Poeta mandava a donare. E per quell'altro, Primavera per pur non è mai, che non poteva pur mai il suo amoroso desiderio conseguire, la quale opinione a noi per tutti i rispetti in alcun modo non piace.
Il Tauro è il secondo de'xij. segni del Zodiaco, nel quale il Sole entra del mese d'Aprile. Ma, a ciò che meglio s'intenda; e perché ancora in molti altri luoghi dell'opera potrà servire; porrò brevemente il sito di tutti i cieli. E dunque nell'ottavo Cielo il cerchio chiamato Zodiaco, che tutt'il Cielo circonda, distinto in xii. segni figurati in forma d'animali. Questi sono Ariete, Tauro, Gemini, Cancro, Leone, Vergine, Libra, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Aquario, e Pesce. Sotto questa 8 sfera sono sette altre sfere, e ciascuna è un pianeta: di questi il più alto è Saturno, poi per ordine sono Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna: questa è la più bassa di tutte e più pinqua alla terra. Discorre ciascuno di questi pianeti sotto il detto Zodiaco, nè mai di quello escono. Onde il sole, che sempre fa il corso di tutto il Zodiaco in un'anno, viene ad entrare poco lunge dal xii. d'Aprile nel primo grado del Tauro.
Comparazione degli effetti, che produce il sole a quegli, che produce Madonna Laura nel Petrarca.
Primavera quando comincia.
Niuna cosa tanto mover gli animi, quanto gli atti e le parole.
Zodiaco e sua descrizione.
Nel precedente sonetto abbiamo veduto, come i pensieri, arti, e parole d'amore che dai begli occhi di Madonna Laura erano nel nostro poeta creati, che da quelli medesimamente, per lo timore, che dal troppo amar la loro bellezza nasceva, gli era negato che esprimer non gli poteva. Onde ora in questo, non vivendovi egli altro rimedio, mostra desiderare di potersi tanto dalla morte difendere, che Madonna Laura sia fatta vecchia: perché quando vedrà il lume dei suoi begli occhi spento, i capei d'oro fatti canuti, e il viso scolorire, che lo faceva nei suoi danni, che per la bellezza di quello pativa, pauroso e lento, al lamentare, cioè a lamentandosi narrarle le sue amorose passioni; dice, che amore gli darà pure allora tanta baldanza, cioè tanto ardire, che le potrà discoprire, quali siano stati gli anni, i giorni, e l'ore dei suoi martiri, quello che per le narrate sue bellezze allora non poteva fare; soggiungendo, che se bene il tempo e l'età senile è contraria ai bei desideri amorosi; che non farà, che almeno non giunga al suo dolore alcun soccorso di sospiri, che ella, udendo narrare quanto per amarla egli abbia sofferto, pietosamente manderà fuori, avvenga che tardi e fuori di tempo faranno.
L'età senile è contraria ai disiri amorosi.
Ha il poeta nei due precedenti sonetti i begli occhi di Madonna Laura lodati, e detto quali affetti avevano forza d'operar in lui. Ora in questo narra quello, che seguiva, quando egli volgeva gli occhi a lei, e quello, quando ella si partiva da lui, dicendo, che quando egli gira gli occhi a lei, per la quale sola (a ciò che possa di lei pensare) egli per la sua solitaria e salvatica vita, come in quello sonetto, Solo et pensoso i più deserti campi, dimostra, è diviso e separato dal mondo; che dal viso li piovono amare lagrime accompagnate d'angosciosi sospiri, tanto vuol inferire, che sia la pietà, che nel veder la cagione del suo incendio le viene. Onde ancor in quella canzone, Di pensier in pensier, di monte in monte, a tal proposito, poi che a me torno, trovo gli occhi molli della pietade. E dice esser ben vero, che il mansueto e dolce riso, di lei, mentre ch'egli è intento e fisso a rimirarla, acqueta pure alquanto i suoi ardenti desideri, per essere parte di quello che desidera; e lo sottragge, e leva al foco de' martiri, cioè al foco, dal quale prima ch'egli la vedesse ridere, i suoi martiri nascevano: ma che poi, quando al dipartire vede gli atti e' modi soavi da lei nel pigliar licentia tenuti, che torcano e partono da lui i begli occhi di lei, i quali essendo egli a seguitar destinato, erano sue fatali stelle; che allora gli spiriti suoi s'agghiacciano, perché mancano della cagione; dalla quale erano prima riscaldati. Ma l'anima ultimamente, che per tal gielo era ristretta al cuore, largata con l'amorose chiavi, cioè con gli amorosi sguardi, esce d'esso cuore per seguir lei, partendosi con molto grave e profondo pensiero, come ad ogni amante sempre, quando la cosa amata da lui si parte, amorosamente parlando, suol avvenire.
Chiavi amorose, quello che significano.
Seguita il poeta nel presente sonetto in lodar di Madonna Laura la bella e splendida faccia, nelle sue amorose querele, dimostrando esser di natura simile alla farfalla: perché, sicome quella si diletta della prima virtù del fuoco, la quale si è risplendere; così ancora egli dice dello splendor, che dal bel viso di lei li suol venire, delettarsi; e poi, sicome la farfalla andando dentro in quello, credendosi forse, perché splende, di gioire, prova l'altra sua virtù, quella che ha da incendere; cosi guardando egli in lei dice, che resta inceso e arso, e non esser forte da poter aspettar la sua luce, come fanno alcuni animali quella del sole, fra quali l'aquila n'è uno; nè sapersi da tanta luce, con cercar luoghi tenebrosi, o veramente ore tarde, schermire, come far sogliono le nottole, civette, guffi, e simili, per fuggir la luce del sole, essendo destinato a doverla andar a vedere, avvenga, ch'egli conosca andar a veder cosa, che l'arde, consuma, e strugge.
Proprietà e costume di diversi angeli.
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato, com'egli non era forte da poter spettar la luce del bel viso di Madonna Laura e che da quella era consumato e arso. Ora in questo dimostra, che non solamente per tal cagione fuggiva la luce di quello, ma il suo reflesso ancora, quando alla propria luce si sentiva approssimare, onde quasi in questa forma dice: Quando io son tutto volto a mirar in quella parte; cioè in quel luogo; dove luce d'esso bel viso m'è rimasa nel pensiero, quanto quella tal luce abbia forza d'operar in me, perché a parte a parte m'arde e consuma; temendo del cuore, il quale mi si parte, cioè mi si divide, e veggio presso'l fine, e veggio presso la cagion del fine della mia luce, della mia vita; vommene, per non morire, senza luce in guisa d'orbo, che quantunque non sappia, dove si vada, nondimeno si parte per andare perché vuol inferire, che andandosene ancora egli senza la luce del bel viso di lei, non fa dove, o in quale parte si vada.
E così dice fuggo davanti a colpi della morte, ma non sì ratto, ma non si tosto, ch'il desiderio di tornar a lei per vederla non venga meco, come suol venire, soggiungendo, che va tacito e senza parlare: perché le parole morte e non ben espresse da lui, se fossero intese dalle persone, farebbero pianger per la pietà dei suoi tormenti, quei tali che intendessero: ma egli dice desiderar, che le sue lagrime si spargano sole, non con quelle dell'altre persone accompagnate: e in sentenza, a ciò che i suoi tormenti e amorosi affanni non siano da altri, che da lui stesso intesi. Altri intendono che il poeta parli della propria luce del bel viso, e non del suo reflesso: ma noi non veggiamo, che il testo lo dica.
Parte invece di dividere.
Ratto, tosto.
Il presente sonetto fu fatto dal poeta essendo Madonna Laura da certa infirmità oppressa; della quale, credendo egli, che ne dovesse morire, lauda mirabilmente l'anima di lei, la cui bellezza esalta sopra tutta quella dell'erranti e fisse stelle. Ma, perché del sito dei cieli e dei pianeti abbiamo detto in quel sonetto, quando'l pianeta, che distingue l'ore; non accade ora in questo luogo replicare. Dice lei della presente vita anzi tempo partirsi, rispetto alla sua giovenile e poca età. Per ciascuna delle tre stelle, che saranno meno belle di lei, intende quella di Venere, Mercurio, e Luna: e che nel quinto giro non abiterebbe, per esservi la stella di Marte, pianeta crudele e empio, molto diforme alla benigna natura di lei, come in quel sonetto quel che infinita providenza e arte, abbiamo veduto.
Quali sono le stelle descritte dal Petrarca.
Abbiamo veduto del precedente sonetto Madonna Laura essersi infermata, e il poeta di tal infermità dubitare. Ora in questo, perché forse ella s'era da essa infermità più forte aggravata, maggiormente mostra, che dubiti: onde d'Amore, di Natura, e di Madonna Laura si duole. D'Amore, perché mediante la morte di lei procuri quella di lui, di Natura, per tener Madonnna Laura in vita con un sì gentile e debile laccio, che nullo, cioè, il quale nessuno sforzo è che sostegna, cioè che possa sostenere, onde non è da sperare, come vuol inferire, ch'ella debba lungamente vivere, di Madonna Laura perché abbia a schifo di piu star in questa vita, e non si curi di lui, che senza lei, come vuol inferire, poteva mal fare. E così dice a poco a poco mancarle lo spirito, talmente, che se pietà non stringe'l freno a Morte: cioè, che se morte non ha pietà di lei, o veramente di lui, che vede ben in che debile stato sono quelle vane amorose speranze, nelle quali egli soleva vivere; perché mancando Madonna Laura ancora quelle di necessità venivano a mancare.
Nullo invece in niuno.
Seguita il poeta nel suo dubitare, e a dolersi dell'infermità di Madonna Laura che ne' due precedenti sonetti abbiamo veduto, quasi in questa forma dicendo, che prima, ch'ella s'infermasse, egli sì vivea senza lagrime, e senza portare invidia ad alcun altro amante, per destra e favorevole Fortuna ch'avesse, essendo l'amor suo di qualità e forte, che mille piaceri, ch'altri amanti avevano dalle loro amate, non erano d'agguagliare ad un solo tormento de' suoi. Ma che allora, per tale infermità, i begli occhi erano da tale e tanta nebbia coperti e aggravati, ch'a similitudine del sole, quando a noi viene ad esser oscurato da quella, e in parte la sua luce spenta, essa nebbia de' suoi begli occhi, dice quasi aver spento il sol della vita di lui, per il bel viso di lei inteso. Onde alla Natura madre del tutto esclamando, la chiama pietosa, per aver prodotto al mondo tante leggiadre cose, quanto le bellezze di lei erano, e fiera per disfarle poi, che fatte l'avea, domandando, donde venga tal potere, e sì contrarie voglie. Et a se stesso rispondendo conchiude, ogni poter accogliersi e venirle da un vivo fonte e sommo principio, cioè dal sommo e sempiterno Padre Dio: al quale, come a prima cagione, volgendo 'l parlare domanda, com'egli consente che altri, cioè, che essa Natura ne spogli del suo caro dono, che da lui una volta n'era stato fatto.
Natura madre pietosa e fera.
Volse il poeta, nel presente sonetto come quello, che per cagione dell'infermità di Madonna Laura della quale ne precedenti abbiamo detto, era in continua sollecitudine, di mostrare, ella esser ivi all'Aurora venuta in visione a confortarlo, in quattro modi, tal ora per circoscrizione significando. Il primo, per la stella di Venere, che quasi all'apparire d'essa Aurora si comincia in Oriente fuori dell'orizzonte a dimostrare. Il secondo per l'Orsa Maggiore, che a tal ora, essendo l'altre minori stelle dalla luce d'esta Aurora spente, si vede lucente e bella nel Settentrione intorno al nostro Artico Polo co' suoi raggi rotare: imitando Luca, nel secondo libro, ove dice:
Sed nocte sopora Parrhasis obliquos elice converteret axes
. Fa gelosa Giunone, perché fu da Giove in corpo umano amata, conosciuta, e fatta gravida, come nella favola di Calipso recitata da Ovidio nel secondo libro del
Metamorfosi
abbiamo.
Il terzo per la vecchiarella che tal ora usa di levarsi per filare nella forma, ch'egli ad imitazione di Virgilio nell'ottavo dell'Eneide espone, ove dice:
Ceu foemina primum., cui tollerare colo vitam, tenuit; Minerva, impositum cinereo, et sopitos suscitat ignes
. Il quarto modo per gli amanti, che per non manifestare i loro furti, essendo da tal ora costretti a deversi partire, sono invitati a lagrimar, perché vorrebbon che'l giuoco fosse senza fine. Onde in quel sonetto: La sera desiar, odiar l'aurora Soglion questi tranquilli e lieti Amanti. Dice adunque in sentenza ch'era l'Aurora, quando Madonna Laura sua speranza già condotta al verde, già condotta presso al fine, li giunse nel cuore, pigliando la similitudine dell'accesa candela, il cui lume è allora appresso al fine, che s'approssima al suo verde. Ma non per l'usata via de gli occhi, che, cioè, i quali il sonno tenea chiusi, e per il dolore erano dalle lagrime fatti molli. Et esclamando dice, Oimè quanto è ella nell'aspetto cangiata da quello, che avanti, ch'ella s'infermasse, soleva essere, imitando Virgilio nel secondo, ove parlando d'Ettore in persona d'Enea dice,
heu mihi qualis erat: quantum mutatus ab illo Hectore: qui redit, exuuias indutus Achillis
. E che Madonna Laura per confortarlo pareva che 'n vista li dicesse, Dov'è 'l tuo valore e l'usata virtù? Perché perdi e manchi d'animo, da che non t'è ancora tolto il poter vedere questi occhi, avvenga che ora, in quella forma che tu vorresti e tanto desideri, conceduto non ti sia?
1. Stella di Venere, quando si dimostra.
2. Virgilio della femina, che leva per i suoi lavori.
Il presente sonetto, per quanto giudicar possiamo, fu fatto dal poeta, essendo Madonna Laura, dall'infermità che nei precedenti abbiamo detto, liberata, e da Gabrieres, per andar a sant'Antonio d'Arli a soddisfar un voto fatto da lei in tale infirmità, partita. Il quale santo hanno in quel paese in somma venerazione. E perchè, in quei giorni ch'ella stette nel viaggio, fece un pessimo tempo di piogge, folgori, tuoni, e venti, il poeta, al quale tal partita non era molto piaciuta, finge che per quella Giove, Saturno e Marte con ogni rea costellazione, e Eolo re dei venti, avessero preso ardire di mostrare tutto il lor furore: la qual cosa, quando ella era in quel luogo, non potevano mostrargli. Come veggiamo in quel sonetto, Qui dove mezo son, Sennuccio mio, ove dice: Tosto che giunto all'amorosa greggia Vidi, onde nacque Laura dolce e pura, ch'acqueta l'aere, e mette i tuoni in bando. Onde dice che quando, e ogni volta, che l'arbore di Lauro (al nome di lei alludendo) che fu da Phebo in corpo umano amato; come nella favola di Dafne da Ovidio nel primo libro del
Metamorfosi
si recita; parte dal proprio sito e luogo, ov'è consueto stare, che Vulcan Fabbro di Giove, s'adopra e suda all'opera, cioè a fabbricargli l'aspre saette, per che ora fa tonare, ora nevicare, ora piovere. Senza onorare più Cesare che Giano, cioè senza avere rispetto più a mesi di state, ch'a quelli del verno. Intendendo per Cesare il mese di luglio e quel d'agosto, perché prima erano nominati da numeri, quintile e sestile, come gli altri che seguono, settembre, ottobre, novembre e dicembre: ma Cesare dal suo nome Giulio, denominò l'uno, e Ottavio Cesare dal suo cognome Augusto denominò l'altro, ch'agosto volgarmente diciamo, e così da Giano antichissimo re dei latini, fu detto 'l mese di gennaio. La terra piagne, essendo dalla pioggia bagnata. E 'l sol ci sta lontano, per esser i suoi raggi in alto ritenuti da' nuvoli, che, cioè perché vede in alto la sua cara amica, pur alla detta favola alludendo.
Onde tutte le crudeli, e empie stelle, veduto Giove per essere irato, pigliano ardir di metter ogni cosa in estrema ruina. Et Eolo re dei venti turbato, e ancora egli irato fa sentire a Nettuno, e a Giunone, cioè al mare e all'aria, per aver l'un di quella e l'altro di quello il dominio, che 'l bel viso di Madonna Laura aspettato da gli angeli in cielo, si parte dal suo luogo e proprio albergo. E così ancora a noi, perché per mare, per aria, e per terra fa sentir il suo furore.
La stella di Saturno è contenuta nella settima sfera. Questo pianeta è diurno, mascolino, freddo, e secco malinconico, timido, vecchio, pigro, sterile, maligno: e benché più degli altri sia dalla terra remoto, nondimeno è più nocivo. Di Marte dicemmo in quel sonetto Quel, che infinita providentia et arte. Orione, secondo i poeti e che Iginio scrive, fu figliolo del re Enopion, ma generato dell'orina di Giove, Nettuno, e Mercurio, occiso da Diana per averla voluta violare, da gli dei in una costellazione, che 'nduce tempesta e pioggia convertito. Armato dice ad imitazione di Virgilio nel iii. libro dell'
Eneide
ove dice
Armatumque; auro circunspicit Orina
.
Cesare e Giano, quello che qui significa.
Mesi onde detti.
Stella di Saturno.
Nel precedente sonetto abbiamo veduto, che per la partita di Madonna Laura da Gabrieres, Giove, con ogni crudel pianeta, e rea costellazione, e Eolo, aver avuto ardire di mostrar ciascuno il suo furore, onde ora in questo, per il ritorno di lei, mostra in sententia non solamente esser quetato ogni furore, ma tutte le cose, ch'erano state turbate averle tornate nel suo migliore stato. Bellezze nuove intende, per bellezze rare.
L'antichissimo fabbro siciliano si è Vulcano, di Giove e di Giunone figliuolo. Di Giove perché dallo elemento superiore, ch'è Giove, sono nell'aria, ch'è Giunone, accesi i terrestri vapori, del quale accendimento per Vulcano inteso, sono generati i folgori. Fingono i poeti, ch'egli stia in Sicilia nel monte Etna, altrimenti Mongibello, a fabricar le saette a Giove, perché essendo 'l monte cavernoso e sulfureo, quasi continuamente sono gettati da venti fuori di quello le fiamme accese.
La sorella di Giove si è Giunone, essendo ciascuno di Saturno figliuolo; et è (come abbiamo detto di sopra), per aria intesa. Il fiato, che si move del lito occidentale, intende per il vento Zefiro, che suole spirar di Primavera, e far sereno l'aere. Adunque pareva, che quello A mano a mano, cioè a poco a poco, si rinovasse, e Nel bel guardo d'Apollo, cioè ne' raggi solari tornasse lucido e chiaro. Viso innamorato dice, per esser quello (come vuol inferire) pieno d'amore, onde ancor in quella canzone Poi che per mio destino, de gli occhi di lei parlando, Pace tranquilla senz'alcun affanno, Simil a quella, che nel cielo eterna, Move dal loro innamorato riso.
Vulcano di chi figliuolo e sua allegoria.
Giunone.
Zefiro, vento occidentale.
Abbiamo nel precedente sonetto veduto, che per il ritorno di Madonna Laura a Cabrieres, era quetato ogni furor del cielo, e de' venti, che prima per la sua partita, era in quel luogo venuto. Ora in questo, fatto per le medesime rime, il poeta vuole significare le cagioni, perché l'aria era però rimasa alquanto turbata e non si era rischiarita, come a mano a mano aveva detto che ella faceva: onde, dice che 'l sole, il quale, come di sotto vedremo è figliuol di Latona, già nove volte, cioè nove giorni, che Madonna Laura era stata nel viaggio, e che ancora non era tornata, aveva guardato dal balcone soprano cioè aveva guardato dalla sommità del cielo per quella, che mosse un tempo in vano i suoi sospiri, alludendo alla favola di Dafne, della quale abbiamo di sopra detto. Et hor gli altrui comove intendendo, de propri sospiri di lui, ma poi dice, che non trovandola, e essendo stanco di cercarla, si mostrava a noi turbato e pieno di doglia, come fa colui, che cerca e non trova la cosa molto amata e desiderata da lui, e questo, perché in parte era ricoperto da nuvoli, onde standosi così tristo e 'n disparte, non vide tornar Madonna Laura perché mosso a compassione di sé medesimo, che per il dolore era cangiato, cioè, che l'aere era turbata, in parte lacrimava, perché alquanto piovea, e questa mostra esser la cagione, perché l'aria ritenne il primo stato d'essere turbata come di sopra in quel sonetto Quando dal proprio sito si rimove, abbiamo veduto, benché i folgori, i tuoni, le gran pioggie, e venti fossero quetati.
Latona dea, come diffusamente recita Servio, nell'espositione del iii. libro dell'Eneide, ove Virgilio narra Enea esser giunto nell'isola di Delo, fu conosciuta e fatta gravida da Giove, e in essa isola partorì Febo e Diana, che per il sol, e per la luna sono interpretati.
Il sole figliuolo di Latona.
Servio nella espositione del terzo libro dell'Eneide.
In questo madrigale, facile per se medesimo, il nostro innamorato poeta drizzando a Madonna Laura il suo parlare, altro in sententia non vuole inferire, se non, ch'essendosi ella aveduta della dolcezza, ch'egli pigliava in veder i biondi suoi capelli, con l'amoroso sguardo de' begli occhi, che per farli ingiuria, e acciò non li possa più veder, abbia preso a portar sopra di quelli un velo: perché prima che di questa sua dolcezza s'accorgesse, se li mostrava pietosa, graziosa, e umana; e poi, che nè per Sole, né per caldo, né freddo, mai non l'ha lassato di portare talmente, che quella cosa, la qual disiderava più da lei, dice esserli tolta per mezzo del velo. Onde ancora di sotto in quel sonetto Orso, e non furono mai fiumi né stagni, veggiamo con esso Orso di quello similmente molto dolersi.
Nel precedento madrigale abbiamo veduto le querele fatte dal poeta verso di Madonna Laura del velo, che la vista dei suoi biondi capelli, e de' begli occhi gli toglieva. Ora in questo di tal cosa medesimamente si duole: e mostra, che quantunque la vista di quelli da' quali, come vuole inferire, fu tratto ad amare, li sia tolta per alcuna colpa, non essergliene però tolta la ferma voglia, la quale ha di vedergli, narrando'l mondo per lo quale lo trassero ad amare, e come se ben allora glien'era tolta la vista, non voler però esser dall'amoroso nodo sciolto, acquistandosi, come dice, per ben morire onore. Onde Prop. Laus.,
In amore mori
. Per altrui colpa, intendendo, che la colpa sia di lei e d'Amore: onde ancora in quella canzone, Ben mi credeva passare mio tempo ormai, a ciascuno d'essi due parlando, La colpa è vostra, e mio il danno e la pena.
Il laccio nascosto tra le chiome d'oro, intende per la bellezza di quelle, dalla quale egli era stato preso e tratto ad amare: onde ancora in qulla canzone Amore se vuole ch'io torni al gioco antico, Dal laccio d'or non sia mai chi mi scioglia, E per lo freddo ghiaccio amoroso dai begli occhi, quel timore, che da grande ammirazione alcuna volta nasce: come in quel sonetto non pur quell'una bella ignuda mano, ove dice. Gli occhi sereni, e le tranquille ciglia, La bella bocca angelica di perle, Che fanno altrui tremar di meraviglia.
Properzio esser lode morire in amore.
Laccio d'oro quello che significhi.
Il presente sonetto fu mandato dal poeta al suo amico Orso: nel quale, siccome ha fatto ancora nei due precedenti madrigali si duole del velo, che Madonna Laura aveva preso a portare in testa, perché lassandolo cadere davanti agli occhi, li toglieva la vista di quelli. Onde dice non esser impedimento alcuno, che ingombri più l'umana vista, del quale egli si doglia tanto, quanto fa d'esso velo, che adombra i due begli occhi di lei; il quale pare propriamente che dica, ch'egli si debba del desiderio, c'ha di quelli, consumare e piangere, e del loro inchinare, che non sa se per umiltà, o per orgoglio, quando scontrandosi in lei ella'l faceva, e della bianca mano, la quale spesse volte interponendo s'era fatta contra dei suoi occhi scoglio, cioè, impedimento a quelli di lei, (come desiderava) poter vedere.
Scoglio, invece d'impedimento.
Nel precedente sonetto abbiamo veduto il poeta essersi con Orso, amico suo, doluto dei duri modi, che Madonna Laura verso di lui teneva. Ora in questo a lei dirizzando il suo parlare, di quelli medesimamente si duole, esortandola per lo bene di lei, al deversi mutar d'opinione, quasi in questa forma dicendo che se per tal modi, o per cosa, che mai ella sappia fare, potesse uscirli del petto, cioè del cuore, nel quale dal primo lauro, alla favola di Dafne, e al nome di lei alludendo, Amor innesta, cioè Amor incerta, o insegna, più rami, piu suoi ornamenti, intesi per le parti singolari di lei. Onde ancora in quel sonetto, Amor con la mano destra il lato manco, fama, onore, e virtute, leggiadria, casta bellezza in abito gentile, son le radici della nobile pianta, tal la mi trovo al petto, ove ch'io sia: che direbbe bene, ch'a suoi sdegni questa fosse giusta cagione, perché una gentile pianta (stando nella traslatione) come vuol inferire, ch'ella era, par che si disconvenga in terreno arido, come a rispetto di lei egli si reputava essere: ma da poi, che'l destino di lei le vie sa al poter esser in altro luogo, che nel petto di lui, dice, ch'ella debba almeno provedere di non star sempre in parte odiosa: cioè, ch'ella si debba contentar di quello che vuol il suo destino, e non potendo altrimenti fare, portarsele in pace.
Imitando Ovidio nel terzo de Ponto, ove scrivendo a Cotta dice:
Denique quae mecum est, et erit fine, cavete, ne fit in inviso vestra figura loco
.
La mi trovo invece di me la trovo, modo famigliare del Petrarca e del Boccaccio.
Ovidio.
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato a Madonna Laura la guerra, che da suoi begli occhi gli era fatta e alla esortata, per il ben di lei, a doversi contentare d'esser amata, da lui. Ora in questo, a quel medesimo la esorta, per la grave colpa ne la quale, ella potrebbe incorrere discacciando il cuor di lui, che 'n premio della pace, che da essi suoi begli occhi aver desidera, le vuol dare: perché non potendo esso cuore stare in altri, che 'n lei sola, se da lei fosse discacciato, di necessità bisognerebbe che venisse a perire. Onde dice, che per aver con quelli pace, le ha profferto mille volte il cuore: cioè che infinite volte ha fatto prova di darsi per soggetto a lei, alla quale non piace d'abbassarsi tanto, che si degni volerlo accettare: e che se forse altra donna spera d'averlo, che quella, che quella tal donna vive in debil e fallace speranza, perch'egli non lo potrebbe giamai dare ad altra donna, ch'a lei: cioè che altra donna non ne potrebbe mai amare. E, perch'egli sdegna, e tiene a vile tutto quello, che non piace a lei, che questo cuore non può esser più suo, né può essergli più tanto in grazia quanto era prima, che da lei fosse disprezzato. Onde dice ch'egli lo scaccia, come cosa, che dispiace a lei, e esso cuore, che nel suo misero esilio non trova alcun soccorso in lei, né sa star solo, né per la ragion detta di sopra, andar, ove che sia altra donna, che lo chiami, potrebbe smarrir il natural suo corso, e mancar di vita, non potendo 'l cuore senza corpo vivere. Adunque dice, che grave colpa sia d'ambedue noi; cioè che grave colpa e peccato sarà di voi e di me lassando'l perire, e tanto più di voi, quanto ch'egli v'ama più, che non fa me: volendo inferire, che la colpa di lei sarà, rispetto a quella di lui, gravissima.
Proferire il cuore
La presente stanza altro in sententia non contiene, se non che il poeta parlando al suo signor amore, mostra di volerlo mover a far vendetta dell'uno e dell'altro di loro contra Madonna Laura essendo ciascuno da lei offeso, perché dice ch'ella disprezza il Regno di quello, e non cura del mal di lui; mostrando questo essergli agevol cosa a fare, essendo egli armato ed ella privata di tutte le arme: ma non a lui, essendo, come vuol inferire, di ciascun di lor due prigione.
Abbiam di sopra veduto il poeta dolersi dello sdegno, che Madonna Laura verso di lui mostrava avere, e della poca stima, che di due amorose passioni ella faceva. Ora, nel presente sonetto, mostra aver trovato la cagione, donde questo venia: la qual era perché guardando ella nello specchio, non le bellezze di quello, ma le bellezze de' propri occhi, s'era per sì fatto modo di quelli innamorata, che non si curava più di lui. Onde dello specchio dolendosi dico, che per consiglio di quello, il quale meritamente così essendo, chiamò suo avversario, in cui, nel qual specchio ella vuol vedere e' suoi begli occhi, ch'onorarono Amore e 'l Cielo, e il quale specchio la innamora non con le sue bellezze, ma con le bellezze d'essi suoi occhi, come vuol inferire soavi, e liete più che in mortale guisa, cioè bellezze soavi e liete, oltre l'umano uso, lo aveva scacciato da lei, la qual era il suo dolce albergo, avvenga, ch'egli d'un tanto abitacolo fosse indegno, perché ella sola, cioè l'anima di lei n'era degna: ma dice, s'egli era in quella fisso con saldi chiodi, cioè v'era stabilito con forti e tenaci legami, come l'affezione ch'ella aveva dimostrato verso di lui denotavano, non dovea lo specchio, piacendo ella solamente a se stessa, farla aspra contra di lui e per suo danno.
Ma, che certamente ella si ricorda di Narciso, il quale ancora egli di se steso innamorandosi, fu trasformato nel fiore del suo nome, come nel II libro del
Metamorfosi
si recita, che questo corso, cioè questo destino di lei, e quello d'esso Narciso, vanno ad un termino, vanno ad un fine. Perché ancora lei, vuol inferire, che s'era trasformata in fiore, benché di sì bel fiore sia indegna l'erba, benché l'erba sia indegna di sì bel fiore, quant'ella sarebbe, quando, come Narciso, fosse trasformata in fiore.
Specchio avversario del Petrarca
Corso preso per il destino
Seguita il poeta, nelle sue querele, dolendosi de' leggiadri e belli ornamenti che Madonna Laura usava portare, e specialmente de' fiori di diversi colori, ch'ella quantunque fosse nella contraria stagione, aveva modo d'avere: perché tutti questi aggiungevano grazia alle sue bellezze, le quali a lui venivano tutte ad essere saette al cuore. Onde dice che sono per lui stecchi acerbi e velenosi, ch'egli per lo petto e per i li fianchi prova, e che per questo i dì suoi saranno lagrimosi et manchi, et più brevi in numero di quelli che altrimenti sarebbero, che, cioè per che rade volte avviene, ch'un gran dolore invecchi: non potendosi un grande e smisurato dolore lungamente tollerare. Ma de' fiori e dell'erbe, che fosser verso di lui armi offensive, veggiamo anco in quella canzone, Poi, che la dispietata mia ventura, che dice, In ramo fronde, over viole in terra, mirando alla stagion, che'l freddo perde, e le stelle miglior acquistan forza, negli occhi ho pur le violette ed il verde, di ch'era nel principio di mia guerra Amor armato sì, ch'ancora mi sforza.
Ma più gravemente torna a doler degli specchi, come nel precedente ha fatto, dicendo ella avergli stanchi in vagheggiar se stessa, per lo continuo riguardar in quelli, e che furon cagione, ch'amore, il quale per lui la pregava, si tacesse, poi che per il mezzo di loro egli la vide in se stessa il suo desiderio finire, cioè poi che la vide di se stessa esser innamorata, e biasimando pur gli specchi, dai quali dice che nacque il principio di sua morte, cioè dei suoi amorosi tormenti, fa che fossero fabbricati sopra l'acqua d'abisso, sopra il fiume di Lethe, che significa oblivione, per che essi eran stati cagione che Madonna Laura l'aveva dimenticato, e che più di lui non curava. Sono alcuni, i quali intendono per oro l'aurate chiome di lei, per le perle i candidi denti, come ancora in altri suoi si intendono, e per i vermigli e bianchi fiori, la bianca e colorita faccia, la qual opinione ancora a noi piacerebbe, quando questo vero che 'l verno decuria far languidi e secchi, per lo qual essi intendono, che l'età senile li decrebbe spegnere, vi si potesse meglio accomodare, perché oltre all'esser duro sentimento, quadra male ch'ella, essendo vecchia, come non fu mai, si dovesse specciandosi di se stessa innamorare.
Manchi, giorni brevi.
Lethe, fiume di abisso, di nota oblivione.
Volendo il nostro appassionato poeta nel presente sonetto dimostrare a Madonna Laura che per non avere alcuna pietà del suo per amarla in infelice e miserabil stato, ella fosse sopra ogni altra persona crudele, adduce un esempio di Giulio Cesare, e due di David Re, per li quali dimostra essi non solamente aver avuto compassione e lacrimato per l'avversità degli amici: ma per quelle dei suoi persecutori ancora: dove, che da begli occhi di lei, per lo stratio, che di lui vedeva essere non lagrime, ma solo di sdegno e ira, dice, ch'era disceso.
Ond'è da sapere che Giulio Cesare, avendo in Tessaglia, per le civili discordie dei romani, rotti i pompeiani, e Pompeo, che prima aveva avuto Giulia, figliuola di Cesare, per donna, essendo fuggito in Egitto, Tolomeo per gratificarsi con Cesare lo fece decapitare e mandolli a donar la testa, della qual cosa si dice Cesare averne pianto, e mostratone segni grandissimi di tristezza.
Oltre di questo, nel secondo libro dei Re, contenuto nella Bibbia, si legge che avendo David mandato l'esercito contro del suo figliolo Assalon, che da lui si era ribellato, poi che intese Assalon con parte dell'esercito esser stato ucciso, amaramente pianse. Avvenga che, per Siba, il quale fece ribellare da David il popolo di Israele, si possa intendere che al xx di tal libro si tratta. Al primo capitolo di tal libro ancora si legge, ch'essendo referto a David, Saul suo persecutore, e primo re del popolo di Dio, essere stato morto e sconfitto sul monte Gelbo e con tre figliuoli da Filistei, che similmente pianse, e maledisse il monte, che ne rugiada né pioggia cadesse più sopra di lui, in questa forma dicendo:
Montes Gelbo, nec ros nec pluviat veniat super vos
. Onde Dante nel Purgatorio: O Saul come su la propria spada, come parevi morto in Gelbo, che poi non sentì né pioggia né rugiada.
Può dunque ben assai dolersi, come dice, il fiero monte rispetto al conflitto stato sopra di lui d'esser per questo, senza sua cagione, in tanta miserabil sentenzia caduto, il qual David, già nella sua adolescentia, essendo per divina ispirazione tolto dall'esercito pastorale, e andato contra de' filistei, aveva con la fromba e tre pietre rotta la fronte al fortissimo gigante Golia, il quale faceva del popolo di Dio grandissima officione, onde dice E'l pastor, c'a Golia ruppe la fronte.
Giulio Cesare. David.
Cesare pianse, veduta la testa di Pompeo.
David pianse la morte di Assalon suo figliolo, e per quella di Saul suo persecutore.
Golia gigante.
Mostra il poeta in questo sonetto, come, disperato d'ogne salute, per uscir di stento, desidera di morire, onde dice, che se per morte credesse d'esser scarico del suo amoroso pensiero, dallo stimolo del quale egli era atterrato, che già con le proprie mani avrebbe posto in terra le sue noiose membra, e l'incarico d'esso amoroso pensiero.
Ma, poiché fu opinione di Platone che, quantunque l'anima rationale si divida dal corpo, non però subitamente rimanga liberata dalle passioni, e cupidità terrene, come par ch'ancor Virgilio, nel vi dell'
Eneide
ancor sentisse, ove dice:
Curae, non ipsa in morte relinquunt
, dice che teme di andare di pianto in pianto; e d'una in altra guerra, onde ancora in fine della quinta stanza di quella canzone, Ne la stagion, che il ciel rapida inchina, d'esta morte in tal proposito parlando dice: Né so ben anco che di lei mi creda. E così rimanersi di qua dal Passo della morte, che li si serra ancor mezzo stanco di viver, E mezo 'l varca, cioè che mezzo tra vivo e morto si rimane. Ma, c'omai farebbe ben tempo, che la dispietata corda dell'arco di amore, avesse spinto in lui l'ultimo strale. Onde ancor in quella canzon: Ben mi credea passar mio tempo omai, aspett'io pur che scocchi l'ultimo colpo chi mi diè il primo. Nell'altrui sangue già bagnato e tinto, intendendo bagnato e tinto nel sangue di coloro che per troppo amare erano morti, e che ne prega Amor, e quella sorda morte, da lui tanto domandata, che lo voglin fare, desiderando non di meno di morire, per vedere se potesse venir a miglior stato, ma non vorrebbe, che le proprie mani ne fosser ministre: la qual morte dice averlo lassato dipinto de' suoi colori, e questo per lo mesto aspetto che di fuori mostrava, e che non le ricorda di chiamarlo a sé, cioè non le ricorda di farlo (come desiderava) morire.
Openion di Platone dell'anima partita del corpo. Virgilio, dell'anima usata del corpo.
Essendo il poeta per lo suo amoroso tormento, come nel precedente sonetto abbiamo veduto, in grandissimo dispiacere e dei colori della morte dipinto, ora in questo dimostra, per celarsi e far sì che le persone di lui non s'accorgessero, la solitaria vita che teneva onde dice che andava cercando i più deserti, solitari e salvatici luoghi che poteva, e che altro schermo, cioè altro riparo, che questo non avea, imitando Marco Tullio nel terzo delle Tusculanae ove d'Omero dice,
Qui miser in campis merens errabat aleis
,
ipse suus cor edens, hominum vestigia vitans
. E che si credea, che i monti, le piagge, i fiumi, e le selve sapesser di che tempre, di che qualità fosse la sua dolorosa e miserabil vita, ch'era celata alle persone; ma che non sapeva però cercar sì aspre né sì selvatiche vie, che amore, che amorosi pensieri per tutto non lo accompagnassero, e che seco non andasser ragionando.
Marco Tullio.
In questo sonetto il poeta finge un contrasto tra i suoi occhi e lui, quanto dalla morte, che 'l cuor per l'amorose piaghe sosteneva, chi fosse stato prima origine del suo male, o Amore, inteso per Madonna Laura, di chi egli piglia la protezione, per aver, mediante i suoi amorosi sguardi, esso cuor impiagato; o gli occhi, i quali egli incolpa per aver da essi sguardi aperto la via da potere discendere al cuore, e ultimamente lassa la lite indeterminata. Onde, incolpando gli occhi, dice, che debbano col pianto accompagnare il cuore, che sostien morte del loro fallire, gli Occhi rispondono che sempre così fanno, cioè che sempre così piangono, ma convenir loro lamentare e pianger più l'altrui, cioè quello, che fece Amore ad impiagarlo, che il loro proprio errore, per essere stato primo e maggiore. Risponde il poeta che l'amore ebbe prima l'entrata da poter andare al cuore per loro, ove ancora, per lo possesso che ne tiene, va come in suo proprio albergo, di che gli occhi si scusano dicendo, ch'essi gli apersero la via da potere andare, per quella speranza ch'esso amore mosse dietro da quello, la qual fu (secondo che vuol inferire) che dovesse esser cosa buona.
Onde in quella stanza, Perché al viso d'amor portava insegna, Mosse una pellegrina il mio cuor vano, eccetera. Perché uno oggetto, quando prima si appresenta agli occhi nostri, o che muove speranza dentro al cuore, o sia all'animo di dever esser cosa buona da poter giovare, o che muove timore di dover esser cosa rea e da poter nuocere. Se muove speranza di bene, il cuore per la via degli occhi riceve la sua immagine talmente, che ancora non essendo poi presente, torna sovente a lui. Se muove timor di male, perché il cuore non vuol ricevere la sua immagine, gli occhi non aprono la via da potere andare al cuore. Onde il poeta in quel sonetto, Né per sereno ciel in vaghe stelle, né altro farà mai, ch'al cor m'aggiunga. Adunque, avendo amore, come abbiamo detto, mosso dentro al core speranza d'esser cosa buona, e essendone poi seguito contrario effetto, gli occhi dicono che la colpa è d'amore, per aver loro mancato di fede, e non d'essi occhi. Alla qual contraddizione il poeta non cede, ma dice, che le ragion non sono pari, cioè che le ragioni non son giuste, come parea loro, essendo pur essi nella prima vista del loro male e di quello del cuore stati cotanto avari, cotanto cupidi, volendo inferire, che quando non fosse stato la cupidità ch'essi ebbero della vista degli occhi di Madonna Laura, gli sguardi di quello non sarebbono mai discesi al cuore.
Ma gli occhi infine si dogliono del non giusto giudizio del poeta che dia lor biasimo dell'altrui colpa, perché a ben poeticamente giudicar diremo, il primo error essere stato d'amore; come in tal caso agente, e non de gli occhi, che furon solamente consenzienti, la qual cosa vediamo ch'egli medesimamente afferma nella quinta stanza di quella canzone, Verdi panni sanguigni, oscuri, o persi, ove in favor degli occhi, e contra di Madonna Laura dando sopra di tal questione la sentenzia, dice, Per lei sospira l'alma ed ella è degna, che le sue piaghe lave. Ma se vogliamo secondo la verità giudicare, la colpa non sarà d'amore né degli occhi, ma solamente del cuore, cioè dell'animo, essendo in suo arbitrio di poter ricettare, e dar repulsa ad ogni oggetto, che dagli occhi gli viene ad esser offerto, come in fine di quella canzone, Lasso me ch'i non so in qual parte pieghi, egli medesimo afferma, ove dell'occhio interiore parlando dice, E s'al vero valor già mai ritorno. L'occhio non può star fermo, così l'ha fatto infermo. Pur la sua pria colpa, e non quel giorno, ch'io volsi in ver l'angelica beltade Nel dolce tempo de la prima etade. La comune openion si è, che la lite sia tra gli occhi e il cuore, e che il poeta pigli la protezione del cuore, dove gli occhi dicano, Noi gli aprimo la via per quella spene, che si mosse dentro dal cuore, il qual sentimento si può accomodare: nondimeno per quello, che 'l poeta in altri luoghi dell'opera ne dimostra, noi crediamo che la mente sua fosse del primo.
Speranza del bene e tema del male.
Il primo error d'amore, e poi degli occhi.
Duolsi il poeta nel presente sonetto nel vedersi, nel seguitar dell'amorosa traccia a poco a poco nel vizioso abito cadere, e del non potergli rimediare, ma per sua maggior chiarezza ci ricorderemo, che volendo Platone esprimere le potenze e le essenze dell'animo nostro disse, quello essere simile ad un carro, il cui giogo sia alato, e tirato da due cavalli, un bianco ed un nero, e in sul carro pone il rettor di quello. Per lo carro intese esso animo, per le ale la sua velocità, per lo bianco cavallo il rationale, per lo nero lo irrazionale appetito, per lo rettore la mente. Mostra adunque il poeta trovarsi in potestà del nero cavallo, cioè del suo irrazionale appetito, avvenga che del desiderio, e non dell'appetito parli: ma perché incontinente dopo l'appetito nasce il desiderio, e alcuna volta e quasi sempre dal poeta uno per l'altro inteso.
Onde dice, il suo folle desio esser sì, cioè totalmente, traviato fuori dalla dritta e buona via in seguitar Madonna Laura volta in fuga, come libera e da lacci d'Amore sciolta, che quanto più lo richiama indietro e lo vuol per la dritta strada della ragione inviare, che tanto meno l'ascolta, ne vale, che lo sproni, e cerchi di tornarlo indietro, perché Amore, cioè il suo amoroso e ostinato affetto, di sua natura lo fa restio, lo fa ritroso e ripugnante contra ogni ragionevol procedere. E poi ch'ha preso, cioè soggiogato il freno della ragione, egli si rimane nella signoria di lui, il qual, malgrado lo trasporta a morte, lo trasporta al vizioso abito, nel qual consiste la morte dell'anima. E questo dice venirli per voler venire al Lauro, al nome di Madonna Laura alludendo, onde ancora in quella canzone Alla dolce ombra delle belle frondi, tanto mi piacque prima il dolce lume, Ch'i passai con diletto assai gran poggi, Per poter appressar gli amati rami, del quale arbore si coglie acerbo frutto, stando nella translatione, per aver detto sol per venir al Lauro, e tanto che, a coloro che lo gustano, affligge l'amorose piaghe più che non le conforta. Perché non potendo egli aver da lei quello, che 'l desiderio suo sarebbe stato, ogni accoglienza segno di benevolentia ch'ella li dimostrava, erano frutti acerbi et aspri, i quali poi Gustando, cioè a quelli ripensando e per la mente volgendoseli, era più l'afflizione che le sue amorose piaghe ne ricevevano, che non era il conforto che ne potevano avere.
Platone, della potenza ed essenza dell'animo
Restio, ritroso e ripugnante
Nella presente canzone il poeta narra l'infelice suo stato, la cosa che in quello desidera e ultimamente, com'egli è fuori di speranza di poterla mai conseguire. Ma in questa prima stanza, solamente dimostra, ch'a tutti gli animali viventi in terra, se non fossero alquanti notturni, come nottole, civette, gufi e simili, è dato quanto dura il giorno da travagliare, e venuta poi la sera, ch'almeno per fin all'alba del seguente giorno è lor dato il riposo, quello che nella seguente stanza vedremo, ch'a lui solo dimostra esser del tutto negato.
Augelli notturni
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato, ch'a tutti gli animali terreni, riservati alquanti notturni, è dato, dopo il travaglio del dì, il riposo almeno della notte. Ora in questa dimostra egli solo essere a peggior condizione di quelli, e senza mai riposo alcuno per l'amorose passioni, che lo tormentano, onde dice, che l' giorno non resta mai di sospirare, e poi che vien la sera, piange e desidera che venga il giorno, sperando in quello forse meglio poter tollerare il dolore. Scuoter l'ombra della terra, non essendo la notte altro, che ombra di quella.
Notte è ombra della terra
Seguita il poeta nella presente stanza il proposito lassato della precedente: cioè a dire tutto quello che di lui avveniva, quando giungeva la sera, avendo detto quello, che ne seguiva il giorno, e quasi, convinto dalla troppa passione, dice, che quando è la sera, che le nostre tenebre fanno alba altrui, intendendo di quelli dell'altro emisfero, che guarda e considera le stelle, che siano state sì crudeli, che l'abbiano fatto di terra sensibile; cioè che gli abbiano dato l'anima sensitiva, per che abbia a patire sì crudeli tormenti: quasi voglia dire, che più tosto vorrebbe, che l'avessero fatto un pietra, o no mai esser stato creato, che viver in tanta passione. E maledice il dì, che vide la prima volta Madonna Laura, perché consumandosi egli per lei, lo fa parere a chi lo vede un uomo rustico e selvatico, come nelle selve fosse stato nutrito, e questo per la magrezza e pallidezza, che nell'aspetto mostrava, così per l'amorose passioni divenuto. Ma, che noi siamo prodotti dalle stelle, questo è falsissimo; perché secondo la maggior parte, e i più famosi filosofi s'accordano, e l'opinione cristiana tiene, l'anima rationale incontinente è creata da Dio e nella donna infusa, che in lei, mediante il seme dell'uomo, è generata la materia del corpo, la qual da essa anima viene ad esser vivificata e fatta sensibile. Ma il poeta, in questi luogo seguita l'opinione di alcuni, i quali vogliano che noi siamo prodotti dalle Stelle, che da quelle venga destinato ogni nostro operare, come di sotto nella quinta stanza vedremo.
Terra sensibile
L'anima esser creata da Dio
Nella presenta stanza il poeta si duole della crudeltà, che Madonna Laura usava verso di lui, dicendo che non crede, che passasse mai per selva fiera tanto crudele, quanto lei, la quale è da lui All'ombra e al sole, cioè in tutti il luoghi pianta, e che non lo stanca, cioè non lo affrena, primo sonno, perché tutto 'l Dì, O d'alba, perché tutta la notte, come vuol inferire, abbia pianto, che ben egli sia corpo terreno mortale, onde naturalmente si dovrebbe stancare, che 'l suo fermo desire, che ad amar abbia in ogni luogo e d'ogni tempo dice, che vien dalle stelle, cioè ch'egli è venuto così dal cielo destinato, seguitando l'opinione di coloro, che nella precedente stanza abbiamo a tal proposito detto, e che nella seguente massimamente ancora vedremo.
Destin, alcuni testi hanno desir.
Nelle due precedenti stanze il poeta ha toccato dell'anima razionale alcune opinioni di filosofi: il simile fa ancora in questa, le quali per meglio intendere, e da sapere, che certi antichi platonici più acuti degli altri, provan esser stata opinione di Platone, che l'anima rationale in sua sostantia fosse sempre senza principio temporale, e così dispone Plotino, Porifirio, Theodoro e Proculo. Altri più moderni dicono che la pon creata: e secondo costoro la creatione dell'anime insieme con la creatione dell'universo, furono adempiute tutte in un medesimo tempo e create di simil natura a Dio, e di pari numero alle stelle, a ciascuna stella un'anima accomodata, dove tutte sono di divina contemplatione nutrite, perché in certi tempi secondo Eraclito e Pitagora, alcuna appetisce l'abitazione terrena, incontinente quella, nella qual tal cupidità si accende, è privata dell'abitazione celeste, e come indegna della felicità superna, è nella feccia terrena sommersa e conculcata, dove lungo tempo, secondo che sente, ancora Filolao, Numenio, Empedocle, Origene, e tutta la setta egittiaca, di corpo in corpo trapassando, sostiene diverse fatiche e vari supplici, tanto che purgato il passato errore, sia faretra degna di tornare alle lucenti stelle. Onde Dante nel iii cap. del Paradiso, toccando questa opinione, ancor di dubitarti da cagione per ritornarsi l'anime alle stelle, secondo la sententia di Plato. Ma quello, che sia di lei poi ch'è separata dal corpo, vogliano alcuni altri, e la più parte, i quali non molto discostanti dall'opinione cristiana, che Platone intendesse, ch'essendo l'uomo bene e virtuosamente vivuto, quella subito torni in cielo, e se viziosamente, che in eterno sia punita nel centro profondo della terra in luogo detto Tartaro. Quelli, i peccati de' quali non fossero stati troppo gravi, siano puniti in altri luoghi con più e meno gravi supplici, secondo che giustamente hanno meritato. Ma quelli, che nel lascivo Amore fossero stati sommersi, era lor dato un luogo separato dagli altri, del qual Virgilio, seguitando questa opinione, nel sesto dell'
Eneide
, ne descrive la forma, ed è la selva amorosa dal poeta in questo luogo intesa, il quale ancora egli tal openion seguitando, e alle veneri passioni sentendosi essere inclinato, desidera, prima che torni alle lucenti stelle, o tomi, cioè o cada giù nell'amorosa selva,
Et in sententia
prima che muoia, o salvo, o perduto ch'abbia ad esser, veder pietà per lui in Madonna Laura, la qual in un sol giorno ch'ella si concedesse, potrebbe ristorar molti anni, che in amarla aveva patito, e dal tramontare del sole fino innanzi l'alba, cioè in una sole notte arricchirlo e farlo contento: ad imitatione di Prop. Nel secondo libro ove dice,
o me felicem: o nox mihi candida: Nocte una quiuis vel Deus esse potest.
Platonici, quello che dicono dell'anima.
Dante
Tartaro, luogo nel profondo della terra.
Tomar, cadere.
Properzio
Nella presente stanza il poeta afferma il medesimo suo desiderio, che nella precedente ha dimostrato, cioè di potersi con Madonna Laura senz'esser veduto da altri, che dalle Stelle, solo una notte trovare, e che tal notte durasse sempre, e non si trasformasse in verde selva, cioè non si trasformasse in Lauro, pigliando il tutto per parte, come ancora nell'ultima stanza di quella canzone, Di pensier in pensier, di monte in monte, ove ad essa canzone parlando dice, Mi rivedrai sopr'un ruscel corrente, ove l'aura si sente, d'un fresco e odorifero Lauretto, e alla favola di Dafne in tale arbore trasformata alludendo, per uscirli di braccia, com'ella fece ad Apollo, quando qua giù per terra la seguiva.
Del desiderio che il poeta nella precedente stanza ha dimostrato avere di potersi con Madonna Laura una sole notte trovare: ora in questa mostra di esserne del tutto fuori di speranza, dicendo ch'egli farà prima sotterra in secca selva, e che 'l giorno si vedranno le minute stelle, prima che il sole arrivi a sì dolce alba, cioè prima ch'egli conseguisca questo suo dolce desiderio. Intendendo per la secca selva, la amorosa, che nella precedente abbiamo visto esser stata nel testo dell'
Eneide
da Virgilio descritta. La quale, perché mette ch'ella sia d'ombroso e fronzuto Mirto, che sempre sta verde, il poeta intende esser cosa impossibile ch'egli vi possa essere ch'ella sia secca, com'ancora che il giorno si possano le minute stelle vedere, onde medesimamente del lauro, nella seconda stanza della seguente canzone, Alor faranno i miei pensier a riva, che foglia verde non si trovi in Lauro.
Selva secca, quello che significhi.
Nella presente canzone il poeta parte le bellezze di Madona Laura lauda, e parte della crudeltà che verso di lui essa usava, si duole, e disperasi di poterla mai umiliare. Ma in questa prima stanza quasi altro non dinota, che 'l singular amore ch'egli le porta dicendo, averla veduta da principio sotto un verde lauro, al suo nome alludendo, più bianca e più fredda che neve, la qual per molti e molti anni non sia stata tocca dal sole; pigliando la bianchezza per parte della bellezza, e la frigidità per la repugnanza che ella faceva contra del caldo suo appetito. Il parlare, e 'l bel viso e le chiome della quale, tanto dice esserli piaciuto, che dove egli si sia, sempre l'avrà dinanzi agli occhi della mente, cioè, che mai non la potrà dimenticare.
La bianchezza, della neve alla bellezza e alla crudeltà di Madonna Laura si riferisce.
In questa stanza il poeta, come disperato di mai potere il suo amoroso desiderio conseguire, dice che allora i suoi pensier saranno a riva, giungeranno al desiderato fine, quando le cose impossibili da lui narrate seguiranno, ma ch'egli non ha a numero tanti capelli in testa, quanti anni vorrebbe attendere, cioè aspettar quel giorno, che i suoi pensieri giungessero a riva; pur che una volta, come vuol inferire, egli sapesse che dovesse venire.
Ha il poeta, nella precedente stanza dimostrato la infinità degli anni, che egli vorrebbe aspettar quel giorno, nel quale i suoi amorosi pensieri giungessero a riva. Ora in questa, come fuori di sì dolce speranza, a tal proposito seguitando dice, ma perché il tempo, il quale ai giorni attribuisce, vola, e gli anni fuggono, perché molto più velocemente quelli, che questi, passano, talmente, che o con le brune o con le bianche chiome, o giovene, o vecchio, in un punto s'arriva alla morte, che seguiterà d'ogne tempo, l'ombra. Cioè le vestigie e le pedate di quel vivo Lauro, per Madonna Laura inteso, fino all'ultimo dì, ch'egli di questa vita uscirà fuori.
In questa stanza tornando il poeta alle lodi di Madonna Laura dice, in nessuna età esser mai stato veduto sì begli occhi, come quelli di lei, i quali non altrimenti che 'l Sol si faccia la neve, lo struggono e lo consumano, onde, dal qual di struggimento, procede lagrimosa riva, nascono rivoli di lacrime. Che i quali, Amore, cioè il suo amoroso affetto conduce ai piè del duro lauro, al nome di lei ed alla sua asprezza di lui usata alludendo, per veder d'umiliarla, e alquanto a compassione delle sue passioni muoverla: ma, che in vano s'affatica, trovando i rami per suoi per le sue braccia intesi, di diamante, che medesimamente la sua durezza significa. Onde ancor in quel sonetto, Giunto m'ha Amor fra belle e crude braccia, e con le chiome d'oro per la bellezza, ond'egli era costretto a doverla amare.
Rami di diamante e chiome d'oro, quello che significano.
Essendo il giunto il poeta al dì che terminava sett'anni del suo amore, e che sempre col pensiero, e con le pedate aveva seguitato l'amorosa traccia: ora nella presente stanza, in sentenza dice, che teme prima di venir vecchio, che Madonna Laura per lo suo idolo scolpito in vivo Lauro intesa, li mostri una volta gli occhi con vera pietà, cioè ch'ella mostri segno, per lo qual egli possa veramente comprendere, ch'ella abbia pietà di lui.
Essendo il poeta disperato di mover a pietà di sé Madonna Laura ora in questa stanza amaramente dolendosi dice, che con questi pensieri da lui di sopra narrati, ma con altre chiome, perché divenendo vecchio cangeranno colore, essendo per l'amoroso incendio di dentro foco, e di fuori, rispetto alla sua pallidezza, della quale ed il suo tormento n'era cagione, candida neve, andrà, dove si vada, sempre piangendo, sempre le sue passioni scrivendo, per far mover a pietà forse coloro, che nasceranno mill'anni dopo di lui, se un lauro ben coltivato può tanto vivere; cioè se la fama di Madonna Laura ben celebrata da lui, può tanto durare.
Nella presente ultima stanza il poeta, delle bellezze di Madonna Laura conchiudendo dice, che le sue bionde chiome, presso agli occhi locate e poste, che menan gli anni suoi sì tosto a riva, sì tosto al fine della vita, vincon di splendore l'auro e i topazi posti sopra la neve, ove più splendide e lucidi, che in altro luogo ancor si sogliono dimostrare.
A riva, al fine della vita
Nella presente artificiosissima canzone il poeta parte le virtù e le bellezze di Madonna Laura mirabilmente loda, e parte narra gli effetti che quelle operano, e spera che debbano aver forza d'operar in lui. Onde in questa prima stanza alle lodi venendo, quali in questa forma dice, Donna, sì bella non vestì unquanco, cioè mai, panni di colori che nomina, intendendo il color perso, per quello che cilestro, molti l'usano domandare, perché in Avignone, e ancora in più luoghi d'Italia così s'usa nominarlo, e Dante nel suo convivio, e nell'esposizione che fa di quella sua canzone, Le dolci rime Amor ch'io solia, intende il color perso per cilestro, perché dice esser composto di rosso e nero, ma che vince il nero. Né in bionda o bianca treccia attorse capelli d'aureo colore, come questa Madonna Laura che mi spoglia e priva d'arbitrio, e del camino di libertà che mi tira seco sì, cioè sì dolcemente, ch'io non sostegno alcun giogo, alcun incarco men grave di questo. Il testo va in questo modo ordinato, Donna s`i bella non vestì unquanco panni verdi, sanguigni o persi, né in bionda treccia attorse capelli d'oro, come questa che mi spoglia d'arbitrio, e dal camin di libertade sì mi tira seco, ch'io non sostegno alcun men grave giogo.
Dante nel Convivio.
Seguita il poeta nella presente stanza il proposito della precedente lassato, dicendo, che se pur l'anima, a cui, alla quale, ove 'l martir l'adduce in forse, quando 'l martir la mente tra 'l sì e 'l no, se si debbe dolere, vien manco consiglio, vien meno la ragione, s'arma, si prepara talor a dolersi, come veggiamo che nelle due precedenti canzoni ha fatto, che subito la vista di Madonna Laura rappella, richiama e rimove lei da questa sfrenata e inconsiderata voglia, che, cioè, perché il veder lei li rade e levagli dal cuore ogni delira, torta e non ragionevol impresa, e fa parer ogni sdegno soave. Il testo va in questo modo ordinato: E se pur l'anima a cui vien manco consiglio, ove il martir l'adduce in forse s'arma talor a dolersi, subito vista rappella lei dalla sfrenata voglia, che 'l veder lei mi rade ogni delira impresa del core, e fa ogni sdegno soave.
Rappella, richiama.
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato la vista di Madonna Laura aver forza di rimuoverlo, che delle sue amorose passioni non si dolga, e farli ogni sdegno parer soave. Ora in questa mostra aver speranza, mediante tal vista, di dover esser un dì de' suoi amorosi tormenti ristorato, pur che lo sdegno di lei contra l'umiltà di lui, di tal vista non lo privi. Onde dice che di quanto egli giammai sofferse, ed ha per amor a sofferir ancora, sino a tanto che colei, che è Madonna Laura la qual li morse e impiagò il cuore, glielo sani, appositive, rubella di mercè, che pur le' voglia, cioè crudele, che pur empie esso cuor di voglia, che farà ancor vendetta, perché spera ch'ancora ella abbia ad aver la parte sua del foco. Onde ancora, Ovidio, nell'Epistola,
Pectora legitimus casta momordit amor
. Et egli di quanto avrà patito e patirà, d'altrettanto gioire, sol che orgoglio e ira di lei, contra l'umiltà di lui non chiuda e non in chiave, né serri il bel passo, inteso per quello de' suoi dolci occhi. Onde nella quarta stanza di quella canzone, Amor se vuoi ch'io torni al gioco, parlando ad Amore, fa ch'io ti trovi al varco, onde senza tornar passo 'l mio cuore, ond'io vegno, dal qual bel passo io dipendo, vivendosi, come vuol inferire, della vista d'essi occhi. Onde nella terza stanza di quella canzone, gentil mia donna i' veggio, d'essi occhi parlando, ond'ogni mio riposo vien com'ogni arbor vien da sua radici. E nella seconda di quella, Ben mi credea passar mio tempo omai, Gli occhi soavi, ond'io soglio aver vita, e più oltre, Chi non fa di ch'io vivo e vissi sempre Dal dì che prima di quegli occhi vidi?
Ovidio nell'Epistole.
Abbiamo veduto di sopra in quel sonetto Occhi piangete accompagnate il core, come il poeta in protezione d'amore, inteso per Madonna Laura, ha conteso con gli occhi, chi di loro fosse stato cagion del mal di cuore, e aver lassato la lite indeterminata, onde ora in questa stanza, il proposito delle precedenti seguitando, n'attribuisce la colpa a Madonna Laura come agente, e alle luci dei suoi occhi come consenzienti: ma nella seguente stanza di tal lite ne vedremo seguir la sententia. Onde dice che l'ora e 'l giorno ch'aperse le luci degli occhi nel bel nero, e nel bianco di quelle di lei, le quali lo discacciar Di là, intendendo del suo proprio core, dove amore, nel quale Madonna Laura corse ad abitare, essendosi per lei di se stesso, come vuol inferire, domesticato. Onde ancora, nella quinta stanza di quella canzone, Gentil Madonna i'veggio, quanta dolcezza unquanco fu in cor d'avventurosi amati accolta, tutta in un luogo, a quel, ch'i sento, è nulla, Quando voi alcuna volta, Soavemente tra 'l bel nero e'l bianco Volgete il lume, in cui amor si trastulla. E nella terza stanza, pur de' begli occhi di lei parlando, Così de lo mio cuore, Quando tanta dolcezza in lui discende, Ogn'altra cosa, ogne pensier va fori, E sol ivi con voi rimansi amore. Furon radice, cioè furon origin e principio di questa novella vita che m'addoglia. E quella in cui l'etade nostra si mira, intendendo di Madonna Laura, ch'ancora lei era di tal dogliosa vita stata radice. Onde medesimamente in quel sonetto, Questo 'l nido in che la mia fenice esclamando, O del dolce mio mal prima radice, nella qual per le sue virtù e bellezze, come in cosa mirabile, quell'età si mirava. E la qual vedendo, per la medesima ragione, dice esser piombo, o legno, Chi non pave, chi non paventa e ha terrore, come ancora in quel sonetto, Non pur quell'una bell'ignuda mano, ove dice, Gli occhi sereni e le tranquille ciglia, La bella bocca angelica, di perle piena, e di rose e di dolci parole, Che fanno altrui tremar di meraviglia, et il comico ancora egli nella terza Commedia, chiama simili ignoranti tronchi e plombei.
Di là preso per il cuore.
Terenzio.
Ha il poeta nella precedente stanza attribuito l'origine del male del cuore a Madonna Laura ed alle luci degli occhi di lui, per averlo lei impiagato e esse luci datole la via da poterlo fare. Ora in questo movendosi in favor d'esse sue luci, le quali per via delle lacrime cercavano sempre a loro commesso errore rimediare, ei contra di Madonna Laura, che pertinace e dura ma di lui non curandosi, si stava, solve la questione mossa da lui in quel sonetto, Occhi piangete accompagnate il core, che di sopra abbiamo veduto aver lassato da gli occhi ad amore indeterminata, dimostrando, non esser in facoltà né debito d'esse sue luci di poter, ne dover saldar le piaghe del core, avvenga, che prima di Madonna Laura si accorgessero, e a tali piaghe solamente fossero consenzienti. Ma esser in facoltà e debito d'essa Madonna Laura come quella, che n'era stata ministra di poterle e doverle similmente saldare. Onde, come di cosa, della quale nuovamente si fosse aveduto, quasi in questa forma, dice, Adunque lagrima, che veri dagli occhi chi prima di Madonna Laura si accorse, che furon, come abbiamo veduto, le luci di lui, Per quelle quadrella, cioè per quelle piaghe, Che nel lato manco, che nel cuore, mediante le lagrime, mi bagna, Non mi svoglia dal mio volere, non mi leva la voglia, che da esse piaghe è stata generata in me, Che, cioè, perché la sententia cade in giusta e ragionevol parte, la qual sententia è questa, Per lei, cioè per Madonna Laura sospira ed è tormentata l'anima, Et ella è degno e cosa conveniente, che lave, che saldi le sue piaghe, cioè le piaghe fatte da lei. Onde ancor in quel sonetto, Del cibo, onde il signor mio sempre abbonda d'amore e di se stesso parlando, pensando alla sua piaga aspra e profonda, e satisfaccia alla voglia del cuore, essendo da lei stato morso, e di voglia ripieno. Il testo va in questo modo ordinato, Adunque lagrima, che versi dagli occhi chi primier s'accorse, per quelle quadrella, che nel lato manco mi bagna, non mi svoglia dal mio volere, che la sententia cade in giusta parte. Il testo segue troppo per ordine.
Nella precedente stanza il poeta ha dimostrato, che per versar di lagrime, che li suoi occhi facciano, quelle non esser sufficienti a disfar alla voglia del cuore, ma solo a Madonna Laura tal cosa aspettarsi. Ora in questa dimostra, che quantunque s'appartenga a lei, ella non esser però in alcun modo disposta a volerlo fare, anzi che ragionevolmente glielo nega, alla qual ragionevole disposizione, mostra ancora egli d'accordarsi, onde dice, che i suoi Pensieri sono fatti diversi, cioè contrari da lui, pigliando i suoi pensieri per la ragionevole, e se stesso per la non ragionevole parte, o vogliamo dire, quelli per la ragione, se stesso per l'appetito, che l'uno è pugnace e contrario all'altro. Onde l'apostolo ai romani,
Video aliam legem in membris meis repugnantem legi mentis meae, et caro concupiscit adverso, spiritum, spiritus autem adversus carnem
, perciocché tale dice che contorse, piegò e rivolse in se stessa l'amata spada, quale egli si stanca, per che Madonna Laura intesa per questa tale, com'ancora nell'ottava stanza di quella canzone, Vergine bella, che di sol vestita, Vergine tale è terra, e che armò se stessa già dell'armata ragione, Quale, cioè come egli, ch'è la non ragionevol parte, lamentando, lacrimando e per gli amorosi martiri sospirando si stanca, non volendo ella per questo alle sue voglie piegarli. Onde ancora in quella canzone, Quel antico mio dolce empio signore, Quinci nascon le lagrime, e i martiri, e le parole e i sospiri, di ch'io mi vo stancando, e forse altrui, intendendo la spada per la giustizia, la quale altro non significa, poiché senza quella non si può né bene, né giustamente, procedere. E, che la spada di lassù non taglia in fretta. Et il poeta medesimo in quella canzone, Mai non vo' più cantar com'io soleva, amor regge suo imperio senza spada, ond'egli col pensiero, ch'è la parte ragionevole, considerando ch'ella ragionevolmente li nega quello, che fuori di ragione forse forse dal lei desiderava, s'accorda questa esser la miglior strada, e che tutte l'altre, per andare al Cielo, sono meno dritte. E non s'aspira, in più salda nave, cioè, e non si va con più ferma speranza al Glorioso regno, che seguitar gli onesti e casti esempi di lei, e però dice, che non la prega, che lo scioglia, onde ancora, nella quinta stanza della predetta canzone, E i segni del bel volto, che mi conducon per più piana via, alla speranza mia, al fin degli affanni. O riposto mio bene, e quel che segue, hor pace, hor guerra, hor tregue, mai non m'abbandonate in questi panni, ed in sententia dice che i suoi pensieri sono fatti diversi e contrari da lui, per che Madonna Laura di quanto egli, ch'è la parte non ragionevole, sì stanca, affligge e tormenta il suo amoroso desiderio, ch'ella altrettanto s'arma di ragione, non volendo a tal suo desiderio assentire, ch'è la parte ragionevole, considerando ella aver eletta la miglior strada, la vuole per quella seguitare, e così i suoi pensieri, intesi per la parte ragionevole, son fatti diversi da lui, qual è per la ragionevol parte inteso. Altri intendono che i suoi pensieri eran fatti diversi da lui, perché erano a suo danno. E tal contorse l'amata spada in se stessa, per Dido che s'uccise con la spada di Enea, quello che'l poeta veggiamo nel Trionfo d'amore e di castità essersi sforzato di levar della mente degli uomini, ma quanto tal cosa si possa col testo accomodare, io lo lasso nel giudizio di chi meglio e sanamente intende.
San Paolo.
Tornando il poeta in questa stanza, alle lodi di Madonna Laura narra con quanto favor del cielo ella nasce, e quanta fosse poi la sua somma onestade, dicendo che le benigne e favorevoli stelle si feron compagne al felice e fortunato fianco della madre in partorire tanto eccellente cosa, come lei, la quale a similitudine di loro la feron una stella in terra, delle quali benigne stelle vedremo in quella canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, ove in persona di fortuna dice: Il dì che costei naque eran le stelle, etc…E come in lauro, conserva le foglie sempre verdi, ove non spira folgore, stando nella translatione, cioè nel quale non viene fuoco di concupiscenza; Né indegno vento lai che l'aggrave, né indegno appetito, che lo molesti, e così conserva sempre, vivo e verde, il pregio della sempre veneranda onestate.
Proprietà del Lauro riferite a Madonna Laura.
Seguita il poeta in questa ultima stanza nelle lodi di Madonna Laura dicendo, che chi a pieno le volesse in rima, o'n versi tutti scrivere, sa, che sarebbe stanco qual si sia più degno e famoso scrittore, volendo inferire quelle essere tante e sì eccellenti, che superano ogni umano ingegno. Onde domanda qual cella e ricettacolo di memoria, nel quale s'accoglia e possa stare quanta virtù, quanta beltà vede, chi mira gli occhi di lei d'ogne valore, quasi voglia dire nessuna memoria essere capace, et a lei il suo parlar volgendo, la domanda dolce chiave del suo cuore, perché in sua facoltà era di poterlo, con la vista ora allegra et ora mesta, dolcemente aprire e serrare, soggiungendo che quanto gira e circonde il sole, Amore non ebbe mai una tanto valorosa e bella donna, ch'a lei si potesse agguagliare, e per lo cui mezzo tanto d'onore e gloria potesse conseguire.
Chiave del cuore, per che chiama il poeta Madonna Laura.
Il presente sonetto, per quanto giudicar possiamo, fu fatto dal poeta una volta, che Carlo Duca d'Angiò e Conte di Provenza, che di Sicilia e di Gerusalemme si intitolava re, e, come lui (secondo troviamo) che non poco delle caccie si dilettava era venuto nelle contrade di Cavaglion, città presso di Cabrieres una lega, per esservi le caccie quasi d'ogne sorte bellissime, dove ch'essendo da quelli di Cavaglion onoratamente accolto, per farli aver piacere, ordinarono una solennissima festa, alla quale furono invitate tutte le circostanti gentildonne del paese. Intervenne adunque Madonna Laura ancora ella con altre alla solennità della festa, ed essendo il duca in una magnifica sala condotto ove le donne per festeggiare erano già adunate, sì tosto, come quelle sentirono il duca venire, tutte con la debita riverenza, gli andarono incontro. Ma poi c'egli ebbe salutato ciascuna, fra le altre giudicato Madonna Laura bellissima, l'accolse e tiralla a sé, facendo segno alle altre, di più età e dei beni di fortuna, ma non di virtù e bellezza maggiori di lei, che in disparte si traessero, poi secondo l'usanza del paese, avendola dolcemente baciata, il poeta descrive il processo della cosa, ad un tratto l'ottimo giudizio del duca, per aver saputo cerner la più bella e le singular bellezze di lei lodando, Ma dell'atto dolce che parve alle donne, ch'usasse il duca in caramente accoglier a sé Madonna Laura e dolcemente poi baciarla, c'a lui solo parve strano, cioè nuovo, dice, che quelle ne furon rallegrate e egli ripieno di invidia, perché in tal caso avrebbe voluto, come vuol inferire, la sua sorte con quella del Duca cangiare.
Carlo Duca D'Angiò e di Provenza.
Volse il poeta nel presente sonetto la bella effigie di Madonna Laura e la virtù di Simon Pittore del suo tempo, che quella maestrevolmente a sua contemplatione aveva dal natural ritratta, ed un tratto lodare. Onde, dice che Policleto scultore con gli altri, ch'ebber di quell'arte fama, per mirar mill'anni fu fissamente a prova, non vedrebbe la minor parte della beltà di Madonna Laura che gli ha conquiso e distrutto il cuore, ma che certamente Simone fu in Paradiso, d'onde ch'ella s'era partita, e dove, per far fede poi a noi quaggiù del suo bel viso, l'aveva veduta e ritratta in carte, seguitando l'opinione di quei filosofi, i quali vogliono che le anime rationali fossero tutte a principio in medesimo punto create. Da Dio, come vedemmo in quella canzone, A qualunque animale alberga in terra, soggiungendo, che l'opera fu ben di quelle, che là su in cielo si ponno immaginare, ma non qui fra noi, per lo corpo che fa velo e impedisce l'anima, che tanto non può vedere. Ma, che Simone fece cortesia a ritrarla su in cielo, perché, poi che fu disceso qua giù in terra fra noi, e la sua vista, sentì del mortale, non la poteva poi più far di quella eccellentia ch'ella era. Policleto fu figliolo d'Agelade della città di Sicione, scultore appresso gli antichi molto celebrato, e massimamente per una statua, la qual chiamano Diadumeno, stimata cento talenti.
Simone Pittore.
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato, come da Simon Pittore gli era stato Madonna Laura eccellentissimamente dal natural ritratta. Ora in questo mostra desiderare, che Simone, oltre alla figura, avesse dato all'opera intelletto e voce, acciò ch'ella avesse potuto intender, e ancor rispondere a quello ch'egli le ragionava, e così dice, egli avrebbe sgombrato il petto di molti sospiri, che, cioè il qual intelletto e la qual voce, ch'egli in essa figura desiderava, faceva a vile lui quello, ch'altri avea in quello più caro, perché egli aveva in essa figura più caro l'umiltà, che nell'aspetto mostrava, e per quella solamente da altri era appregiata. Ma egli, di quella solamente non si accontentava, l'intelletto e la voce, che oltre al l'umiltà egli le desiderava, facevano essa umiltà vile a lui, perché più tosto avrebbe voluto in essa figura l'intelletto e la voce, che l'umiltà. Onde dice, che poi ch'egli vien a ragionar con lei, ch'assai benignamente pare ch'ella lo ascolte, s'ai suoi detti sapesse rispondere, la qual cosa non sapendo, denotava, che non lo sapeva ancora intendere. Adunque conoscendo egli, mediante l'intelletto e la voce, che non era in lei, l'umiltà essere vana, esso intelletto e voce li faceva l'umiltà, ch'altri avea più cara, vile a lui. Ma in sentenza il poeta vorrebbe, che Simone l'avesse fatta viva, com'avvenne di quella di Pigmalion figliuolo di Cilix, figliuolo di Agenore, il quale secondo Ovidio, nel x libro del Metamorfosi essendo degnissimo scultore, fece una statua d'avorio a similitudine di una giovane, e fu di tanta maravigliosa bellezza, ch'egli stesso ardentissimamente se ne innamorò, e per li suoi umilissimi preghi meritò, che Venere gliela facesse viva. Onde il poeta dice, che Pigmalione n'ebbe poi ben mille volte, il numero finito per l'infinito pigliando, quello, ch'egli dalla sua una sola si contenterebbe avere, intendendo di quello, perché di sopra ha mostrato desiderare, ch'ella avesse intelletto e voce.
Pigmalione scultore.
Fu il presente sonetto fatto dal poeta essendo in cammino per andare in Francia, e di per passare in Germania, mosso dal desiderio di vedere nuovi paesi, ma secondo lui, da' begli occhi di Madonna Laura, ove dice che riposto era (e non saper qual fato) il guidardone e premio d'ogni sua amorosa fede, per disperatione dilungato. Mostra dunque di questa sua dipartita avere un grandissimo dolore, e non di meno in tanta sua passione esserli però tre cose rimase, da le quali qualche ricreatione e conforto va pur pigliando, e queste sono i sospiri e le lacrime di cui si pasce e vive, perché di sospiri dice pascere il core, ch'altro che sospirar non chiede per suo refrigerio, e di lagrime vive, essendo al mondo nato solo per piangere, né questo dice dolersi, per che in tal miserabil stato, nel quale allora si riputava esser, il pianto gli era più dolce, ch'altri non si credeva. Onde ancora, nella quinta stanza di quella canzone, Si è debile il filo a cui s'attiene, Et io son uno di quei, che'l pianger giova. E par ben, ch'io m'ingegni, che di lacrime pregni sien gli occhi miei, sì come il cuor di doglia. La terza cosa è l'immagine di Madonna Laura, fatta non da Zeusi o Prassitele, o Fidia, degni eccellenti e celebrati scultori, ma da migliore e più ingegnoso maestro, intendendo il Simone Pittore, di cui abbiamo detto di sopra, quantunque altri intendono che il poeta parli dell'immagine di lei che nel cuore aveva, e il maestro, che l'aveva fatta per amore, la quale opinione si può tollerare, nondimeno perché dice: E di più alto ingegno, a noi piace più la prima. Ma perché Invidia, per privarlo del piacere, che prima in veder Madonna Laura pigliava, l'aveva contra di lui fatta sdegnare, onde per disperatione s'era da lei dilungato, non satia di questo suo indegno e non meritato esilio, perché ancora s'opponeva, come vuol inferire, alla dolcezza e al conforto che dal sospirare e piangere, e dalla considerazione dell'immagine gli venia. Forse non concedendoli tanto quanto in questo sarebbe voluto stare, domanda Qual Scithia, o qual Numidia, cioè qual deserto solitario, inabitato o lontano luogo l'assicura dall'invidia, che non lo trovi, poiché lontano e nascosto com'era, non si poteva da li ancor per modo nascondere, che non lo trovasse e ch'ad ogni sua recreatione non s'opponesse. Onde ancora in quel sonetto, O dolci sguardi, o parolette accorte, di Fortuna, come di tal suo bene invidiosa dolendosi, dice: E se talhor da begli occhi soavi forse mi vien qualche dolcezza onesta, subito acciò che ogni mio ben disperga, e m'allontani, or fa cavalli, or navi Fortuna, ch'al mio mal sempre è sì presta.
Zeusi fu pittore e non scultore. Prassitele e Fidia furono famosissimi scultori.
Abbiamo nel precedente sonetto veduto il poeta esser in cammino per andar al suo viaggio della Magna. Ora questo si comprende, ch'egli medesimamente lo facesse in tal viaggio passando per la selva Ardenna, della quale, e perché uomini e arme n'andavano a gran rischio, di sotto, nell'infrascritto al seguente sonetto diremo. Molta adunque per disperazione sicuramente per quella andare, perché nient'altro dice poterla spaventare, che'l sole c'ha i raggi, c'ha gli sguardi d'Amor vivo, inteso per Madonna Laura, la qual dice che va cantando, e per averla negli occhi, cioè sempre in tutti i suoi pensieri presente, non è in potere del cielo di fargliela lontana, e per la medesima ragione ogni cosa ch'ode in quel luogo, parergli che sia lei, e che rade volte in silenzio e orrore, un silenzio e timor solitario d'ombrosa selva gli piacque tanto (essendo egli della solitudine amatore) quanto fa quello di quel luogo se non, che del mio sol troppo si perde, se non che dal bel viso di lei, ch'era il suo sole, troppo s'allontana, onde agli occhi di lui, come vuol ad inferire, più oscuro e tenebroso ne veniva a rimanere.
Perder del suo sole, quello che significa.
Fu il presente sonetto fatto dal poeta nel suo ritorno dal viaggio, che nei precedenti abbiamo detto, discendendo giù per lo fiume del Rodano, sul qual a Lione s'era imbarcato, come al Cardinale in una sua epistola aveva scritto voler fare, dove suol esser il cammin di tre giornate. Nasce questo fiume nelle alpi che dividono i savonini dagli elvetii, e piglia il nome, come dice il poeta, dal roder che intorno le sue ripe per lo velocissimo corso, avvenga che Plinio altrimenti senta. Passa per lo lago di Ginevra, poi a Lione, e poi sino qui, per correre fra luoghi alpestri e sassosi, non è navigabile, ma in questo luogo riceve la riviera della Sona detta dagli scrittori Arar, la quale è grossissima, e navigasi fino in Avignone, doveva sempre la Francia dal Delfinato dividendo, e poi in Acquamorta, dove mettendo le sue acque in mare rende ad esso mare il dritto suo, avendole prima da lui ricevute, perché tutte le acque hanno dal mare la loro origine. È adunque mandato dal poeta innanzi a Madonna Laura, intesa per lo vivo e dolce sole, a darle nuove del suo ritorno, per che né da stanchezza, né da sonno, poteva esser in alcun modo frenato, o ritardato, com'era lui per la stanca e inferma carne del corpo, benché di personalmente andarla a vedere avesse lo spirto pronto e leggiero.
È luogo tolto dalle parole del Salvatore, e recitate da Matteo al xxvi cap. ove dice,
Spiritus promptus est, caro vero infirma
, il resto è per se stesso chiaro.
Rodano fiume.
Tutte l'acque hanno origine dal mare.
Matteo al xxvi cap.
Dimostra il poeta nel presente sonetto esser tornato dal suo viaggio della Magna, del quale abbiamo di sopra detto, e ricordarsi, come accompagnato dagli amorosi pensieri, era stato solo ed in tempo di guerra cantando Madonna Laura nella famosa selva Ardena, dalla quale essendo salvo nel paese d'Avignon tornato, mostra rallegrarsi. Chiama essa selva famosa, essendo per la sua grandezza da li scrittori, e massimamente da Cesare ne suoi Commentari, stata celebrata, dove mette, ch'ella abbia di lunghezza, più di cinquecento miglia, e che sia in quella parte della Gallia, i popoli della quale egli domanda belgi, oggi detti germani, i quali sono alla più bassa parte del Reno. Amor i cori impenna, cioè amor riempie i cori d'amorosi pensieri, per farli volar al terzo cielo, dov'è enere che'nclina gli animi ad amare. Onde ancor in quel sonetto, Volo con l'ali de pensieri al cielo, etc… Dice che gli era dolce cosa esser stato in quella selva solo e senz'arme, dov'armato fier Marte, a similitudine del legno in mare, pieno di gravi e schivi pensieri, onde di sopra, O pensier miei non saggi, senza governo e senza antenna, d'ogni ragione e reggimento disarmato, perché la memoria del passato pericolo diletta, com'el timor dell'aspetto attrista.
E questo dice per le guerre ch'allora, quando egli vi passò, in quel paese erano, come egli dimostra nella Epistola che di sopra abbiamo detto, che da Lione in Avignone al Cardinale scrive. Onde dice, Dove Marte armato fier, cioè ferisce. E non accenna e non finge, di voler ferire. Nondimeno giunto al fine di tal viaggio, il qual per esser egli stato lontano dal suo sole, ch'era Madonna Laura oscura giornata dice, che ricordandose Onde, cioè di che pericolosi luoghi viene, E con quai piume, per aver detto di sopra Amor che i cori impenna, cioè con quali debili forze, sente del suo esser stato troppo ardito nascerli paura, avvenga che dolce cosa li sia la memoria d'esserne scampato. Ma che'l bel paese d'Avignone, e'l dilettoso fiume della Sorga, al qual è tornato, li rassicura con serena accoglienza il cuore, il qual dice ch'è già volto, ov'abita il suo lume, inteso per quello, che dallo splendido e lucente viso di Madonna Laura gli era usato venire, pensando forse di volerla andare a vedere.
Ardenna selva.
Belgi oggi detti germani.
Fier invece di ferisce.
Il presente madrigale, per quanto giudicar possiamo, fu fatto dal poeta essendo andato a pigliar licenza da Madonna Laura, dovendosi da lei partire per andare a Roma, dove da Iacopo Colonna vescovo era domandato, la qual cosa seguì pochi giorni dopo il suo ritorno de Lamagna, che di sopra abbiamo veduto, come per alcune sue epistole chiaramente si comprende. Parla dunque a suoi occhi e dice che li prega che debbano essere accorti, mentre che li volge nel bel viso di lei, da la cui troppa luce erano stati morti, Perché amore già gli sfida, e annunzia la guerra che vuol loro fare, quando per la sua partita saranno privati di poterlo più per alcun tempo vedere, de la qual cosa egli ne sospira, e seguitando dimostra loro di quanta imperfezione, ch'essi rispetto all'occhio della mente sono, quasi in questa forma dicendo, che solamente morte può chiudere il camino a' suoi pensieri, ch'al porto della lor salute, qual è Madonna Laura li conduce e mena. M'a voi dice, la vostra luce si può celare per meno oggetto, perché siete di minor virtù e perfettione creati.
Perché l'occhio visivo non vede se non quelle cose che son presenti, o non molto lontane, e che impedimento, alcuno fra quelle e lui non s'interpone, E l'occhio della mente, o siano i pensieri, posseno vedere tutte le altre, e sieno quanto si vuol distanti. Onde gli ammonisce che avanti che sieno venute l'ore della dipartita c'han da fare, le quali già dice esser vicine, che piglino in veder il viso di lei qualche breve conforto, volendo inferire, che partiti che saranno da esso bel viso, non lo potranno più vedere, come faranno i suoi pensieri. Breve intende rispetto al lungo martire, che fino al ritorno patiranno.
Il Petrarca domandato a Roma da Iacopo Colonna.
L'occhio della mente vede più che il visivo.
Nel precedente madrigale abbiamo veduto il poeta doversi da Madonna Laura per andare a Roma partire. Ora il presente sonetto fu fatto da lui essendosi mezzo in via, nel quale drizzando a Madonna Laura il suo parlare, mostra l'intollerabile dolore, che di tal partita sostiene, quasi in questa forma dicendo, che ad ogni passo egli si rivolta indietro, ben che stanco dagli amorosi affanni, per pigliare conforto dall'aria, che da quella parte dov'ella era rimasa, li viene, poi che'n vederla, come suol inferire, non le può più pigliare: il qual conforto dice, che li dà pur tanto vigore, e forza che lamentandosi, e di mala voglia, lo fa andar innanzi: ma che ripensando al dolce ben che lassa indietro, e così al lungo cammino c'ha da fare, e al suo corto e breve vivere parendogli che la vita non li debba tanto durare, che la possa tornare a rivedere, dice, che sbigottito e smorto ferma le piante, ad imitazione d'Ovidio, che nel primo
De Rem
. ove dice:
Stabit et in media per tibi saepe via
. Et abbassa gli occhi in terra, che tutti sono segni di smisurato dolore, Et mentre che 'n tal modo s'attrista, mostra che li nasca un dubbio, il quale è come le sue membra possano viver lontane dallo spirito, avendolo nel suo partire con Madonna Laura lassato, al qual dubio dice risponder amor, Non ti rimembra, non ti ricorda, questo esser privilegio degli amanti, i quali sono sciolti da tutte l'umane qualità?
Quasi voglia dire per molti esempi, e autorità, che tu hai letto, in altri veduto, e in te medesimo esperimentato, te ne dovresti ricordare, perché è domestico proverbio.
Nescio quid sit amor, et amori nescio, modum, sed scio si quis amet, nescit habere modum
.
Ovidio nel v libro del rimedio di amore.
Proverbio di amore.
Abbiamo nel precedente sonetto veduto il poeta molto mal contento esser in cammino per andar a Roma, avendo lassato Madonna Laura sua sola, e dolce speranza. Ora, la presente mesta canzone. Per quanto giudicare possiamo, fu principiata da lui passando le Alpi, e di qua da quelle finita, nella qual di tal partita molto si duole. Onde nella presente stanza, come quello, del quale tutto il suo piacer, e conforto era di pensar a lei, mostra avere in odio Ogni segnato calle, ogni frequentato camino e ogni luogo dalle persone abitato, desiderando luoghi deserti e solitari, per meglio potere in tal pensiero stare. Onde, Quinto Cur.,
nulla iocundor patria miseris est, quam solitudo
, e quivi dice che l'alma s'acqueta, E come amor l'invita, come nascono in lei gli allegri e mesti amorosi pensier, or ride, or piagne, or teme, or s'assecura, imitando Virgilio nel sesto, ove idice:
Hinc metuunt, cupiuntque, dolent, gaudentque
. E'l volto che lei segue, e il volto di lui che seguita essa anima, Ove'lla'l mena, cioè in quel luogo ove ella lo fa voltare, si turba e rasserena, e dura picciol tempo in un essere, secondo il variar degli allegri e mesti pensieri, che spesse volte sente in essa anima cangiare. Onde dice che la vista d'esso volto, uomo che per prova fosse esperto di tal variabile amorosa vita diria, ch'egli ardesse e fosse del so stato incerto e dubbio.
Quando fu fatta dal Petrarca la presente canzone.
Q. Curio della patria.
Virgilio nel sesto.
Mostra più ancora il poeta nella presente stanza, quanto per meglio potere a Madonna Laura pensare sieno più a proposito i solitari che gli abitati luoghi, e come a ciascun passo li nasce un nuovo pensiero di lei, lo quale spesse volte gira e volta in gioco il tormento ch'egli porta per lei, e come, per la speranza di potere ancora nella sua vista gioire, e esserle caro di tal suo dolce amaro viver si contenta, e confortato da questa tale speranza dice, trapassar e andare innanzi sospirando, e pensando or come, or quando questo potrebbe seguire. Pensieri che veramente in simil caso accadono quasi sempre a tutti gli amanti, e che difficilmente possano da altri che da loro medesimi essere intesi, ma (per quel ch'io creda) da nessun altro mai con tanta mirabil elegantia espressi.
Lode del Petrarca.
Ne la presente stanza il poeta narra, com'andando egli al suo viaggio, ora per ora fermandosi, s'immaginava di vedere il bel viso di Madonna Laura come colui, ch'ad altro pensar non poteva, ma che poi partita l'immaginatione e tornato in sé, si trovava il petto molle dalle lagrime, che dalla pietà di lui stesso aveva versato, e talora domandava a sé medesimo, a che infelice termine era egli giunto, et onde, cioè e da che cara e amata cosa diviso e fatto lontano, ma che mentre poteva tener la mente al primo pensiero, che la immagine di Madonna Laura li rappresentava, e che lo faceva di se stesso dimenticare, Sentivasi da presso amore, vedeva Madonna Laura esserli sì vicina, che l'anima rimaneva contenta del suo proprio errore, che dalla immagination alla cosa vera pigliava. E vedevala in tante parti, tanti luoghi, e sì bella, che se l'errore fosse durato, altro dice che non chiedeva, perché solamente di quel tal errore si sarebbe contentato.
Quello che operava nel Petrarca l'immagine di Laura.
Narra il poeta nella presente stanza quelle parti, nelle quali ha nella precedente detto, che li pareva aver Madonna Laura veduto sì bella, che Leda madre della greca e formosa Elena, avria ben detto che sua figlia al paragon di lei avesse perduto di bellezza non altrimenti, ch'una stella perde dal sole, quando co' suoi raggi la copre. E quanto in più selvatico e deserto luogo si trova, tanto più bella se li rappresenta. Poi, quando 'l vero sgombra quel dolce error, poi quando torna a conoscer che l'immagin è falsa, allora dice, che a similitudine di una fredda e morta pietra, così debile e fermo per la pietà di se stesso e per lo dolor divenuto, asside e posa in pietra viva. Imitando Ovidio nell'Epistola d'Adriana a Theseo, ove dice,
Aut mare prospiciens in faxo frigida fedi, quanque, lapis fedes, tam lapis ipsa fui
, in guisa d'uom che pensi e pianga, e scriva.
Ovidio nell'Epistola di Adriana.
Seguita il poeta nella presente stanza in dir degli amorosi pensieri, che'n questo viaggio di Madonna Laura li nasceano, dicendo come un intenso e gran desiderio lo vuol tirare verso il maggiore e più spedito giogo di qualche alta montagna da lui veduta, ove da nessun'altra la vista poteva esser impedita, e che ivi voltandosi indietro verso il luogo, ove lassato avea Madonna Laura comincia a misurar cogli occhi i danni di lui i quali erano tutti gli oggetti, che da lei lo dividevano, onde per lo dolore dice, ch'egli in tanti disfoga lagrimando Il cor condenso di dolorosa nebbia, cioè il core oppresso di dolorosa noia, Alor che mira e pensa quanta aria lo diparte dal bel viso, il quale gli è sempre per immaginazione sì presso, e in atto sì lontano. Poi mostra che confortato da un altro pensiero, il qual dice, che forse alhor Madonna Laura di sua lontananza sospirava, in quello rispirando pigliar pur qualche conforto.
Parla il poeta nella presente ultima stanza a la canzone, dicendo com'ella, la qual a Madonna Laura veramente in Avignone era da lui indirizzata, lo vedrebbe in spirito, oltra quell'alpe ch'egli avea passato, al luogo ove in sentenza vuole inferire ch'ella stava, intendendo il ruscello corrente, per lo picciolo torrente di Lumergue, del quale già in più luoghi abbiamo detto. Il picciolo e odorifero laureto, il tutto per parte pigliando, per un lauro ch'egli in memoria di lei aveva sopra di tal corrente piantato, come in quel sonetto Apollo, s'ancor vive il bel desio, vedremo.
Lauro piantato dal Petrarca.
Di sopra abbiamo veduto il poeta, in via per andare a Roma, ora nel presente sonetto mostra ch'essendovi giunto, era a similitudine del vecchio pellegrino, che per vedere il sudario, ov'è la sembianza del Salvatore, sperando di vederlo ancora, quando che sia lassù in cielo, si parte dal suo dolce consueto luogo, e da la sbigottita famigliola, per vedersi il caro padre mancare, e vassene a Roma, perché egli similmente dice, che va cercando la desiata forma di lei, quanto è possibile di poterla in altrui, in altra donna per similitudine trovare, sperando, come vuol inferire, di poterla ancora nel suo ritorno presenzialmente vedere, quello che veggiamo in tutta questa sua lontananza sommamente desiderare.
Sudario della sembianza del Salvatore.
Il presente sonetto fu fatto dal poeta a Valclusa, dove essendosi da servigi del papa e dalla corte partito, come nella vita di lui dicemmo, era tornato ad abitare. E scrivelo in Avignone a Sennuccio di Senno del bene Fiorentino suo amico, e secretario del signor Stefano Colonna il giovane, dal quale Sennuccio mostra essersi partito. Tosto, e in quel luogo con un mal tempo di venti, folgori e tempeste venuto, ove essendo solamente col corpo, che'l mezzo di lui era, e lo spirito, ch'era l'altro mezzo, cone Madonna Laura Cabrieres, desidera per esser da l'amoroso giogo disciolto, esservi tutto, e Sennuccio contento vi sia con lui, al qual due cose dice di voler dire, l'una, qual sia la cagione, perché non più come sole teme i folgori, l'altra, perché non che'n tutto spento, ma nemica, cioè neppure un poco trova il suo amoroso desiderio mitigato, onde dice, che sì tosto ch'egli giunse all'Amorosa reggia, a la regione per rispetto di lei amata, avvenga che la Reggia significhi solamente la casa regale, ma il poeta in quel luogo, tutto per parte pigliando, volse significare che il paese ove Madonna Laura stava, era la regal abitazione d'amore, e che vie dove nacque Laura dolce e pura, al dolce e puro vento alludendo, il quale acqueta l'aere e mette in bando i tuoni, ch'Amor raccese l'amoroso fuoco nella sua anima, dov'essa Laura signoreggia, per che essendone alcun tempo, come vuole inferire, stato lontano, era forse venuto a meno, e spense la paura de folgori sapendo, che dov'ella era vicina, non avevano potere, avendo il lauro tal privilegio da Giove. Adunque se per vedere solamente il luogo, dove Madonna Laura nacque, raccese l'amoroso fuoco e spensesi la paura de' folgori, domanda adunque quello che farebbe guardando i suoi begli occhi.
Nemica, cioè neppure un poco.
Nel presente sonetto il poeta scrive un leggiadro e amoroso atto, che su le piagge del Colon, come nella quinta stanza di quella canzone, Se'l pensier che mi strugge, vedremo, avea un dì in Madonna Laura notato: il qual fu ch'ella si voltò per vederlo e per farsi veder da lui.
Chiama adunque quel terreno dove ella si voltò, per essere stato degnato da sì bel piede, avventuroso e sopra tutti gli altri terreni fortunato, soggiungendo ch'una immagine di durissimo diamante, potrebbe prima per ispatio di tempo venir meno, che la memoria di lui di tal dolce e benigno atto, del quale dice avere essa memoria e'l cor si pieno, non gli stia sempre davanti, cioè, che sempre non se ne ricordi. Et a questo terreno pur ancora parlando dice, che tante volte, quando egli lo vedrà, altrettante si chinerà a cercare delle orme, che'l bel piè fece in quel cortese e gratioso giro, che quando egli vedra Sennuccio, del qual abbiamo di sopra detto, se in valoroso cuore, come vuol inferire, che quel di Sennuccio era, Amor non dorme, amore sta sempre desto, e sa per prova quanto l'amorose fiamme importano, che per dolcezza di tanto benigno e amorevole atto lo voglia di qualche lagrimetta, o d'un pietoso sospiro pregare.
Piagge del Colon.
Star davanti, cioè aver nella memoria.
Ha il poeta nel precedente sonetto lodato la sua buona fortuna, e quella del terreno, dove vide far a Madonna Laura quel cortese giro. Ora in questo mostra, ch'essendoli tanto manifesto segno di benevolenza nella memoria rimaso, ch'ogni e qualunque volta ch'egli vien ad esser da gli amorosi mesti pensier assalito, la qual cosa più di mille volte, il numero finito per l'infinito, pigliando dice, che segue fra'l giorno e la notte; che per fuggir di quelli, torna con la memoria nel medesimo luogo, pur a quel cortese giro e dolce atto pensando: ove dice che vide arder l'amorose faville, che da' begli occhi di lei uscivano, le quali facevano il fuoco del suo cuore immortale, perché da la memoria di quelle, se pur in qualche parte veniva alcuna volta a mancare, era sempre racceso, e in tal modo dice acquetarsi, e tanto esser in ogni tempo la tranquillità e la dolcezza di quelle, che di null'altro si ricorda o cura: che L'aura, la qual Muove, cioè si muove col suono de l'accorte parole dal chiaro e bel viso di lei, quand'ella parla, per far ovunque spira dolce sereno, par che quasi, a similitudine d'un gentile spirto di paradiso, sempre in quell'aere, ove quel cortese giro vide a Madonna Laura fare, e a quale egli era sempre volto col pensiero, lo conforti. Onde, per la qual cosa il suo lasso e tormentato cuore in altro luogo ch'a quello pensando dice, che non può da l'amoroso incendio respirare.
La memoria faceva immortale l'amoroso fuoco del Petrarca.
Seguita il poeta nel presente sonetto in dir di quel medesimo luogo, che ne' due precedenti ha detto, il qual dice aver amato, amare, ed essere ogni giorno per più amare. E così ancora il tempo e l'ora quando a principio egli si innamorò, e che gli levar d'intorno, cioè dell'animo ogni vile e bassa cura, mediante questi due esteriori sentimenti, cioè il veder e l'udire che'n intorno gli erano, perché da poi egli non potè mai più veder, come vuol inferire, ne udir altro che lei cosa preziosa e degna, come ne tre seguenti sonetti vedremo. Onde ancor in quello, datemi pace, o duri miei pensieri: non basta ben, s'amore fortuna e morte, mi fanno guerra intorno, e'n su le porte, senza trovarmi dentro altri guerrieri? E più dice esser per amar Madonna Laura, la qual coi suoi onesti, e casti esempi l'innamora al ben fare. Poi quasi in questa forma soggiunge, Ma chi pensò già mai veder uniti tutti insieme Questi dolci miei nemici pensieri che amo tanto, per assalirmi, Hor quindi, hor quinci, ora in una, or in altra parte il cuore? E volgendo il parlare ad amore, quasi esclamando dice, o con quanto sforzo di tanti miei nemici oggi mi vinci, ma se non fosse, ch'al desiderio, il qual ho della cosa amata, cresce la speranza, io cadrei morto per lo dolore, Ove, cioè quando per la speranza bramo più di vivere.
D'intorno.
Ove, quando.
Ha il poeta di sopra mostrato, quanto quel luogo, ove vide voltar Madonna Laura, fosse amato da lui, e come ogni volta che dagli amorosi e mesti suoi pensieri veniva ad esser assalito, tornava per acquetarsi con la memoria a quello. Ora in questo il medesimo affermando dice, che perseguendolo amore, ch'egli a similitudine di colui, che provedutamente aspetta la guerra che li debba esser fatta, si stava dei suoi antichi amorosi pensieri armato, pur al detto luogo pensando: e avvenne che essendo egli, come nel seguente sonetto vedremo, posto a sedere, li sopraggiunse Madonna Laura a le spalle, a le quali il sole a ciascuno di lor due veniva a ferire, e facea l'ombra davanti a lor andare. Onde il poeta, avendola sentita venire si voltò per vedere quello che fosse, e non tanto che la potesse vedere, ma vide solamente in terra la sua ombra, la qual conosciuta subito fu assalito dal timore, come in tal caso a chi ben ama suola venire. Giunta adunque Madonna Laura a lui, e drizzato che gli ebbe un gentile e amoroso sguardo, insieme con quello ancora la salutò. Onde egli mostra che fosse a similitudine del baleno e del tuono, pigliando lo sguardo per lo baleno, e il tuono che fece la voce nel salutarlo, per lo tuono, i quali, sono in un medesimo punto, quantunque a noi il baleno prima e di poi il tuono venga, la qual cosa segue per la distanza che viene ad essere tra noi e il luogo, ove il tuono è generato, come quando di lontano veggiamo chi percuote, o taglia, che dopo la percossa soprasta alquanto prima, che giunga'l suono.
Ombra del sole.
Baleno e tuono, per che preso dal Petrarca.
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato, come essendo a caso da Madonna Laura sopragiunto, e per l'amoroso timore impallidito, era stato da lei insieme con un gentile e amoroso sguardo salutato. Ora in questo mostra, ch'ella lo facesse per soccorrere al suo stato, il qual, per lo cangiato aspetto, avea compreso che stava male, come quella che'l cuor di lui portava nel viso, cioè nel senso del vedere. Onde in quel sonetto, Così potess'io ben chiudere in versi, Ma voi occhi leggiadri, ond'io soffersi quel colpo, ove non valse elmo né scudo, Di fuor e dentro mi vedete ignudo, benché in lamenti in duol non si riversi. Per la qual cosa dice trovarsi ora pieno di diversi piaceri, pensando a quel tanto grazioso saluto, ch'egli non sente, né sentì da poi, alcun dolore. Né altra esposizione giudichiamo esserli necessaria, essendo per se stesso il testo facile e chiaro.
Madonna Laura portava il cuor del Petrarca nel viso.
Quanto più l'amante della cosa amata gode, tanto più di perderla dubita, come nel presente sonetto il poeta mostra avenir a lui, perché ne due precedenti ha dimostrato essere stato dal pietoso sguardo di Madonna Laura felicitato, e ora pensando all'instabilità delle tre femmine, mostra andar considerando quanto infelice sarebbe, s'ella cangiasse sentenza, e là dove ora co' suoi occhi l'assecura da morte, allora lo diffidasse, però dice che s'egli trema e va col cor gelato quando vede la figura di lei cangiata, che questo temere è nato d'antiche prove, perché uno stato amoroso in cor di donna dura picciol tempo. Onde Virgilio,
Valium et mutabile sempre foemina
, e Seneca provando non esser in loro stabilità né mezzo,
Aut amat formina, aut odit
.
Virgilio e Seneca della instabilità della femmina.
Narra il poeta nel presente sonetto com'essendo un giorno con Madonna Laura in forma, ch'ella veniva ad esser in mezo tra lui e la spera del sole, la qual andava verso lei, che quando ella si vide da essa spera esser chiusa e circondata, che tutta lieta verso lui si voltò, la qual cosa è da pensare che fosse, perché tale spera forse le noceva. Onde egli quest'atto a suo proposito tirando mostra, ch'ella lo facesse per dimostrarli, che'l sole gli era in fastidio, e che egli solo da lei era amato, onde dice, che la gelosia, la quale egli prima aveva d'un tale avversario e rivale, com'era il sole, si convertì in allegrezza e gioco, alludendo alla favola di Dafne, che amata fu dal sole, per essersi trasformata nell'albero del suo nome, cioè in lauro, che tanto in greco significa, del cui arbore Madonna Laura portava medesimamente il nome. Soggiungendo, che'l sole del dispiacere ch'egli ebbe di vederli per si fatto modo vincere, fu ricoperto da un nuvolo, dal quale alcuna pioggia forte cadendo faceva la sua faccia lagrimosa trista.
Favola di Dafne
Ha il poeta mostrato nel precedente sonetto il sommo piacere, che preso avea del grazioso modo modo da Madonna Laura tenuto in tutta lieta verso di lui voltarsi. Ora in questo mostra essersi da lei, sopra ogni altra cosa bramata da lui, partito, è tutto pieno di quella dolcezza Ineffabile, cioè tanto grande da non poterlo dire, che gli occhi suoi avevano tratto del suo bel viso il dì, che per non mirare giamai minor bellezza di quella di lei, egli gli avrebbe per sempre volentieri chiusi a Valclusa tornato, ove dice che non trova donne, come fatto avea a Cabrieres, dove lassato avea Madonna Laura, ma solo fontane e sassi di quel luogo, con l'immagine di quel tanto fortunato giorno, che per averlo sempre nella memoria, è dal suo pensier, ovunque guarda, figurato.
Ineffabile, da non potersi dire.
Nel presente sonetto, facile e per se stesso chiaro, altro non si contiene, se non che il poeta narra a Sennuccio il suo amoroso stato, e quali siano tutti i suoi amorosi pensieri, che ne precedenti veduto abbiamo, da quali mostra continuamente esser accompagnato, dicendo, voler ch'egli sappia in quale maniera egli è trattato da amore, o sia da Madonna Laura, per la qual egli s'arde e strugge pur ancora, come far soleva prima che da lei, per andar al suo viaggio di Roma, ch'abbiamo veduto, si partisse, come vuol inferire. Onde di sopra, in quell'altro sonetto, Qui dove mezo son Sennuccio mio, vedemmo ch'essendo tornato, lei averli detto, come amor avea racceso il fuoco ne la sua anima, seguitando, in dire quali fossero, gli amorosi suoi pensieri.
Gli amanti vivono della memoria.
Ne l'origine di Madonna Laura dicemmo del sito di Valclusa, dove un tempo fu del nostro poeta la sua abitazione, e dove a quella posta sia la terra di Cabrieres, di donde essa Madonna Laura era, avenga che di sopra nella tavola ogni cosa manifestamente si mostri. Il che è necessario aver veduto, udito dire, o letto e inteso, a chi del presente sonetto desidera 'l vero sentimento avere. Onde a quel luogo potrà ricorrere il lettore, perché a noi par superfluo il replicare. Diremo solamente quanto oltre di quello per la sua dichiarazione giudicheremo esser di bisogno. Era il nostro innamorato poeta nella Valle, e mandava gli amorosi suoi pensieri a Cabrieres, posta alle spalle della sua più alta sponda d'essa valle verso Oriente, intendendo per lo viso la parte, che guarda dentro ad essa valle, e verso occidente. Onde dice che se quel sasso dal qual, per la sua maggiore altezza, la valle viene ad esser più chiusa, e che da l'esser ella così chiusa deriva il proprio nome, perché la valle chiusa si domanda, tenesse volto per natura schiva il viso a Roma, cioè che naturalmente schifasse di tenere il viso volto, come fa a Babel, cioè ad Avignone, città posta ad occidente, e lo tenesse volto a Roma posto ad oriente, talmente, che a Babel voltasse le spalle, che quei suoi amorosi sospiri avrebbon più benigno calle, più benigno transito da potere andare, ove è Madonna Laura loro spene e vita, perché quando così seguisse, la sponda più alta ch'è verso Roma, e che impedisce loro l'andare a Cabrieres, sarebbe da l'opposita parte verso Babel, per la qual cosa i suoi sospiri molto più agevolmente potrebbero passare. Ma così volendovi andare, e' sono da quell'alta sponda talmente impediti, che un qua e l'altro là se ne vanno sparsi, nondimeno dice, ch'essi arrivano pur tutti là, dove li manda per quello che s'accorge, né mai torna nessuno a lui, tanto sono in quel luogo da Madonna Laura dolcemente accolti, e con tal diletto in quelle parti stanno con lei. Ma 'l duol dice esser de gli occhi, i quali Tosto che s'aggiorna, sì tosto come si fa giorno, per lo gran desiderio ch'hanno di bei luoghi dov'è posto la terra di Cabrieres, e tolti a loro dalla sponda della valle di poterle vedere, danno pianto, danno lagrime a lui, per lo dolore che n'hanno, et a pié per lo continuo salir il colle a riguardar di quelli già lassi, nel tornar da poi, come vuol inferire, a rivederli, affanno.
Babel Avignone.
Nella presente canzone il poeta dimostra in sentenza, che per essere Madonna Laura sdegnata seco, disperasse di poterla mai placare. Onde in questa prima stanza descrive per comparazione di lui la stagione del verno, nella quale essendo egli a Valclusa, quasi in questa forma dice, che l'aere gravato da nuvoli e l'importuna nebbia intorno compressa, intorno serrata e oppressa da rabbiosi e crudi venti, conveniva che tosto si convertisse, e che già i fiumi erano quasi di cristallo, cioè quasi erano ghiacciati, e per le valli in luogo dell'erbetta non vedeva altro, che ghiaccio e pruine.
Seguitando il poeta nella presente stanza il proposito della precedente dice, ch'egli ha nel cuore, fatto per l'amoroso timore più freddo che ghiaccio, una tal nebbia di gravi e angosciosi pensieri, la qual si leva talor di quelle valli serrate incontra agli amorosi venti dei suoi sospiri: la qual nebbia vuol inferire, ch'ancora lei conveniva, che per disfogare esso cuore, si convertisse in pioggia di lagrime. E circondate di stagnanti fiumi, quando cade dal ciel più lenta pioggia, e circondate di torrenti, che quando cade dal ciel più lenta pioggia stagnano, cioè seccano, perché i torrenti solo per le gran pioggie crescono.
Stagnare, cioè seccare.
Nella presente stanza il poeta dimostra, come tutte le cose qua giù fra noia qualche tempo soglion terminare, come dice avenire d'ogni gran pioggia, della neve, del ghiaccio e della nebbia: ma 'l suo amoroso pianto, come vedremo che dirà nella seguente stanza, esser perpetuo, e senza fine.
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato come tutte le cose qua giù fra noi hanno a qualche tempo fine. Ora in questa, mostra che solo il suo amoroso pianto è perpetuo, e ch'alhor Madona Laura serà senz'al ghiaccio dentro, senza 'l freddo volere, contra'l caldo desiderio di lui, e senza l'usata nebbia, e senza verso di lui l'usato sdegno, che nell'aspetto mostrava di fuori, che le cose impossibili da lui narrate saranno.
Ha il poeta nella precedente stanza per alcune cose impossibili dimostrato non avere speranza che Madonna Laura abbia mai ad avere in alcun modo pietà di lui, ed or in questa il medesimo afferma per alcune possibili e che naturalmente non può mancar che non sieno.
Fa il poeta nella presente stanza menzione di quel luogo intra due fiumi, ove di Madonna Laura 'sera innamorato, com'ancor in quel sonetto, Una candida cerva sopra l'herba verde m'apparve con due corna d'oro fra due riviere. Onde dice ch'egli de' ben perdonare a tutti i venti, a tutti i suoi aversi casi, Per amor d'un che lo chiuse in mezzo da due fiumi, Tra' bel verde e'l dolce ghiaccio, tra bei verdi prati da dolci rivoli d'acqua rigati, intendendo per vento a Madonna Laura, al cui nome, per esser altamente domandato aura, allude, come in più altri luoghi usa di fare. E talmente dice che lo chiuse, che l'ombra, cioè l'immagine di quel luogo, fu poi da lui dipinta, e col pensiero figurata, per mille valli, per infiniti solitari luoghi, ov'egli, senza alcuna cosa temere, perché nient'altro che'l bel viso di lei, come vuol inferire, temeva. Onde in quel sonetto, Per mezzo i boschi inospitali selvaggi, dove vanno a gran rischio uomini e arme, vo secur'io, che non può spaventarme altro, ch'el sole c'ha d'amor vivo i raggi.
Venti, cioè sospiri.
Bel verde e dolce ghiaccio.
Seguitando il poeta nella presente ultima stanza il proposito della precedente dice, che non fuggì giammai con tal velocità nebbia per venti, né fiume per pioggia, né ghiaccio per sole, come fece quel dì, che la prima volta vide Madonna Laura, e che di lei s'era innamorato, rispetto al desiderio grande di quel tempo, che nella considerazione della bellezza di lei sarebbe voluto stare.
Descrive il poeta nel presente sonetto alcune contrarietà, ne le quali, per lo suo troppo amare trovandosi, mostra per metafora della frale barca posta in alto mare, e da contrari venti combattuta, ch'essendo egli debile d'ingegno, privato da ragione, di lieve sapere e carico d'errore, esser da tale contrarietà talmente combattuto, che di sé stesso non sa determinare. Ma voler provare S'amor è o non è, sarebbe leggier cosa, e assolutamente diremo essere, e che e quale, bisognerebbe distinguere, e entrar in pelago, da non si tosto poter tornare a porto,
Sed non nostrum inter nos tantas componete lites
.
Quello che è amore, è difficile definire.
Nel presente sonetto il poeta a Madonna Laura il suo parlare drizzando dice, le contrarietà del suo amoroso stato, nelle quali per lei si trova, come ancor nel precedente ha fatto. E benché a molti nel primo aspetto parranno decisamente impossibili, come a quelli che ancor non han provato che cosa è amore, e basta che appresso di chi lo prova son verissime e certe, perché il non trovar pace, quantunque ancora della cosa amata gioiscono, è proprio di loro, essendo sempre l'amorose pratiche tutte piene di guerre e litigi. Ne hanno alcuna cagione nè ragione di fare la guerra, essendo in arbitrio e facoltà della cosa amata di compiacere e non compiacere all'amante, come le par e piace. Il temere e 'l separare, l'ardere e 'l gelare, il far castelli in aria senza avanzarsi mai di cosa alcuna, e 'l molto intraprender senz'alcuna cosa fare, con l'altre contrarietà che seguono, tutte similmente son cose verificate in loro.
Contrarietà degli effetti d'amore.
Nel presente sonetto parlando il poeta agli occhi di Madonna Laura si duole che essi vedano in lui, per le dimostrationi di fuori, il suo infelice amoroso stato, e non si muovino a compassione alcuna. Ma prima mostra desiderar di poter chiudere in versi i suoi amorosi pensieri, sì come li chiude e sono nel suo cuore intesi: perché dice, che spererebbe far della pietà ogni animo crudele dolere, Poi agli occhi venendo, quasi in questa forma dice, Ma voi occhi beati, ond'io, cioè da' quali io soffersi quel colpo del vostro amoroso sguardo, Ove, in quel luogo, al quale, non valse elmo né scudo, non valse difesa, o riparo, intendendo del proprio cuore, nel quale egli tal colpo sofferse, Mi vedete fuori e dentro, cioè vedete me e l'animo mio senza che io ve lo possa celare, perché in due modi dichiamo vedere e conoscer la persona, cioè di fuori ne l'aspetto, quando conosciamo che quello è Pietro, e quell'altro è Giovanni, e dentro nel secreto per le dimostrazioni di fuori, come figura, io veggio Pietro del beneficio ricevuto nell'aspetto allegro, e usar parole convenienti, e grate verso colui da cui egli ha beneficio ricevuto, onde io lo veggo e conosco dentro nell'animo, che desidera tal beneficio riconoscere. Veggio Giovanni dell'ingiuria che gli è stata fatta adirato, e usar parole iraconde. Onde ch'io lo veggio e conosco dentro, nell'animo disposto a farne vendetta. Ma il poeta dimostra che Madonna Laura aveva di lui una più perfetta cognizione, perché dice che quantunque l'interno suo dolore non si riversi di fuori in lamenti, cioè che egli lamentandosi non manifesti Il suo dolor dell'animo, ch'ella il vede fuori e dentro ignudo, volendo inferire, che solamente per lo suo cangiato e mesto aspetto, ella vedeva quale fosse il suo infelice stato, nel qual per troppo amarla era egli condotto. Onde in quel sonetto, Solo et pensoso i più deserti campi, perché negli atti di allegrezza spenti di fuor si legge, com'io dentro avampi. Et Ovidio,
saepe tacens vocem, verbaque, vultus habet
. Per la qual cosa soggiunge che poi che 'l veder de gli occhi di lei risplende, cioè penetra dentro di lui non altramente che i raggi del sole traluchino nel vetro, ad imitatione di Orazio ove dice:
fides arcana prodiga perlucidior vitro
, che basta che gli occhi vedano qual sia dentro il desiderio suo, senza ch'altrimenti egli lo dica, o 'n versi lo scriva, dolendosi che la fede, la qual'egli ha in essi occhi, li debba nuocere, non essendo nociuto ma giovato a Maria Maddalena, e a Pietro apostolo, quella, che 'l Salvatore vide ne lor cuori ch'avevano in lui. E dice che nessun l'intende altro ch'essi occhi, per esser a lor soli, com'ha dimostrato, manifesto, e noto l'animo suo. Onde ancora nella seconda stanza di quella canzone, perché la vita, è breve, a tal proposito parlando dice: Altri, che voi so ben che non m'intende.
Di che si duole il Petrarca.
In due modi si veggono gli uomini
Ovidio della qualità del volto.
Orazio della fede.
Duolsi l'innamorato e appassionato nostro poeta nel presente sonetto della sua perduta libertà, narrando il modo, come quella fu a principio da lui nelle bellezze di Madonna Laura perduta, e come per l'abito, che i suoi esteriori sentimenti hanno già fatto in quelle, non ispera di poterla mai più recuperare. Onde dice che partendosi essa sua libertà da lui, ella gli ha ben mostrato qual era 'l suo felice stato, quando il primo amoroso strale li fece quella piaga nel core, della quale egli non spera mai guarire, perché nessuno conosce mai sì ben la felicità, né maggior dolor patisce, come fa colui che perdendola viene in misera servitù. Onde Boetio, In omni adversitate fortunae infelicissimum genus infortunii est, fuisse felicem, soggiungendo che allora gli occhi suoi divennero si vaghi de' propri guai, che dal mirar quelli di lei nascevano, che non li val voler usar il fren della ragione con loro, perché essi hannola schifo, e si sdegnano d'ogni mortal opera, essendosi usi di vedere l'alte e divine bellezze di lei. Onde si duole d'averli a principio avezzi a tanta altezza, per non esserli più licito d'ascoltare se non chi ragiona di lei, la qual è la sua morte, né amore spronarlo, né i suoi piedi saper in altro luogo andare, cha veder lei, né le mani scrivendo in carte, altra persona lodare.
Boezio, dell'essere stato felice.
Seguitando il poeta nel presente sonetto le sue amorose querele, e pur ancora della sua perduta libertà, com'ha nel precedente fatto, dolendosi dice, esser Oramai sì vinto e fastidio dall'aspettar il suo buon tempo, e della guerra, che del suo lungo, sospirar sostiene, ch'egli ha in odio la speme ch'aspettar, e i desiri che sospirar lo fanno, et ogni amoroso laccio di che 'l suo cor è avinto, cioè legato, pur nondimeno dice esser sforzato e sospinto dal bel leggiadro viso di Madonna Laura che per imaginatione, ovunque egli mira, vede a ritornar contra sua voglia negli empi et amorosi suoi martiri, per l'errore che fece quando si lassò recidere, cioè tagliar la strada della libertà, facendosi, nel seguir il piacer ch'egli pigliò il veder le leggiadre bellezze di lei servo dell'appetito, perché l'anima sua come schiava d'esso appetito divenuta per aver, nel correrli dietro col suo libero arbitrio, una sola volta peccato, ora convenire ch'ella vada a posta di quello. Per che si vuol rimediar a principi, che quanto più nel vitio si invecchia, tanto è più difficile il potersene ritrarre. Onde Ovidio,
Qui non est hodie, cras minus aptus erit
.
Avinto, legato.
Ovidio
Il poeta nel presente sonetto mostra, che sì come la fenice è sola al mondo, e così egli esser solo quello che del suo infelice amoroso stato non trova alcuna pietà, incolpandone non Madonna Laura, ma solamente il suo contrario e averso fato, con la simile fortuna. Onde, volendo tutta la terra per le sue quattro principali regioni significare dice, che non da l'uno a l'altro di questi due fiumi, cioè non da Hibero d'Hispagna posto ad occidente, a l'Hidaspe d'India, posto ad oriente, Ricercando ogni pendice, ogni confine del mare, Né da l'uno a l'altro di questi duo mari, cioè né dal lito vermiglio, inteso per quello del mar rosso posto a mezo giorno, a l'onde caspe, al mar caspio posto a settentrione. E per più brevemente tutto il mondo esprimer dice, né in ciel, cioè né in aere, né in terra esser più, ch'una sola Fenice. E perché fu opinione degli antichi, che quando il corvo cantava volando da man destra, o la cornice dalla sinistra, portassero male augurio. Onde M. Tullio nel primo
de Divinatione
,
Cur a dextra corpus, a sinistra cornix faciat ratum
, però domanda qual di questi è che canti 'l suo fato, o qual parca l'innaspe, o qual fortuna lo guidi essendo fortuna, come alcuni vogliono, altro che ministratrice d'esto fato, ch'egli solo, com'ha detto esser la Fenice, trova la pietà sorda com'el sordo aspido, là dove egli sperava d'esser, felice. Onde ancora nella terza stanza di quella canzone, Quel antico mio dolce empio signore, pur ancora d'amore dolendosi dice, Di ciò m'è stato consiglier sol esso sempre aguzzando il giovenil desio a l'empia corte, ond'io speri riposo al suo giogo aspro e fiero. Tiensi adunque misero per aver il suo sperar in sì fallaci speranza posto, et avendo nel non trovar pietà com'abbiamo veduto, al fato, e non a Madonna Laura, per non darle biasimo, dato cagione, però dice di lei non voler dire ch'ella non sia pietosa, come ancora, in fin di quel sonetto, D'un bel chiaro polito e vivo ghiaccio, dove a tal proposito dice: Né di ciò lei, ma mia ventura incolpo. Et in quell'altro, Lasso ch'i ardo e altri non me'l crede, se non fosse mia stella, pur dovrei al fonte di pietà trovar mercede, m'a chi la scorge, cioè a chi la vede, com'ancora della prima stanza di quella canzone, Vergine bella che di sol vestita, Chi la chiamò con fede, ella gli empiè tutto 'l cor di dolcezza d'amore, tanto n'ha seco, tanto ne porge altrui, e che per fa le dolcezze che porge a lui, amare et empie, o che s'infinge, o che non cura, o che non s'accorge, del fiorir che fanno le sue tempie innanzi tempo, volendo inferire, che l'amorose passioni dalle quali egli era sempre tormentato, lo facean parer innanzi tempo canuto e vecchio, della qual cosa ella fingeva di non accorgersi, o accorgendosi non curava, pur se non s'accorgeva, egli per nessuna di queste cagioni aveva da poter sperar da lei alcuna pietà, quantunque, com'ha detto, non voglia dire, ch'ella non sia piatosa.
Marco Tullio
Perché Petrarca si tiene misero.
Volendo il nostro poeta per lo presente sonetto dimostrar ad alcuni amici, coi quali aveva i suoi amorosi casi conferito, che quantunque egli alcuna volta ridendo, o cantando mostrasse di fuori alcuni segni allegri, che non seguiva, perché in lui alcuna cagione d'allegrezza fosse, ma che solamente era per celar la passione dell'animo, adduce prima per contrario esempio quello di Giulio Cesare, il quale, quando da Tolomeo d'Egitto li fu mandato la testa del Magno Pompeo suo avversario, per celare la somma allegrezza del cuore, pianse di fuori per gli occhi, sì com'è scritto nel non libro di Lucano, ove dice:
Ut quae fidem vidit sceleris tutumque putavit, iam bonum esse socer, lacrimas non sponte cadentes, effudit, gemitusque expressit pectore laeto, non aliter manifesta putans ascondere metis
. Poi per proprio esempio adduce quello d'Annibale, il qual partito d'Italia, dove vittorioso per lo spatio di 16 anni continui, contra de Roma era stato, tornato in Africa per difendere la propria patria contra d'essi romani, poi che da Scipione fu vinto, e mentre che nel senato cartaginese si trattava della forma da potere supplire alla prima paga promessa ad essi romani nelle conditioni di pace, e per le smisurate spese fatte nella guerra, nessuna buona trovandone, solo Annibale in sì modesta fortuna, fra mesti lagrimosi cittadini, per celar la gran passione dell'animo fece, come scrive Livio nel decimo libro della terza Dec. Di fuori segno di ridere, e così dice avenire, che l'animo ricopre con la vista, Hor chiara, hor bruna, hor allegra, e hor mesta, la sua passione Sotto il contrario manto, sotto'l contrario coprimento. Onde dice, che se ancora, egli alcuna volta ride o canta, che lo fa per non avere altra via da potere l'angoscioso suo pianto celare.
Giulio Cesare.
Annibale.
Lucano nel nono libro.
Nel presente sonetto il poeta Madonna Laura il suo parlare drizzando, e pur ancora del suo infelice amoroso stato dolendosi, adduce una ottima comparatione dal giudizio che fa il buon sagittario del colpo c'ha destinato a qualche segno subito che scocca l'arco, al giudizio ch'ella fece del colpo dei propri occhi, subito quando ella drizzò il primo sguardo in lui, il qual giudicio fu, che lui ne vedesse morire. Onde dice esser certo ch'ella, chiamandolo misero, e infelice amante fra se stessa allora disse, a che vaghezza esso colpo de suoi occhi lo menava? E che quello era lo strale Onde, cioè del quale amor voleva ch'egli morisse, avenga che contrario effetto mostri che segua, perché dice che vedendo egli ora come 'l dolore, che di tal colpo patisce, nel temperar, come vuol inferire, che fa quella vaghezza e dolcezza, che dal suo primo sguardo prese, lo raffrena che non corre a morte, s'accorge, che quelli sguardi, i quali ancora continuamente gli occhi di lei e nemici di lui il fanno così, come quel primo sguardo non fu, così questi non sono per farla morire, per farlo in maggior pena, e tormento vivere. Onde ancora in quella canzone, Qual più diversa e nuova, a tal proposito dice: Simil fortuna stampa mia vita, che moria poria ridendo del gran piacer ch'i prendo, se nol temprassen, dolorosi stridi.
Onde, in vece del quale.
Ha il poeta nel precedente sonetto dimostrato, che non solamente li noceva la penosa ferita fattagli dal primo sguardo degli occhi di Madonna Laura ma l'altre ancora che ogni giorno da quelli ricevea, e che non era per farlo morire, ma per farlo in maggior pena vivere. Ora in questo il medesimo afferma, mostrando aver in odio, non Madonna Laura, per sommamente amarla, ma quella finestra della casa di lei, ove alcuna volta egli era stato di vederla, della quale amore, per essa Madonna Laura inteso dice, che gli aventò, cioè li trasse già mille strali, infiniti amorosi sguardi, perché al quanti di quelli non furon mortali, più tosto desiderando morire, come nel precedente sonetto ha dimostrato, che 'n miserie vivere, essendo (come dice), bello il morire Mentre la vita è destra, mentra la vita è fortunata, e prospera, senza aspettare l'infelici colpi di fortuna, come fece 'l Magno Pompeo, il cartaginese Annibale, Creso re di Lidia, Marco Attilio Regolo e altri infiniti, la qual cosa medesimamente afferma nel Trionfo della fama, ove dice, Ma'l peggio è viver troppo, perché troppo vive ch'infelicemente muore, e in quel sonetto, Solea dalla fontana di mia vita, dicendo che tal morì già tristo e sconsolato, cui poco inanzi era'l morir beato. E nella decima Epistola del terzo libro delle sue Epistole,
Et vitae gloria imminuit mors dilata
. Onde dice che soprastare in questo terrestre carcere del corpo, gli è cagione di mali infiniti, i quali, poi che l'anima non li scapestra, non si scioglie dal cuore, si dubita che non abbian a esser con seco immortali, riprendendo la tardità di quella, da che per lunga esperienza può aver oggimai conosciuto non esser chi rivolga o torni il felice tempo indietro, il qual per lui vuol inferire ch'era passato, o chi l'affreni, e faccialo dalla sua velocità tardare alquanto, soggiungendo averla più volte scorta, cioè ammonita, che del tutto se ne voglia andare, con tai parole, cioè perché non va per tempo, non muor tosto, chi per la ragion detta di sopra, lassa dopo di sé i suoi più sereni, i suoi più felici e fortunati giorni.
Aventare, cioè trarre
Esempi di fortuna.
Epistola del Petrarca. Scapestrare, quanto sciogliere.
Torna il poeta nella presente canzone a sommamente i leggiadri, e begli occhi di Madonna Laura, lodare et a dire quanta fosse la dolcezza, e 'l conforto che nel mirargli pigliava, e che dolci effetti egli ne conseguiva, ma nel principio di questa prima stanza mostra a tanta impresa diffidarsi della vita, e dell'ingegno, della vita per esser breve, e non sufficiente al tempo, che li bisognerebbe, dovendone quanto egli ne sente, e quanto ne vorrebbe dire. Dell'ingegno reputandolo debole e frale, poi ch'a l'impresa paventa e trema, ma spera che la sua doglia, la qual dice ch'gli grida tacendo, sia intesa là dov'egli brama, e là dove debbe essere intesa, Intendendo di Madonna Laura, la qual per lo suo cangiato e mesto aspetto, che tal sua doglia grida tacendo dispera che debba conoscer di quanta bellezza e valore essi suoi occhi sieno, poi c'hanno forza in tal modo di trasformarlo, se ben egli per la brevità della vita e per lo paventar de lo ingegno, non potrà di quella, quanto bisognerebbe dire. Onde di sotto in fine della quarta stanza ad essi occhi parlando, ma quante volte a me rivolgete, conoscete in altrui quel, che voi siete, et in fin di quel sonetto, Perch'io t'abbia guardato di menzogna, Sola la vista mia del cor non tace, e fino a qui possiamo intendere, che sia in luogo di proemio non solo di questa, ma delle sue seguenti canzoni ancora, le quali similmente del valor, e della bellezza d'essi occhi trattano, alle lodi de' quali ora venendo dice, Ch'ad essi rivolge il debole suo stile, quantunque pigro per se stesso sia, ma che ne viene ad essere spronato dal gran piacere, che ne piglia, e eliche di loro occhi ragiona tien da quelli, i quali sono il soggetto, di che vuol trattare, un gentile abito e modo, il quale con l'amorose ali del desiderio levandolo, lo diparte da ogni vile e basso pensiero, e così alzato vien a dire or cose, che per averle sino ad allora taciute, dice averle portate gran tempo ascose nel cuore.
Seguita il poeta nella presente stanza il parlar co' begli occhi dicendo, che non è, ch'egli non s'avveda quanto le laudi di lui siano ingiuriose a loro, per conoscere l'ingegno suo insufficiente a poterne tanto dire, quanto meriterebbono che ne fosse detto, ma che non può contrastar al gran desiderio che ne ha da poi, che vide quello che non che 'l suo, o l'altrui parlare possa agguagliare, ma nessun pensiero pareggiare, intendendo pur d'essi occhi, i quali mirando, furon principio del suo dolce e rio stato, contrarietà da lui molto usate, e che negli amanti si spronano, perché quando a reo fine pretendono, è come dice nel trionfo d'amore, dolce al gusto e reo alla salute, soggiungendo non esser da altri che da essi occhi inteso, poiché essi soli, mediante le dimostrazioni di fuori, potevano al suo cuor penetrare, e ogni suo contento manifestamente vedere, come nella precedente stanza ha voluto inferire. E che quando agli ardenti rai di loro occhi divien neve, cioè che quando alla loro presenza del desiderio di conseguirli si consuma e strugge, che forse allora la sua indegnità, cioè il suo esser di mirarli indegno, offende il loro gentile sdegno, tenendolo temerario e importuno, e che se questa semenza non temprasse, cioè alquanto non raffrenasse l'arsura, da la quale egli è inceso, che farebbe un beato venir meno, e morir il suo, per esserli più caro alla presenza di loro il subito morire, che senza quelli il lungamente vivere.
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato, che 'l timore, il quale egli ha di non far sdegnare i begli occhi di Madonna Laura nel troppo mirarli, raffredda alquanto il fuoco, che dai loro ardenti rai li viene. Ora in questo tal proposito seguitando dice, che se uno sì frale oggetto, com'egli è, a sì possente fuoco non si vien a disfare, che non è suo proprio valore, e virtù che da quello lo scampi, ma esser la paura, la qual gli agghiaccia un poco il sangue per le vene, talmente che risalda, cioè ristora, il cuore, che per l'ardore venia a mancare, ma questo farsi, acciò che egli abbia ad avampar più tempo. Volendo inferire che se non fosse tal paura, tosto sarebbe da quel fuoco consumato e arso, di che egli si contenterebbe. Onde esclamando chiama i testimoni della sua grave e odiosa vita, che sono i luoghi solitari ricercati da lui, per meglio l'amorose sue passioni poter celare, domandando quanto volte (come d'uscir di tanto sua pensosa vita desideroso) gli avevano per suo soccorso udito chiamar morte, la qual dice che, se maggior paura, intendendo di quella, che della dannatione eterna avea, non l'affrenasse, che via e forma spedita e corta trarrebbe a fine la sua aspra e dura amorosa pena, cioè che speditamente si darebbe la morte, quantunque mostri che di tal sua pena non sia la colpa di lui, ma di Madonna Laura, intesa per quella tale che non n'ha cura, la qual d'essa sua pena non ha pietade alcuna.
Nel fine della precedente stanza l'appassionato nostro poeta ha detto, che quando da maggior paura non fosse affienato, che per liberarsi dall'amoroso tormento si darebbe la morte, de la qual cosa ora in questa sé medesimo riprende, domando il suo dolor per qual cagione lo mena fuor di camino, fuori del suo primo proposito, il quale, come a principio abbiamo veduto, era di voler dire de' begli occhi, a dir ora de la sua pena quello, che dir non vorrebbe, quasi pregando, che voglia sostener, che voglia esser contento, che torni a dire d'essi begli occhi, ove lo spinge 'l piacere, come ancora al principio disse. De begli occhi come ha fatto del dolore, né di lui, cioè né d'amore, ch'a tal nodo de begli occhi lo distrigne e lega dice, che non si dole, ma che quelli debbano ben vedere quanti colori Amore, cioè il suo amoroso affetto, li dipinge e segna sovente, spesse volte in mezzo del suo volto, e così per tali dimostrazioni potranno pensare quello, che si fa dentro il cuore, adosso del qual dice, ch'amor li sta sempre con quel potere e forza che da essi occhi ha raccolto, il qual potere tanto in lui poteva, che d'ogni arbitrio, come vuol inferire, l'avea spogliato, chiamandoli luci beate e liete, se non che a la loro beatitudine e letizia tanto era tolto, che se stesse non potevano vedere, ma dice, che quante volte si rivolgano a mirare in lui, conoscano quello che sono, cioè conoscano in lui stesso, per li colori che l'amoroso affetto nel volto li dipinge, quanta mirabil forza e innata virtù sia in loro.
Nel fin della precedente stanza il poeta ha dimostrato che le luci de begli occhi di Madonna Laura farebbono perfettamente beate e liete quando sé medesime potessero vedere. Ora in questo tal proposito seguitando dice, che se ad esse luci fosse nota la divina lor bellezza, com'a chi la mora, che 'l cuor non avrebbe allegrezza misurata, ma fuor di misura, per la qual cosa niente di tal allegrezza, come vuol inferire, verrebbero a partecipare non altamente che farebbe colui che guardasse nel Sole per più della sua luce vedere. Onde dice che da tal notitia la cognitione è forse remota, cioè lunge dal natural vigore e forza che gli apre e gira, per ciò, che per aprire e girare che facciano, non però possono sé medesimi vedere, e chiama felice l'anima che sospira per loro, per li quali solamente dice, esserli a grado la vita, domandando con accento di dolore, perché sì rado, perché sì rade volte li concedono la loro veduta, della quale egli non è mai sazio. E perché più sovente, cioè e perché più spesse volte, come di tal veduta bramoso, non guardano in lui, per veder qual strazio ne fa amore, e perché immantenente, cioè e perché in un momento, quando in altra parte girano, lo spogliano e privano del dolce bene, Che ad ora ad or, cioè del quale ora per ora, quando mirano in lui, l'anima sua sente, volendo inferire, che non costando loro alcuna cosa, devrebbono darli più copia della sua vista, e verso di lui più gratiosi mostrarsi.
Il poeta nella presente stanza seguita il proposito della dolcezza, che da begli occhi di Madonna Laura li veniva ne la precedente lassato, replicando come Ad ora ad ora, mercè di quelli quando gratiosamente girano in lui, sente in mezzo all'anima un'inusitata e nuova dolcezza, la qual di sgombra, cioè con prestezza rimuove, d'essa anima ogni altra salma, ogni altro peso di noiosi pensieri, talmente che di mille, il numero finito per l'infinito pigliando, che n'avea, solo uno ne rimane, il quale è questo de begli occhi, e quel tanto, cioè quel tanto di tempo, che in tal dilettevol pensiero può stare e non più, li giova di vivere. E che se questo suo bene di star in quel suo dilettevol pensiero durasse alquanto più che non dura, nessuno tranquillo stato si potrebbe agguagliare al suo, ma perché forse farebbe altrui invidioso, e lui superbo di tanto onore, ad imitatione del divo Bernardino nel libro intitolato
De contemplatione
, il quale parlando di forma,
Si diutius in ea maneremus, nimium superbi homines efficeremur, et maxima par
te del riso, cioè del piacere che di tal pensier li resta. Onde ancora san Girolamo,
Estrema gaudii luctus occupat
, talmente, che interrompendo i suoi spiriti, che prima erano tutti ne begli occhi accesi e intenti, e a se richiamandoli, ritorni a lui e di sé stesso e non di quelli più a pensare.
Nella presente stanza il poeta per maggior laude de begli occhi dimostra, che tutte l'ornatissime opere, dolci e soavi detti che di lui escono, aver origine e dipendenti da quelli. Onde dice che l'amoroso pensiero che alberga e sta in loro occhi, ad imitatione di Plinio al XXVII capo del II libro della sua
Naturale istoria
, ove dice,
Profecto animus in oculis inhabitat
, se li discopre esser tale e sì fatto, che li trahe dal petto ogni altra gioia, per esser quella, come vuol inferire, di tutte la maggiore e la più dilettevole. E che volendo di tale amoroso pensiero ragionare, escono di lui parole e opre sì fatte, che quantunque la carne, cioè il corpo muoia, spera per la fama, la qual mediante tali opere, lasserà di lui di farsi immortale, soggiungendo, ch'a l'apparire e giugner di lor occhi, dove ch'egli sta, per l'allegrezza che ne piglia, ogni angoscia e noia a sé ne fugge, e poi nel loro partire tornano insieme. Ma perché la memoria ritiene in lei la leggiadria de begli occhi, come di quelli innamorata, acciò che non abbiano il suo contento a turbare, chiude lor l'entrata in lei, però non vanno di là delle parti estreme di dietro, ove nel terzo ventricolo essa memoria è posta. Onde dice che se di lui nasce alcun bel frutto, che da begli occhi vien prima il seme, perché essendoli nella memoria rimaso, quanto del pensiero amoroso di Madonna Laura della loro propria bellezza aveva in quelli notato, le quali cose erano il seme, celebrandole egli poi nelle sue elegantissime rime, ne faceva nascer il frutto. Onde dice che egli è quasi come un asciutto e arido terreno colto, cioè coltivato da loro occhi, de quali, come da prima cagione, e il pregio e l'onore in tutto, se di lui alcun bel frutto pur nasce.
In questa ultima stanza il poeta alla Canzon parlando, dice che per dire e sfogare che egli faccia in lei de suoi amorosi pensieri, che lo involano, rubano e dipartono da se stesso, per lo continuo esserli nella memoria presenti, che non lo acquetano anzi lo infiammano più di quanto prima facevano, e però ch'ella si renda certa di non esser sola, che s'apparecchia, come vuole inferi a fabricarne de l'altre per acquetarsi se potrà.
Ove il Petrarca desidera che sia intesa la sua doglia.
Da gli occhi di Madonna Laura procede in Petrarca ogni buono e reo effetto.
Effetto nel Petrarca prodotto dalla paura.
Ristringere, val quanto stringere e legare. Sovente, spesse volte.
Remoto cioè lontano. Rado quante rade volte.
Disgombrare, con prestezza rimuovere. San Bernardino. San Girolamo.
Plinio dell'animo. Ove è posta la memoria.
Seguita il poeta nella presente canzone le lodi de begli occhi, e in questa prima stanza dimostra, che dal dolce e splendido lume, che nel mover e voltar usciva da quelli, gli era mostrata la via la qual conduce al cielo, perché la veduta di quelli vuol inferire, ch'aveva forza di così disponer gli animi di coloro che li vedevano. E per lungo costume, cioè e per lungo abito fatto nella cognitione di quelli, dentro da quelli, laddove egli solo con Amore, cioè col suo amoroso affetto si sedeva e posava, quasi visibilmente il cuor di lei traluceva, perché sì come nella precedente canzone abbiamo veduto, per le dimostrazioni del volto si conoscono i secreti del cuore. E tanto maggiormente segue in coloro che per lungo costume (come dice) si conoscono. Questa dunque dice de begli occhi esser la vista che lo induce al ben fare, e che sola dal volgare vulgo l'allontana. Ma quello, che quando 'l verno sparge le prime pioggie, e poi quando la primavera ringiovanisce l'anno qual, cioè com'era al tempo del suo primo affanno, per essersi in tal stagione al principio di quelli innamorato. E in sententia, quello che d'ogni tempo le divine luci li fanno sentire, della dolcezza che di quelle prendeva nella vista intendendo, dice che la lingua umana già mai a pieno non poria contare, tanto vuol inferire ch'ella sia fuori d'ogni altra misura grande.
Nella presente stanza il poeta mostra che li caggia nel pensiero, che se là suso in cielo onde, cioè del quale, iddio eterno motore delle stelle degnò mostrarne qua giù in terra del suo lavoro, son altre opere fatte da lui sì belle, come questa de begli occhi, che n'ha mostrato di voler morire, per andarle a vedere. Onde dice, aprasi la prigione, ov'io son chiuso, aprasi il mio terrestre e mortal corpo, che dell'anima è prigione, nel quale ella è chiusa, e la qual prigione mi serra il cammino da poter a tal felice vita andare. Ma che rivolgendosi poi alla sua usata guerra, che i begli occhi lo fanno, ringratia la natura e il dì che nacque, che l'abbiano a tanto bene di poterli vedere riservato, e a Madonna Laura, che a tanta speranza di poter, per lo mezzo di quelli, alla felice vita pervenire, abbia il suo cuore alzato, che fino ad ora, che la prima volta li vide, era noioso e grave e a se stesso rincrescevole giaciuto, e da quell'ora innanzi, per le ragioni già dette, empiendo il cor d'un altro e soave pensiero, di quello de begli occhi intendendo, era piaciuto a sé medesimo, del qual cuore essi begli occhi avevano la chiave, perché in facoltà di quelli era con lo sguardo ora allegro, ora mesto di poterlo aprire e ancora a sua posta serrare.
Volendo il poeta in questa stanza pur ancora dimostrare, quanta fosse la dolcezza, che dell'amoroso e gentile sguardo de begli occhi egli pigliava, dice, che né Amor né fortuna non dieder mai al mondo sì gioioso stato ad alcuna persona, per amico che fosse loro, ch'egli non lo cangiasse ad una rivolta d'occhi, da quali ogni suo riposo, non altamente ch'ogni arbore dalle proprie radici viene, onde li chiama vaghe faville angeliche, e beatrici della mia vita, cioè cose cha la mia vita fanno beata, nelle quali faville dice, che s'accende e avviva il piacere che dolcemente, come l'amata suol l'amante fare, lo consuma e strugge, sopraggiungendo che sì come il loro splendido lume fa ogn'altra luce sparire, così quando da quelli discende tanta dolcezza nel suo cuore, ch'ogni altra cosa e ogni altro pensiero, per esserli quello di tutti gli altri più dilettevole, da esso cuor si parte, e per la medesima ragione, solo Amore, solo il suo amoroso pensiero, con l'immagine de suoi sogni vi si rimane.
Seguitando il poeta nella presente stanza il lassato proposito della precedente, dimostra niente esser la dolcezza degli altri, amanti, quando ben fosse tutta in un luogo accolta, rispetto a quella ch'egli alcuna volta sente, quando Madonna Laura sovente, spesse volte volge il lume de suoi begli occhi tra 'l bel nero e 'l bel bianco di quelli, e questo rimedio dice, credo che al mio imperfetto, cioè alla mia imperfezione, essendo l'uomo, mediante il corpo, animal imperfetto. Onde David nel salmo,
Domine provasti me, imperfectum meum viderum oculi tui
, a la fortuna avversa il cielo provvedesse questo rimedio, ch'egli dovesse pigliare la dolcezza e il conforto che da essi occhi pigliava perché altamente vuol inferire, che per la sua imperfezione, e aver la fortuna avversa, sarebbe stato costretto a dover morire. Duolsi del velo e della mano che spesse volte fra i begli occhi di lei, ch'erano il suo sommo diletto, e i suoi di lui s'attraversava, perché la veduta di quelli li toglieva, da quali occhi di lui dice, che dì e notte si riversa e esce fuor, mediante le lagrime, il grande e ardente amoroso desiderio, per isfogar da ardore il petto. Che tien forma, cioè il qual tiene similitudine del suo variato e mesto aspetto: perché alla tristezza di quello, vuol inferire, che esso suo variato aspetto si rendeva simile e conforme.
Nella presente stanza il poeta a maggior lode de begli occhi, mostra accorgersi, che la sua dote dell'animo e del corpo datali da natura, per se stessa non li vale, né lo fa degno del dolce caro sguardo di quelli. Per la qual cosa dice che si sforza, mediante le sue accidentali virtù, essere tale sì fatto, che si confaccia alla sua alta speranza, la qual ha di farsene degno, e al gentil amoroso fuoco, del quale egli arde, perciochè se per sollecito studio egli può venire a tal perfettione, che sia veloce al bene e tardo al male, con dispregiar i beni della fortuna avidamente da gli uomini del mondo bramati, che spera forse tal fama lo possa nel benigno giudizio di Madonna Laura aiutarlo e farlo degno di lei, e ultimamente dimostra, che 'l fine de suoi pianti, è quello da che potevano esser terminati, era 'l poter vedere i begli occhi dolcemente tremanti. Onde dice, Certo il fin de miei pianti, Che non altronde, che non il altro luogo il cor doglioso chiama, il cuore addolorato intende, Vien al fin, viene ultimamente da begli occhi dolci tremanti. Onde ancora nella quinta stanza della seguente canzone, Così vedess'io fiso come amore dolcemente li governa Sol un giorno da presso ecc., imitando Giovenale, nella settima Satyra, ove dice,
Non est leve tot puerorum observare manus, oculosque; in fine trementes
, quantunque la sententia è tutta diversa, perché dice Ultima speme di' cortesi amanti, i quali solo delle cose oneste, come questa di vedere i begli occhi si contentano. Onde in quel sonetto, Amor e io sì pien di meraviglia, Dal bel seren delle tranquille ciglia, sfavillan sì le mie due stelle fide, ch'altro lume non è che 'nfiamme, o guide chi d'amar altamente si consiglia.
In questa ultima stanza il poeta volgendo il parlare alla canzone, dice, che l'una sorella, per la precedente intesa, è poco innanzi a lei, e l'altra, cioè la seguente, sente in quel medesimo albergo della sua mente, dove quella è stata fabbricata, apparecchiarsi, Ond'io più carta vergo, per la qual io per volerla similmente scrivere, più carta rigo.
Per la dimostrazion del volto si conoscono i segreti del cuore.
Prigione intesa per il corpo.
Rivolta d'occhi invece di rivolgimento.
L'uomo mediante il corpo animale imperfetto. David de salmi.
Giovenale.
Seguita il poeta nella presente canzone come nelle due precedenti ha fatto le lodi de begli occhi, ma nelle prime due stanze si duole che sì come egli si credeva parlandone disfogar e acquetarne la sua voglia, che segue contrario effetto, onde in questa prima quasi in questa forma dice, poi che quella accesa voglia che m'ha sforzato a sempre sospirare, per mio destino mi sforza a dire de begli occhi, Amore che a ciò mi invoglia, cioè il quale m'empie a doverne dir la voglia sia la mia scorta, insegnimi il cammino e mostrimi la forma e contempre, e accordi le mie rime col desio. Ma non in guisa, ma non in modo, che lo cuor si stempre, che 'l cuor si strugga di soverchia dolcezza, com'io temo per quel ch'io sento, ove altrui occhi non giugne, là dove occhio d'altri non vede, intendendo del destruggimento del cuore, dove nessun occhio poteva vedere, che perché il dire d'essi occhi m'infiamma e pugne, m'accende, e sprona a doverne, e dire né per mio ingegno, che nel parlar per disfogarlo, sì come talora suol giovare, io usol, non che disfogato, per parlar ch'io ne faccia non trovo il fuoco della mente pur un poco scemo, anzi, al suono delle parole mi struggo non altamente, che s'io fossi di ghiaccio posto al sole. Onde come quello, il qual non sa a che rimedio più ricorre o voltarsi, dice che paventa e trema del reo e infelice fine.
Seguita il poeta in questa stanza il lassato proposito della precedente dicendo, ch'egli si credeva, parlando de begli occhi, trova qualche riposo, tregua al suo desiderio, che questa speranza gli aveva dato ardire di dirne quello ch'egli ne sentiva: ma che ora, essendo il tempo che n'avrebbe di bisogno, l'abbandona e vassene da lui senza farli alcun giovamento, nondimeno tanto dice esser possente la voglia che lo trasporta, ch'egli è sforzato a seguitar l'impresa del parlarne, e non poterne con la ragione, ch'era usata di tener il freno, contrastare, essendo quella del tutto, come vuol inferir, morta in lui. Onde prega amor che almeno li mostri dire in guisa, cioè in forma, che se mai tal suo dire percuote gli orecchi della sua dolce nemica Madonna Laura ch'abbia forza di farla, non di lui, ma di pietate amica: perché questo seguendo, vuol inferire, ch'ella ancora avrà pietà di lui.
Torna il poeta in questa stanza alle lodi de begli occhi dicendo, che se in quella etate, ne la qual gli animi furono tanto accesi al vero onor de la virtù, come di molti antichi filosofi, e specialmente de Grechi si legge, che industriosamente alquanti di loro s'avolsero per diversi paesi, come appresso delli Egizii, passando terre e mari, per apparar le scienze e aver esperienza delle onorate cose, de le quali ne colsero il più bel fiore, cioè le più utili e necessarie di tutte l'altre, che poi che Dio e Natura e Amore volsero compitamente locare ogni virtute in essi occhi, che per quelle conseguire non è bisogno ch'elli le vada, come feron essi antichi filosofi, per diversi paesi cercando, ritrovandole tutti in quelli, a quali dice che sempre, com'a fonte d'ogni sua salute, ricorre, soccorrendo ancor allo stato suo, con la loro vista, quando per le troppo amare passioni egli desidera morire.
Fa il poeta nella presente stanza comparazione da lui al nocchiero, quando di notte si trova alla tempesta dei venti, combattuto in mare e alza la testa guardando alle due stelle che il nostro antico polo ha sempre: perché mai non tramontano, le quali intende per la Maggior e la Minor Orsa, per che similmente egli dice, che nella tempesta dei suoi amorosi tormenti, i begli occhi sono i suoi due segni, e il suo solo conforto. Ma si duole che più sia il conforto ch'ora in uno, ora in un altro modo, come 'l suo amoroso desiderio informa e ditta, ne va pigliando. Che quello, il qual da lor grazioso, e cortese dono li viene, perché senza comparazione all'amante è più accetto e grato un sol leggiadro e amoroso sguardo, che di propria gratia e gentilezza della cosa amata li venga, che quanto altri che a caso o contra 'l volere di quella gliene potesse venire. Ma dice che quel poco, che da grazioso dono li viene, li fa che egli è una perpetua norma, una perpetua regola di loro lucenti occhi, perché pigliando egli, come vuol inferire, da essi occhi soggetto del suo amoroso scrivere, come mostra in quel sonetto, non d'altra e tempestosa onda marina, ove d'amor d'essi occhi parlando dice, indi mi mostra quel ch'a molti cela, Ch'a parte a parte, entr'a begli occhi leggo Quant'io parlo d'amore, e quant'io scrivo, e tal suo scrivere giudicando ch'egli abbia a essere perpetuo, onde di sopra in quella canzone, Perché la vita è breve, abbiam veduto, ove dice, Onde parole e opre, escon di me siffatte alorch'i spero farmi immortal, perché la carne muoia, egli ne vien a rimanere una perpetua regola d'essi occhi a tutti gli amanti che mai faranno come debbono far a bene virtuosamente amare. Il testo va in questa forma ordinato, E quel poco mi fa ch'io sono una perpetua norma di loro, altri espongano, e quel poco ch'io sono, cioè e quel poco di buono che è in me, mi fa una perpetua norma di loro, cioè sono fatto da una perpetua regola, che da loro occhi m'è dato, senza i quali dice, dal dì, che prima li vidi, non mossi un'orma, non mossi un piè a far bene, perché il mio valore per se stesso se stima falso, si giudica non buono.
Seguita il poeta in questa stanza nelle lodi de begli occhi dicendo, ch'egli non potrebbe mai immaginarsi, non ch'a pieno narrar gli effetti, che questi fanno nel suo core, e che tutti gli latri diletti di questa mortal vita sono assai minori di quello ch'egli ne sente, e così tutte l'altre bellezze restano indietro, non essendo a quella d'essi begli occhi da poter agguagliare, facendo comparatione dalla felicità che è mossa, e vien dal loro innamorato riso, dal loro riso pieno d'amore. A quella che nel cielo eterna, a quella che nel cielo beatifica, onde ancor in quel sonetto, Sì come eterna vita è veder Dio, desiderando un dì da tutti gli altri pensieri disciolto poterli da presso vedere, e che 'l dì durasse sempre, e 'l batter de suoi occhi non fosse spesso, acciochè la veduta di quelli, ancor per sì piccol momento, non gli avesse ad impedire.
Nella presente stanza il poeta mostra accorgersi del suo vano desiderio, che nella precedente ha dimostrato avere, cioè di potersi in quel modo appresso de begli occhi trovare, e ch'egli si contenterebbe solamente di questo, ch'essendo alla presenza loro, fosse disciolto quel nodo che Amore, cioè che 'l suo amoroso affetto circonda, e avvolge alla sua lingua, quando 'l troppo altiero lume di quelli avanza e vince l'umana e gratiosa vista di lei, volendo inferire che l'umanità, la qual ella mostra nell'aspetto, li porge l'ardire di poterle narrare le sue passioni del cuore, ma 'l troppo altiero lume ch'esce dai suoi begli occhi, il quale avanza l'umanità della sua dolce vista, perché in lui più può il timore che nasce da quello, che l'ardir che nasce da questa, li annoda la lingua in modo che non può dire. Onde ancora in quel sonetto il medesimo volendo significare, Più volte già dal bel sembiante umano ho preso ardir con le mie fide scorte, D'assalir con parole oneste accorte la mia nemica in atto umile e piano, Fanno poi gli occhi suoi mio pensier vano. E in quell'altra, Eran i capei d'oro a l'aura sparsi, ove dice, E 'l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi che or ne son sì scarsi. E 'l viso di pietosi color farsi,e in sentenza il poeta vorrebbe, che quando egli è alla presenza di Madonna Laura per dirle quello che l'umano e grazioso aspetto di lei li dà ardire dirle, fosse disciolto dalla sua lingua quel nodo, che per lo timor che nasce dal troppo altero lume de suoi begli occhi, la lega in modo che, non può dire per che quando questo seguisse, dice, che piglierebbe baldanza, cioè ardire, di dir parole tanto compassionevoli, che farebber lagrimar color che l'intendessero. Onde che ella ancora, come vuole inferire, verrebbe a moversi a pietà di lui, Ma le ferite, le quali ha da essi begli occhi nel cuore impresse, quando egli è alla presentia loro, volgon esso impiagato core altrove, cioè a pensar ad altra cosa. Onde per la quale egli diviene smorto, perché assalito dal timore d'averle forse a dispiacere, si rimuove del tutto dall'impresa, e il sangue, che per tal timore se li nasconde e retira al cuore, perché pallido e smorto diventa, fa ch'egli non rimanga del color che prima era. Onde il non potere esprimere il concetto suo a chi solamente avrebbe facoltà di poterlo aiutare, dice essersi accorto, che propriamente è quel colpo, col quale amore, per Madonna Laura inteso l'ha morto, cioè il colpo per lo quale egli ultimamente se ne morirà.
Volgendo il poeta in questa ultima stanza il parlar alla canzone dice, del suo luogo e dolce ragionare, cioè del suo dolce e lungo scriver con la penna, già la sente stancare, ma non gli amorosi suoi pensieri, per lo piacer che ne piglia di parlar seco.
Invogliare, cioè empir di voglia. Contemprare e stemprare.
Greci per diventare sapienti cercarono diversi paesi.
Orsa Maggiore e Minore. Norma, regola.
Eternare, beatificare.
Amore, cioè amoroso effetto. Baldanza, ardire.
Ha il poeta in fine della precedente canzone dimostrato, che del suo lungo ragionar con la penna, la sentiva stancare, ma non gli amorosi suoi pensieri di parlar seco. Ora in questo sonetto, a Madonna Laura drizzano il suo parlare, mostra essere stanco di pensar sì come essi pensieri non sono stanchi in lei, alle sue singulari bellezze sempre pensando, e come per fuggir la grave soma degli angosciosi suoi sospiri non abandona la vita, e a dir delle sue bellezze non gli è hormai mancato la lingua e la voce, e che i piedi in seguitar le orme di lei, non sono stanchi, mostrando aver ancora ammiratione, donde venga tanto inchiostro e donde tante carte, che del nome di lei egli va empiendo, in che s'egli fallasse, cioè che tanto a pieno e ornatamente quanto ella meriterebbe egli non ne scrivesse, dice che la colpa sarebbe d'amore, per lo tormento che gli da e non difetto de l'arte poetica o oratoria, essendone egli, come vuol inferire, assai perfettamente ammaestrato. Onde ancora nella seconda stanza di quella canzone, Se'l pensier che mi strugge, questo medesimo volendo significare, Però che l'amor mi sforza, e di saper mi spoglia, parlo in rim'aspre e di dolcezza ignude, ma non sempre a la scorza, ramo né 'n fior né 'n foglia mostra di sua natural virtude, miri, ciò che 'l cor chiude amor e quei begli occhi, ove si siede a l'ombra.
Honesta lode
Seguita il poeta nelle lodi de begli occhi, e in dir quello, c'hanno forza d'operar in lui, quasi in questa forma dicendo, che quei medesimi occhi, dallo sguardo de' quali egli fu in guisa, cioè in modo preso e impiagato, ch'e medesimi poriano saldar la piaga. Ad imitatione d'Ovidio in quel
De tristibus
, ove dice:
Nacque, ea vel nemo, vel qui mihi vulnera fecit, solus Achilleo tollera more potest
, e non già virtù d'erbe, di pietre, di parole, che s'usa nell'arte maga, benché in queste consistano le virtù, gli hanno talmente precisa e tolta la vita d'ogni altro amore, ch'un solo dolce pensiero, che di lor li venga, è sufficiente a poterli acquetar l'anima di tutti gli amari e dispiacevoli pensieri che potesse avere. E se la lingua è vaga di seguitar tal dolce pensiero, parlando forse quello ch'egli scioccamente le ditta, che tal pensiero, ch'è la scorta, ne può esser deriso, e beffato egli e non la lingua, la qual è solamente strumento d'esso pensiero. E soggiunge, Questi son quei begli occhi, che fanno vittoriose le imprese del mio signor amore, volendo inferire, che da quelli non saetta invano. Ma più sopra 'l mio fianco, ma più le fanno vittoriose sopra 'l mio cuore, volendo inferire, ch'egli solo contra di loro non può in alcun modo, nè potendo si vuol difendere. Questi sono quello che mi stanno sempre con l'amorose faville nel cuore accese, perch'io di loro parlando non mi stanco, essendone egli continuamente a doverne parlare dal desiderio spronato.
Ovidio.
Forza de gli occhi di Madonna Laura.
Seguitando il poeta nel presente sonetto le lodi de begli occhi, e quello ch'operavano in lui, dice che stando nocchiero non fuggì giamai d'atra, cioè da tenebrosa e tempestosa onda del mar con tal prestezza in porto com'egli fugge dal fosco, da l'oscuro e torbido pensiero, Ove 'l gran desiderio lo sprona e inchina, a la vista degli occhi intendendo. Onde ancora di sopra in quella canzone, Poi che per mio destino così nella tempesta, ch'io sostegno d'Amor, gli occhi lucenti sono il mio segno e 'l mio conforto solo, Ne la vista mortale, dice esser mai stata vinta da divina luce, come la sua dall'altiero raggio di quelli, che nel bel nero e nel bel bianco de quali amore dora, e affina i suoi strali, che sono di quelli gli amorosi sguardi. Ove dice che lo vede non cieco, come s'usa dipingerlo, ma sì ben faretrato a dimostrar che vede, e ha facoltà di poter ferire, nudo, per i concetti degli amanti, che sono a tutto il mondo manifesti e noti, se non quanto vergogna 'l vela, cioè se non quanto dalla vergogna, la quale essi hanno, che tali lor concetti hanno conosciuti, sono artificiosamente velati e coperti, come in tutto quel sonetto, Solo e pensoso i più deserti campi, di se stesso, Canzon con l'ali, a dinotar il lor discorso, e la molta instabilità, non pinto, ma vivo, che significa il suo amor non esser finto, ma del verace. Ne quali occhi dice che li mostra quello, che cela a molti, volendo inferire, che rari erano coloro, l'ingegno de quali potesse al sommo della eccellenza di lei penetrare. One in quel sonetto, Lassato hai morte senza sole il mondo, Non la conobbe il mondo mentre l'ebbe, Conobbil'io, ch'a pianger rimasi et il ciel, che del mio pianto or si fa bello, e ne quali occhi dice, ch'egli A parte a parte legge, a parte a parte vede, e piglia 'l soggetto di quanto parla, e scrive d'Amore.
Proprietà di amore.
Per la intelligenza del presente sonetto è da sapere, che passando un giorno Madonna Laura da quel luogo, ove a caso il poeta era, e non essendosi egli così tosto, né con quel modo voltato per vederla, ch'usato era di fare, si dubitava ch'ella non pensasse ch'egli l'avesse fatto per superbia, o per più di lei non curarsi. Onde per averla detta opinione rimuovere, ora le narra la cagione, perché lo facesse dicendo, che egli teme sì, cioè talmente l'assalto de suoi begli occhi, ne quali, come nel precedente sonetto ha dimostrato alberga amore, e la sua morte, poiché dallo sguardo di quelli, come in più altri luoghi dimostra essa sua morte, nasceva, ch'egli fugge non altramente che il fanciullo si faceva la verga, quantunque gran tempo fosse, che per fuggirli egli n'avesse preso il primier salto, il primo corso, e che da allora innanzi non sarà si faticoso o alto luogo, dove per non scontrarsi in essi occhi che dispergono, cioè discacciano, per lo timor i sentimenti suoi da lui, lassandolo come un freddo e immobile smalto, almeno con la volontà non s'erga, non monti. Onde dice che se per non veder chi o strugge fu tardo al voltarsi, che forse fu fallire non indegno di scusa, avendo egli fatto, come suol inferire, per fuggir la morte, ma più dice in sua scusa, che 'l tornar a quel ch'uom fugge, com'egli che l'assalto de begli occhi fuggiva, e nondimeno, vinto dal desiderio, s'era per vederli tornato a voltare, e l'avere il cuore sciolto da tanta paura, come quella della morte era, avendo fatto elezione più tosto voler morire che lassar di vederli, fu della fede sua e del suo tenace amore, pegno, cioè segno, non leggiero, cioè non da disprezzare.
Salto per corso. Ergere, montare.
Descrive il poeta nel presente sonetto il medesimo terrore che egli aveva, quando in Madonna Laura si scontrava, che nel precedente ha fatto, dov'è da notare che passandosi ella un giorno da lontano, e affisando gli occhi in lui, da quali erano abbarbagliati i suoi, dice, che poco più che la luce di quelli s'apressava ad essi suoi occhi, che sì come la provincia di Tessaglia vide cangiar lei, alludendo alla favola di Dafne, la cui trasformazione in lauro fu in Tessaglia, così egli avrebbe ogni sua forma cangiato. E se non si fosse potuto trasformare in lei, cioè in lauro, più di quello che egli era trasformato, avenga che tanta sua trasformatione all'impetrar da lei mercede non li vaglia, che forse per la paura si sarebbe trasformato in una statua di qualche rigida e dura pietra, e sarebbesi liberato del grave e aspro giogo d'amore. Onde mostra aver invidia al vecchio Atlante, per non esser stato da Madonna Laura come esso Atlante fu dalla testa di Medusa in sasso trasformato, la cui favola è da Ovidio nel III libro del
Metamorfosi
recitata, e quando 'l sole ascende al nostro emisfero, esso Atlante fa con le sue spalle, come dice, ombra a Marocco, cioè a Mauritania, provincia in Occidente.
Lei, cioè Dafne.
Fa il poeta nel presente sonetto comparazione da lui andando a veder gli occhi di Madonna Laura a la farfalla, quando talor nel tempo della state usa negli altrui occhi volare, perché da lei due inconvenienti ne seguono, l'uno dei quali è ch'ella muore per mano di colui, ne' cui occhi vola, l'altro che il suo intercettore si duole del dispiacere che da lei riceve, così similmente dice ch'egli corre sempre al suo sole. Cioè al lume degli occhi di lei, e fatal di lui, onde ancora nella quarta stanza di quella canzone, d'esso lume parlando, e credo dalle fasce e dalla culla al mio imperfetto, a la fortuna aversa questo rimedio provedesse il cielo, da la vista de quali occhi vien tanta dolcezza, che Amore, cioè che 'l suo amoroso affetto non apprezza il freno de la ragione, la quale è quella che discerne e vede che fa male, nondimeno per non esser egli forte da poter resister alla voglia c'ha di vederli, resta da quella superato e vinto, ancora che conosca quanto l'abbiano a schifo, onde per l'affanno ch'egli ne patisce, il quale supera la sua virtù, dice che veramente come la farfalla, egli ne morrà, e che l'amore l'abbaglia, si cioè talmente li leva il lume de l'intelletto, ch'egli non piange il proprio danno di lui vedendosi per tal vista esser al morir destinato, e l'anima alla propria morte, come cieca conferire, ma piange la noia che fa a Madonna Laura nel suo vederla, e in sententia teme più il dispiacer che fa lei nel suo vederla, che la propria morte.
L'anima rationale, avvenga che sia immortale, come i più famosi filosofi provano, e l'openione cristiana tiene, nondimeno allora si dice essere morta, quando è privata della grazia. Onde dice, E l'alma cieca conferente al suo morire.
Abbagliare, offuscare la vista.
L'anima quando si intende essere morta.
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato quanto possa il suo amoroso affetto più della ragione in lui. Onde ora in questo mostra, come ogni volta che quello, nel voler la bellezza di Madonna Laura considerare, esce fuori degli onesti termini, sia da lei, mediante la sua turbata vista, raffrenato, e che il terrore che da quella li viene abbia ugualmente forza di raffrenarla e farla umana e dolce verso di lui tornare e quasi in questa forma dicendo, quando 'l voler inteso per lo desiderio ch'egli ha d'essa vista di lei, che con duo sproni ardenti, l'uno dei quali intende per lo verso di lei grande e smisurato amore, l'altro per la molta speranza che di conseguirlo avea, e con un dur freno per quello del timore inteso, mi mena e regge, mi nuove e affrena, per far gli spirti miei, nel vederla contenti in parte, Trapassa adhor adhor, trapassa a tutte l'ore l'usata legge, l'usata regola dell'onesto, Trova chi legge, trova Madonna Laura che legge e discerne nella mia fronte le paure e gli ardimenti del profondo cuore. E vede Amore, e vede Madonna Laura che, la qual corregge e affrena le imprese d'esso volere, ne turbati e pungenti occhi folgorare. Onde, cioè per la qual cosa, come colui che teme il colpo di Giove irato, per aver detto folgorare, si ritira indietro dall'impresa perché la gran temenza, la qual ha, vedendo gli occhi di lei turbati, affrena il gran desiderio che aveva di quelli gioire. Ma dice che l'amoroso fuoco, e la speranza che di tal suo amore conseguito avea, che sono i due ardenti sproni, co quali era a veder Madonna Laura menato, quel fatto freddo, e questa paventosa dal timore, che rea 'l freno che lo reggeva, rasserena talora la dolce vista di lei; la qual per lo trapassar che 'l desiderio faceva dell'usata legge, aveva prima fatta turbare. E in sentenza dice che quando egli, per contentar in parte i suoi spirti della vista di Madonna Laura, trapassa alcuna volta la regola dell'onesto non osservando il modo, ma mostrandosi di quella oltre all'usato ingordo, ch'ella la qual conosce in lui questo troppo sfrenato ardire, per volerlo raffrenare se li mostra turbata in vista. Onde egli dal timore assalito, si retira indietro da l'impresa, ma vedendo ella questo timor esser in lui, e piacendole per non volerlo del suo amore disperare, e per confortarlo, rasserena alcuna volta la sua dolce vista, che per lo troppo ardir di lui s'era prima turbata.
Ad ora ad ora, a tutte ore.
Per qual cagione Madonna Laura si mostrava turbata in vista al Petrarca.
Il presente sonetto è della medesima sententia del precedente, nel quale il poeta ha dimostrato il repugnar che Madonna Laura contra il suo sfrenato voler faceva, come ancora in questo fingendo esso voler in persona d'Amore, il quale veniva talora nella fronte, dove fermandosi poneva la sua insegna, a dinotar il suo sfrenato ardire, che nel voler le bellezze di Madonna Laura considerare, alcuna volta usava. Onde dice che ella sdegnandosi di tal ardire, esso amore si rifuggiva al cuore, e essendo per lo precedente chiaro, non ha bisogno d'altra esposizione. Domanda quello che egli de altro fare, se non sino all'ora estrema star col suo signore amore, cioè se non sino all'ultimo giorno della sua vita sempre amare, e dice che fa bel fine chi muor ben amando, perché a ben amare ogni virtù vi concorre, e chi vive con virtù non può far tristo fine.
La presente canzone il poeta mostra averla fatta sulla riva del Colon, fiume che corre un miglio appresso la terra di Cabrieres, del quale nell'origine di Madonna Laura abbiamo detto, ov'ella alcuna volta soleva con altra con altra compagnia di donne per suo diporto andare. E seguitando nell'amorose sue querele, loda non poco l'aria, la terra l'erbe e i fiori di quel luogo, e fa che da lei piglino la virtù generativa con alcune belle e sottili arguzie, onde nella presente prima stanza quasi in questa forma dice, che se l'amoroso pensiero, che lo strugge sì come è struggente e saldo, cioè molesto e fermo in lui, così lo vestisse d'un conforme colore allo struggimento, il qual sarebbe, come vuol inferire, d'esser magro, squallido e macilento, che forse tal l'arde e fugge, c'avrebbe parte del caldo, e più non lo fuggirebbe. Intendendo di Madonna Laura, la quale, quando per lo cangiato aspetto di lui avesse avesse compreso ch'egli per lei si consumasse e struggesse, Amore che dormiva allora in lei si sarebbe forse detto, perché niente è che tanto muovi la cosa amata verso l'amante, quanto 'l vedersi da quello cordialmente amare. Onde Dante, Amor ch'a nullo amato amar perdona. Il testo va in questo modo ordinato: Se 'l pensier che mi strugge, com'è pungente e saldo, così mi vestisse d'un conforme colore, forse tal m'arde, ecc. Quando dunque Madonna Laura avesse la sua parte dell'amoroso caldo, l'orme cioè le pedate del poeta sarebbono men solitarie, perché da quelle di lei sarebbon accompagnate, e conseguentemente gli occhi meno molli, perché quando fosse da lei accompagnato li lederebbe la cagion del pianto.
Nella presente stanza seguitando il poeta il proposito della precedente dice che se le sue Rime son aspre e nude di dolcezza, che 'l difetto vien da Amore che lo sforza a dire, per lo troppo tormento che li dà, lo spoglia di sapere, cioè di ogni dotto e ornato stile. Ma si come il ramo non mostra e sempre di fuori per la scorza fronde e fiori la sua interna virtù, che né ancora egli per tal tormento può di fuori nel parlare sua virtù mostrare. Ma che amore, e quegli begli occhi di Madonna Laura, ove esso amore, come in suo albergo e nido si siede all'ombra, debbano mirare ciò che 'l suo cuor chiude dentro a sé, e così potranno vedere quanti e quali siano gli alti suoi amorosi concetti, avvenga che in parole, per la detta cagione, non si possa esprimere, soggiungendo che se 'l suo dolore, che fuori di lui si sgombra, cioè con prestezza esce fuori, aviene che per la via del pianto, o del lamento esca, l'uno, inteso per lo pianto, dice, che nuoce a lui perché sì come vuol inferire, lo consuma e strugge, l'altro, inteso per lo lamento, nuoce altrui, intendendo ch nuoce a tutti gli altri che lo odono lamentare, per la noia che ne hanno. Onde ancora nella sesta stanza di quella canzone, Ben mi credea passar mio tempo omai, or dei miei gridi a me medesimo incresce, che vo noiando prossimi e lontani, ch'io non lo scaltro, perch'io non lo raffreno, o considero bene, onde scaltrito dichiamo esser colui che nelle cose sue sagacemente e non inconsiderato procede.
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato esser sforzato dall'amoroso incendio a dever col pianto, o col lamento disfogar il cuore, e che 'l pianto, e 'l lamento alli altri che l'odono nuoce. Ora in questa per men suo male, mostra desiderare di potere tornare a disfogarlo con quelle dolci e leggiadre rime, con le quali, nel primo assalto che li diede amore, che fu quando di Madonna Laura lo fece innamorare, e mentre ch'egli non ebbe altr'arme, cioè altro rimedio, intendendo di quel delle lagrime, era usato di disfogarlo e domanda chi verrà mai che squadre, chi farà mai colui, che riduca e faccia il mio cuore di rigido smalto talmente, che non generi più lacrime, ma che solo lo possa con le dolci e leggiadre rime, com'a principio soleva disfogare? Per che mi pare avervi dentro uno che sempre dipinge Madonna Laura e di lei parla, e questa è l'immagine di lei col continuo pensare a quella. Ma a voler poi ritrarla, a volerla poi nelle dolci e leggiadre rime tale e di tanta eccellentia, quale con la immaginativa io la considero, descriverla, per me solo non basto, né sono sufficiente a poterlo fare, avendolo amore, come ha detto nella precedente stanza, spogliato di sapere, onde per lo dolore dice che se ne stempra, consuma e strugge. E così esserli scorso, cioè passato, il suo dolce e dilettevol soccorso del piacere che 'n disfogar il cuore con le dolce e leggiadre rime pigliava, avendolo col pianto preso a disfogare, non essendo per la ragione detta di sopra, più le rime per se stesse sufficienti a poterlo fare.
Avendo il poeta nella presente stanza dimostrato che, per averlo amore spogliato di sapere, non sia più in sua facoltà di poter con le sue dolci e leggiadre rime le bellezze di Madonna Laura ritrarre, e con quelle amorose fiamme disfogar il cuore. Ora in questa mostra, che quantunque egli non sappia, né possa quanto bisognerebbe di quelle dire, nondimeno esserne però dal desiderio tirato, a similitudine del fanciullo, che non sa parlare ma pur gli è noia il tacere, imitando San Girolamo in quello
De Sermone assumptionis Marine
, ove dice,
Experiar quod horatmini, affectu infantium, qui quaecumque audierint, fari gestiunt, cum necdum ad plenum possint verba formare
, e vol che Madonna Laura sua dolce nemica l'oda anzi ch'egli muoia. E se forse ella ha solo ogni sua gioia nel veder il suo bel viso posto, e d'ogni altra cosa è schifa, prega la verde riva del Colon ch'ella la voglia udir lei, e prestar ai suoi sospiri sì largo volo, sì aperto camino da potere penetrare in lei, che sia sempre detto, ch'ella li fosse amica e compassionevole.
Nella precedente stanza il poeta ha voltato il parlar delle bellezze di Madonna Laura alla riva del Colon, là dove era ella alcuna volta usata d'andare, come nella prima stanza dicemmo, e là dove egli l'avea veduta. Onde ora in questa loda il suo bel piede, dal quale, come abbiamo veduto in quel sonetto Aventuroso più d'ogni altro terreno, essa riva fu segnata, dicendo, com'ancora il suo lasso e stanco cuore, col tormento e afflitto fianco, Riede a partire, torna far le parti de suoi nascosti e celati amorosi pensieri, desiderando ch'ella avesse riposti, cioè ritenuti tra fiori e l'erba, che da quello fu segnata, qualche suoi vestigi, acciochè la sua acerba e lagrimosa vita, potesse in loro alcuna quiete e riposo trovare, il che non essendo dice, che l'anima dubbiosa del fine, e vaga di tai dolci pensieri, come e al meglio ch'ella può s'appaga e acqueta.
Seguita il poeta in questa stanza nelle lodi di Madonna Laura essendo pur su la riva del Colon, dicendo che in ogni luogo che egli volge li occhi, pensando che 'l vago lume di quelli di lei l'avea percosso, trova e parli di veder nell'aria un chiaro e lucido sereno, e ch'ogni erba e fior che coglie tra le piagge e 'l fiume, onde ella ebbe in costume d'andare, e talor di farsi un seggio di fiorite verdi e fresche erbette, che crede ch'ella abbia radice, cioè virtù generativa nel terreno, per la quale siano state prodotte. Onde ancora in quel sonetto, Come 'l candido piè per l'erba fresca, I dolci passi onestamente muove, virtù, che i fiori intorno apra e rinove, de le tenere piante sue par ch'esca. E nella sesta stanza di quella canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, pur di lei parlando, Legno, acqua, terra o sasso Verde facea, chiara e soave l'erba Con le palme e coi piè fresca e superba, E fiorir co begli occhi le campagne. Il testo va in questo modo ordinato: Qualunque erba o fior colgo fra le piagge e'l fiume, ov'ella ebbe in costume gir, e tal or farse un fresco, fiorito e verde seggio, credo ch'ella aggia radice nel terreno. E così dice che nulla sen perde, cioè del terreno, erbe e fiori, ch'egli non crede, che da lei non abbiano preso e piglino la virtù, e di questa sua certezza mostra contentarsi, conoscendo che sarebbe il peggio per lui, quando avesse più certezza che cosi fosse, perché quando più certezza si ha del valore della cosa desiderata, e che non si può conseguire, tanto più ne cresce la voglia, la qual cosa al poeta sarebbe stato di maggior tormento, e un giugner legne al fuoco, e seguitando mostra, che li cada nel pensiero la consideratione di quelle, e di quanto valore ella sia, poi c'ha potere di fare Altrui, cioè le dette cose, tale di tanta virtù, volendo inferire, ella dover esser di virtù infinita.
Nella presente ultima stanza il poeta volgendo il parlare alla canzone in sentenza dice, che per parerli ch'ella sia roza, cioè rustica, ch'ella non vada come l'altre alla presenza delle persone ma che debba in questi boschi, cioè in questi luoghi solitari, ov'ella era stata composta, come luogo alla rozzezza sua conveniente, rimanere.
Colon fiume. Il vedersi amato muove ad amare altrui. Dante.
Scaltro verbo e scaltrito, quello che significa.
Squadrare.
San Girolamo.
Riede a partire, cioè torna a far parte.
Ordine del testo.
Conosci in vece di conosca.
Descrive il poeta nel presente sonetto la felicità de fiori, de l'erbe, de gli arbori, delle foglie e del fiume di Colon, con quella di tutti i luoghi, ove Madonna Laura aveva in costume per suo diporto di andare, come nella precedente canzone abbiamo veduto, alle quali cose dice, che invidia gli atti e i modi onesti e cari da lei in quei luoghi tenuti e esser a loro, come vuol inferire, conceduto il poterli vedere, e a lui alcuna volta negato. Piglia il fiume qualità dal vivo lume del viso de gli occhi di lei, perché con le sue acque, come dice, bagnandoli, veniva dello splendor di quella a partecipare. E soggiunge ch'oggimai non sia scoglio in loro, che non impari l'arder con la sua fiamma, cioè che non impari d'arder dell'amor di lei com'egli ardeva, volendo inferire, ch'essendo ancora essi partecipi delle bellezze di lei, così devevon ragionevolmente fare.
Il fiume perché prendeva qualità dagli occhi di Madonna Laura.
Nel presente sonetto il poeta descrive la grande ammiratione che egli e amor alcuna volta avevano nel considerar la dolcezza nel parlare e nel ridere, con alcuni altri suoi dolci affetti Madonna Laura mostrava. Onde dice, Amor e io miriam costei quand'ella parla o ride, sì pien di meraviglia, come chi mai, come colui, il quale alcuna volta vide cosa mirabile, che, perché somiglia sol se stessa e null'altra, essendo le cose sole naturalmente di grande ammiratione appresso di chi le vede. E soggiunge, Dal bel seren delle tranquille ciglia, dal bel sereno fronte che fa le ciglia tranquille, Le mie due stelle fide, intese per i begli occhi di lei, sfavillan sì, risplendon talmente, ch'altro lume non è ch'infiammi o guide, ch'accenda o scorga, chi si consiglia, chi si dispone, d'altamente amare, domandando, qual miracolo è quello, quando fra l'erba, essendo ella su prati, over essendo ella altrove, preme col suo candido seno un verde cespo, mosso d'essa, come erba, come in seno usano le donne tramontane di portare. Onde in quella canzone, Chiare fresche e dolci acque, Erba e fior, che la gonna leggiadra ricoperse co' l'angelico seno, Siede, posa e sta, quasi come un fiore, inteso per lo suo bel viso, che da l'erba o da esso cespo esca fuori, Domandando ancora qual dolcezza era vederla, nella stagione della primavera, pigliando la similitudine da' frutti, che prima sono acerbi e poi maturi, così la stagione della primavera è acerba e poi la state è matura.
Onde ancora in quel sonetto, Una candida cerva sopra l'erba, levando 'l sole alla stagione acerba, Vederla ir sola co' suoi pensieri, Tessendo un cerchio, o componendo una ghirlanda A lor tesoro e crespo, al suo aurato capello polito e riccio, volendo inferire, ch'era dolcezza infinita.
Mai senza la negativa, vale quanto alcuna volta.
Oro posto per i capelli di colore oro.
Seguita il poeta nel presente sonetto il narrare delle virtù e i dolci effetti, che in Madonna Laura, quand'ella su prati a suo diporto andando, aveva notato. Onde dice che quando il suo candido piede moveva onestamente i dolci passi per l'erba fresca, che da quelli parea ch'uscisse virtù, per la quale i fiori s'aprissero e rinovassono, e come con questo suo dolce andare, e col soave suo sguardo, le dolcissime parole e l'atto mansueto umile e tardo si accordavano, e da quattro leggiadri e dolci modi da lei tenuti, ch'egli domandava faville, perché da quelli era egli del suo amore acceso, dice, che nasceva il gran fuoco, del quale egli viveva e medesimamente ardeva, e non gia sole, che, perché dice di essere fatto al Sole, per lo splendido viso di lei inteso, uno uccello notturno, perché egli restava da quello, come sol l'uccel notturno dal sole, abbagliato, volendo inferire, che oltre a le quattro faville, v'era aggiunta questa de la luce del bel viso, perché dice non esser sole, di che egli, egli medesimamente, come di quelle vivendo, ardea. Onde ancora in quella canzone, Ben mi credea pasar mio tempo homai, cosi dal suo bel volto L'involo hor uno e hor altri sguardo, E di ciò insieme, mi nutrico e ardo.
Amore invisca solamente i cuori legiadri.
Uccello notturno.
Narra il poeta nel presente sonetto come vide un dì Madonna Laura accompagnata da dodici altre donne, le quali alle stelle, e ella al sole, di bellezza assimiglia, che per quanto giudicar possiamo, andavano sul fiume del Colon in una barca a piacere, e poi che furon in terra discese, e suso un carro per tornare a Gabrieres montate, Madonna Laura dolcemente si pose a cantare, non cose umane, o vision mortale, cioè non cosa mortale veduta, ma cose, secondo che vuol inferire, divine. Giason fu figliolo d'Esone tessalico,
il quale secondo Ovidio, nel vii libro del
Metamorfosi
, fece fabbricare la nave Argos e su quella andò nell'isola di Colchi alla conquista dell'aureo vello, del qual ogni uomo si vuol vestire, perché l'oro par che da tutti sia desiderato. Il pastor del quale Troia ancor si duole fu Alessandro Paris, figliuol di Piramo re di Troia, il quale, come e perché ne suoi primi anni abitasse fra pastori e poi rapisse in Grecia la bella Elena, che fu la rovina di Troia, onde il poeta dice che di lui si duole, è notissima istoria.
Autumedon su dei carri e Tisi nelle navi maestro. Onde Ovidio,
Curribus Autumedon, lentisque erat aptus habenis, Tiphis in haemonia puppe magister erat
.
Giasone.
Ovidio.
Paris.
Autumedon.
Quello che il nostro innamorato poeta volse nel presente sonetto, in sentenza significare, si fu che non era in facoltà del rinfrescamento di tutte le altre acque, né di tutte le altre piante, le cui foglie sogliono per se stesse e mediante la lor ombra rinfrescamento rendere, d'allentar e alquanto amorzar il fuoco, il qual dice che gli ange, cioè che li soffoca e crucia il cuore, quanto era in poter dell'acqua del rio, o veramente torrente di Lumergue, del quale, nell'origine di Madonna Laura e in altri luoghi abbiamo detto, e della pianta del lauro, ch'egli a riva d'esso torrente in memoria di lei aveva piantato, come in quel sonetto, Apollo, s'ancor vive il bel desio, vedremo. Onde e l'uno e l'altro di questi dice esser gli assalti d'amore il suo solo soccorso, com'ancor in quella canzone, Alla dolce ombra delle belle frondi, Tal che temendo dell'ardente lume, non volsi al mio rifugio ombra di poggi, Ma della pianta più gradita in cielo, Un lauro mi difese alor dal cielo, e in quel sonetto, S'al principio risponde il fine e 'l mezo, Del quartodecimo anno ch'io sospiro, Più non può scampar l'aura nel rezo, onde cioè del qual soccorso armato, convien che viva la vita ad imitatione dei latini, i quali dicano vivere vitam, che la qual vita trapassa a sì gran salti, a sì lungi e veloci andare, mostrando desiderar che 'l lauro su la fresca riva d'esso rio cresca, acciochè egli, il qual l'aveva piantato nella sua ombra, e al suono dell'acque, i suoli leggiadri e alti amorosi pensieri scriva. Il fiume di Tesino mette poco di sotto a Pavia nel Po, il quale nasce nelle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, e passa per lo Piemonte e in Lombardia, a Piacenza Cremona e Ferrara, e mette nel mar Adriatico, Varo divide la Francia dall'Italia, Arno nasce nella radice degli Appennini, correndo per la Toscana, passa a Firenze e a Pisa, Adige passa Verona, Tebro, cioè Tevere, nasce presso dov abbiamo detto dell'Arno, e passa per Roma, Eufrate e Tigri nascono nella maggior Armenia, Nilo passa per lo Egitto, Hermo in Lidia, Indo in India, Gange è uno grossissimo fiume in Oriente, Tana divide l'Asia dall'Europa, Histro altamente Danubio, nasce tra Germani, corre per l'Ungheria e mette nel mar maggiore, Alpheo passa per Tessaglia, Garzona nasce ne monti Averni, e passa per la Guascogna, il mar che frange, molti l'intendono per lo mar Mediterraneo, perché frange e rompe le sue onde con più empito che non fa l'oceano, nondimeno noi abbiamo quasi per opinione che il poeta l'abbia forse inteso per lo fiume Timauro, che passa a Udine, ad imitatione di Servio, nella esposizione di quel luogo di Virgilio, nel primo de l'Eneide ove dice, Unde per ora novem magno cum murmure montis, It mare praeruptum, il Rodano nasce nell'Alpi, che dividono i Savoini dagli Elvetii, passa per lo lago di Ginevra, a Lion, a Vienna e in Avignone, mette in acqua morta in mare, Hibergo è fiume d'Ispagna, Rheno nasce per gli Elvetii e passa per i Germani, Sena passa in Francia per mezzo Parigi, Albia passa per la Germania, Hera per la Francia, Hevro è fiume di Tracia.
Ovidio. Angere, suffucare.
Torrente di Lumergue.
Viver vita ad imitazione dei latini.
Fiumi diversi.
Descrive il poeta nel presente sonetto per alcune similitudini tutte quelle parti che rendevano Madonna Laura di singular bellezza. Onde per l'oro intende le sue splendide chiome, per le rose le purpuree labbra, per le fresche e tenere brine, la bianca e delicata faccia, per le perle i suoi candidi denti, domandano dove Amore tolse tutti questi ornamenti con tante e sì divine bellezze, che la sua forne più serena che 'l cielo adornavano, e da quali angeli il celeste canto, e di qual sole l'alma, cioè la nutritiva luce dei suoi begli occhi, da quali dipendevano in lui le contrarietà, che dice, e che da lui sono in molti altri luoghi usate, cioè che da quelli avesse, quando sdegnata verso di lui si mostrava essere, guerra, e quando graziosa, pace, e cocevanli il cuore in ghiaccio, quando da troppo timore, e in fuoco, quando da troppo amore si sentiva esser oppresso.
Lodi di Madonna Laura.
Ghiaccio e fuoco compreso per la tema e per l'amor del Petrarca.
Seguita il poeta nel presente sonetto nelle lodi delle bellezze e altre doti di Madonna Laura dicendo, che l'anime di coloro che vedevano alcuna volta con quanta soavità e dolcezza era mosso dall'aura, il verde lauro inteso per quello ch'egli in memoria di lei aveva sul torrente di Lumergue piantato, come già in più luoghi abbiamo dimostrato, e l'aureo crine, cioè di Madonna Laura l'aurato e biondo capello, andavano dai loro corpi pellegrine, perché tirate dalla dolcezza di tal vista, si partivano, come vuol inferire, da quelli, e facendola senza pari al mondo, avenga che in pure spine, cioè in aspro e selvatico luogo fosse nata, come ancora in fine di quel sonetto, Anima bella da quel nodo sciolta, fatto in morire di lei vedremo che 'l medesimo volse inferire, prega 'l vivo e sommo Giove, che voglia prima mandar il fine di lui, che quello di lei, acciò ch'egli non abbia a veder il pubblico e universal danno di tutti gli altri, e il particolar (come mostra) di se stesso, il qual intende che per la morte di li debba seguire, come ancor in quel sonetto, tra quantunque leggiadre donne, e belle, vedremo.
Lauro piantato da Messer Francesco Petrarca.
La presente canzone il poeta mostra averla fatta su le piagge della Sorga, e in quel medesimo luogo ove, a principio, di Madonna Laura si era innamorato, dal qual assai abbiamo nell'origine di lei detto, e nella tavola posta di sopra manifestamente si può vedere. Mostra dunque per l'amorose passioni esser quasi condotto al fin della vita: di lei dolendosi commemora tutti gli effetti che notò in lei allora quando in quel luogo egli a principio la vide. Onde in questa prima stanza parla all'acque della Sorga, nelle quali pare che ella per rinfrescarsi si dovesse le belle membra delle mani, e forse delle braccia, lavare, al Ramo, cioè ad un fiorito arbore, parte per lo tutto pigliando, come di sotto vedremo, a piè del quale ella mettendosi a sedere si venne appoggiare, all'Herba e fiori simili a quelli che dalla leggiadra gonna insieme con il suo angelico seno furono ricoperti, avendosene ella in esso seno alquanti posti, come di tutte le donne tramontane, specialmente del mese, come fu d'Aprile, è sempre d'usanza fare. Onde ancor in quel sonetto, Amor e io sì pien di meraviglia, qual miracol è quel, quando fra l'herba quasi un fior siede? Over quand'ella preme col suo candido seno un verde cespo? E nella terza stanza di quella canzone, In quella parte, dove Amor mi sprona, Ne gli occhi ho pur le violette e'l verde, Di ch'era nel principio di mia guerra, Amor armato sì, ch'ancor mi sforza, E quella dolce leggiadretta scorza, Che ricopria le pargolette membra, Et ultimamente all'aere sereno, nel quale a principio, Amore co begli occhi, che furono di lei gli amorosi sguardi, gli aperse e impiagò il cuore, pregando, che tutti insieme vogliano dare all'estreme sue parole udienzia.
Ha il poeta nella precedente stanza voltatoli parlar all'acque della Sorga, all'arbore, al qual Madonna Laura era stata appoggiata, all'erba e fiori, e all'aere di quel luogo, dicendo che debbano dare udientia alle sue estreme parole. Ora, in questa, viene alla domanda, che vuol fare, dicendo, che s'egli pur destinato e il cielo in ciò s'adopra, ch'amor chiuda i suoi occhi lacrimando, cioè che il ciel voglia ch'egli per troppo amar si muoia, ch'almeno qualche gratia il suo meschin corpo debba fra loro ricoprire, e l'anima ignuda e di quello spogliata torni al proprio albergo, il quale non per lo cielo, che suo proprio albergo sarebbe, ma per Madonna Laura l'intende, in cui l'anima di lui, poeticamente parlando, soleva albergare. Onde in quel sonetto Il mio avversario, in cui veder solete, dello specchio dolendosi dice, Per consiglio di lui Donna m'avete scacciato del mio albergo fuora, e in fin di quella canzone, Sì è debile il filo a cui s'attiene, E dov'io prego che 'l mio albergo sia, soggiungendo che quando egli muoia con questa speranza, che la morte li farà men dura, perché 'l suo spirito lasso non poria mai più in riposato porto, quanto in esso suo proprio albergo, né la carne travagliata e l'ossa in più tranquilla fossa, e fuggir e esser ricoperte, quanto fra loro.
Nella precedente stanza il poeta ha dimostrato, che quando egli sia pur destinato a dever per troppo amar morire, desiderar che la sua anima torni in Madonna Laura, e 'l corpo sia sepolto sulle spiagge della Sorga, in quel medesimo luogo, dove a principio di lei si era innamorato. Ora in questa narra la cagione perché egli desideri questo, dicendo che verrà forse ancor tempo che Madonna Laura, per la bella e mansueta fiera intesa, torni all'usato soggiorno, torni in quel luogo, dove egli sarà sepolto, nel quale mena ogni anno nel venerdì santo, come nell'origine di lei fu dimostrato, ella usata era d'andare, e come del principio del loro amore ricordandosi, cercando e guardando di lui, volga la vista desiosa di vederlo, e lieta per la speranza che n'avea, là in quel luogo, ove ch'ella aveva in tal benedetto e santo giorno scorto, cioè veduto, e appositive o pietà, quello che il latini dicano,
Heu pietas
, e noi volgarmente, oimè compassione, quantunque da altri sia interpretato per quello che essi latini dicano, utina, come ancor in quel sonetto. Se Virgilio e Omero avessin visto, ove dice, Et o pur non molesto gli sia il mio ingegno, e 'l mio lodar non sprezze, vedendolo già fra le pietre esser fatto terra, Amor la inspiri in guisa, cioè talmente, ch'ella sospiri. Et asciugandosi col bel velo faccia dolcemente forza al cielo, con la pietà di tal suo sospirare e modo compassionevole d'asciugarsi col velo del pianto gli occhi, ch'ella, contro ogni statuito ordine d'esso cielo, impetri alla sua anima mercede, quasi come persino ad ora fosse in lei stata depositata. Il testo va in questo modo ordinato, Et o pietà, già terra in fra le pietre vedendo, Amor l'inspiri in guisa che sospiri, Et asciugandosi gli occhi col bel velo, faccia sì dolcemente forza al cielo, che m'impetri mercè.
Avendo il poeta nella prima stanza domandato udientia a tutte le cose di quel luogo, ove a principio di Madonna Laura s'era innamorato, poi nella seconda fatto la sua domanda, e nella terza detto di tal domanda la sua cagione: ora in questa seguita in dir del dolce modo, nel qual Madonna Laura si stava a quel fiorito arbore, che di sopra abbiamo detto, appoggiata, e la vaghezza ch'era veder i fiori giù da quello addosso e intorno a lei cadere, la qual cosa dice che gli era dolce nella memoria, ciò dolce cosa il ricordarsene. E ch'ella in tanta gloria sedeva umile, a denotar la sua somma eccellentia accompagnata con la modestia e tempereantia d'animo. Onde ancor nella settima stanza di quella canzone, sì è debile il filo a cui s'attiene, pur di lei parlando, e agli atti suoi soavemente altieri, e i dolci sdegni altamente umili.
Nella precedente stanza altro non vuole il poeta inferire, se non che in quell'ora che su le piagge della Sorga s'era a principio con Madonna Laura trovato, nel considerare l'eccellenti sue bellezze e leggiadri costumi, era tanto stupito, ammirativo e vinto, ch'egli si credeva esser in cielo, e ch'ella fosse quivi nata. E sì da quell'ora in qua dice piacerli talmente quest'herba, cioè tutte l'erbe per la memoria di quelle di quel luogo, ove dice ch'egli s'era a principio innamorato, che in altro luogo non ha né trova della sua amorosa guerra pace, tanto ch'egli piglia di tal ricordo, la qual cosa è ancora contro la opinione di coloro i quali vogliono che il poeta s'innamorasse di lei in Avignone e nella chiesa di Santa Chiara, come detto abbiamo nell'origine di lei.
Nella presente ultima stanza il poeta volgendo il parlare alla canzone dice, che s'ella avesse ornamenti, quanto ella voglia d'averne, ch'arditamente potrebbe uscir del bosco, cioè di quel luogo solitario, ove ella era stata fabbricata, e andar fra la gente, volendo inferire, che per mancar di quello, ella si debba in quel luogo dalla gente lontana rimanere.
Ramo posto per tutto l'arbore figuratamene.
Madonna Laura proprio albergo dell'anima del Petrarca.
Scorger vedere. O, in che significato preso dal Petrarca.
Dolce nella memoria, come si ha da intendere.
Falsa opinione di coloro che vogliono credere che il Petrarca si innamorasse di Madonna Laura in Avignone.
Lauda il poeta nel presente sonetto di Madonna Laura la bella mano e similmente non dei suoi leggiadri guanti, ch'egli le aveva tolto, desiderando di altrettanto poter avere del velo ch'ella portava in testa, intendendo in quella parte solamente ch'ella si lassava davanti agli occhi cadere, della qual in quel sonetto, Orso e non furo mai fiumi né stagni, abbiamo veduto essersi con esso Orso doluto, perché né dal guanto la vista della mano, né dal velo quella de gli occhi li potesse essere negata, e perché da Madonna Laura gli era domandato il guanto, esclama alla incostantia delle cose umane, considerando quanto picciol spatio possano in uno stato durare, come alhora per lo guanto in se stesso ne vedeva la prova; perciò che quantunque furto fosse, e allora da lui posseduto, bisognava però che egli se ne spogliasse, perché a lei, che verso di lui veniva, conveniva che lo rendesse. Onde dice, E vien chi men spoglie. Il secondo quaternario va in questa forma ordinato, Diti schietti soavi di color di cinque perle orientali, e solo acerbi e crudi nelle mie piaghe, Amor consente ignudi or voi per arricchirmi a tempo.
Ordine del testo.
Nel precedente sonetto il poeta ha lodato una delle belle mani di Madonna Laura col guanto di quella ch'egli le aveva tolto. Ora in questo avendole egli esso guanto restituito, mostra come non solamente quella mano, che 'l guanto restituito si revistiva, ma l'altra e le due braccia ancora, erano accorte e preste a stringerli e molestarli il suo timido, e piano, timoroso e umil cuore. Onde di sotto, che fanno altrui tremar di meraviglia, soggiungendo che l'amore tende fra le vaghe nuove, e mai più non vedute di lei mille, cioè infiniti lacci, e nessuno in vano, per chè vuol inferire che dal diletto che nella consideratione di quelle si pigliava, ogni uomo e specialmente lui ne rimaneva allacciato e preso, e che per sì fatto modo adornavano l'alto suo celeste abito, cioè portamento o contegno, che né stile, né ingegno umano lo potrebbe mai esprimere, narrando quali esse vaghe, nuove e oneste come fossero intendendo per le perle ei candidi denti, e per le rose le vermiglie labbra.
Mille, figuratamene il finito per l'infinito.
Duolsi il poeta nel presente sonetto della sua dappocaggine usata, a non aver saputo ritener il guanto che di sopra abbiamo veduto a Madonna Laura tolto, e poi restituito, onde mostra pentirsi di non esser stato più costante contra lo sforzo fattoli da lei, perché glielo rendesse, o che quando portandone 'l guanto si fuggì, non giunse alle sue piante ale, per più velocemente fuggire, e far andar, per vendicarsi di lei, la mano ignuda, la qual spesse volte tra la vista i lui e quella di lei interponendosi li negava il poter i suoi begli occhi vedere. Onde tante lagrime dice che gli traeva dai suoi, come ancora in quel Sonetto ove dice, O cameretta che già fosti un porto, ove dice, o letticciuol che requie eri e conforto in tanti affanni, di che dogliose urne ti bagna Amor, con quelle mani eburne Solo ver me crudeli a sì gran torto. E in quell'altro, Orso, e non fur mai fiumi né stagni, E d'una bianca mano ancor mi doglio, Ch'è stata sempre accorta a farmi noia, E contra agli occhi miei s'è fatta scoglio.
Madonna Laura chiamata dal Petrarca angioletta.
Era il poeta quando fece il presente sonetto in Valchiusa, e guardando a quell'umile e basso colle che veggiamo nella tavola alla destra sponda d'essa valle far coda, e sul giorno innanzi egli era con Madonna Laura e altra compagnia stato a piacere, ove il guanto, che ne' tre precedenti abbiamo veduto, gli aveva prima tolto e poi restituito, parla al suo cuore e dice che debba tornare in quel medesimo luogo a lei, e che tenti se fosse ancora tempo da scemar il loro dolore, che per fin allora era cresciuto, cioè che provi s'egli la potesse alquanto verso di loro umiliare, domandandolo partecipe, presago, cioè indovino del suo male, perché 'l cuore, cioè la mente è molte volte del male, così ancora del bene, indovina. Ma rispondendo a se stesso mostra, che quasi una terza sprona lo riprenda di sciocchezza, e li dimostri che parla al vento, per che il suo cuore, partendo egli il giorno innanzi da Madonna Laura s'era con lei rimaso, e così nascosto dentro ai suoi begli occhi, perché con esso cuore egli era sempre a quelli, come a cosa più da lui desiderata volto.
La mente è spesso così del male come del bene indovina.
Essendosi il poeta avveduto dell'errore, che 'l suo cuore fosse seco, come nel precedente sonetto ha dimostrato, ora in questo, a quel colle, sul quale con Madonna Laura l'avea lassato, e ove con lei giudicava che fosse, parlando dice come esso cuore andava contando, cioè tenendo conto, ove del bel piede di lei, l'erba era segnata, e dagli occhi di lui alcuna volta, per gli amorosi tormenti fatta col pianto molle, e come con Madonna Laura ragionando mostrava in quel luogo desiderarlo, della qual cosa essa fra se stessa si rideva. Onde il poeta dice che fra lui e il colle il gioco non è pari, perché essendo Madonna Laura sul colle si può dire ch'esso colle sia non più colle ma Paradiso, e egli senza cuore esser alla condizione di un duro immobile sasso, perché quasi come del bene d'esso colle invidioso esclamando, lo dimanda per rispetto di lei, Sacro aventuroso, e dolce luogo.
Contare tener conto.
Mostra il poeta nel presente sonetto come essendo stato alcuni giorni, che non era a Madonna Laura vedere andato, e non potendo più l'amorosa fame tollerare, la tornò a vedere, e trovò ch'ella aveva il suo destro occhio infermo, onde dice che mirando egli turbato, e scuro di dolore ch'ella del mal pativa, esso occhio di lei mosse virtù, che fece infermo e bruno l'occhio destro di lui, come naturalmente vediamo avvenire a chi negli altrui occhi infermi mira, la qual cosa per venirli da lei, reputa a sua gran ventura, e per la medesima ragione dice che li diletta e non li duole, e pur come se esso male avesse avuto intelletto da voler fare ch'egli ancora di lui participasse, e penne da velocemente da l'occhio di lei a quello di lui trapassare dice che passò a similitudine d'una stella che voli in cielo, avenga che le stelle non volino, ma sono vapori del superiore elemento accesi; e natura, perché naturalmente, come abbiamo detto, s'appiglia, e pietate, quella ch'egli del dolore ch'ella pativa del male che aveva, tenne, cioè raffrenò il so di tal male nel destr'occhio come abbiamo detto di lui.
Chi mira negli altrui occhi infermi contra delle stelle il non male possono volare.
Nella presente canzone il poeta fa comparazione di diverse e strane cose, a Madonna Laura e lui. E in questa prima stanza assimiglia Madonna Laura al sole, e il suo volere, ossia il desiderio, alla Fenice la qual secondo Plinio nel x libro e ii capitolo dell'
Historia naturale
è sola al mondo, e di questa natura, che quando ella è vecchia, fa ne monti d'Arabia dei ramoscelli di cassia, e dell'arbore, il nido, e quello empie di cose odorifere, sopra le quali poi ponendosi e voltandosi al sole, col batter dell'ali accende il fuoco, nel quale volontariamente ardendo si risolve in cenere, della quale nasce poi un verme, che a poco a poco piglia forma di nuova Fenice, e così rinovata ritorna nuovamente a vivere. Così adunque dice il poeta che il suo volere, inteso per lo suo amoroso desiderio, in lui si ritrova solo, perchè sì come vuol inferire, nessun altro ne aveva che tanto lo premesse. Onde in quella canzone, Perché la vita è breve, al proposito dice, Si che di mille un sol si ritrova, Et in quella gentil mia donna veggio, e sol ivi con noi rimansi amore, e così questo suo volere in su la cima de suoi alti amorosi pensieri, si volta l sole per lo splendido viso di Madonna Laura inteso, e così si risolve quando da lui esso splendido viso parte. Onde in quel sonetto, Piovommi amare lagrime dal viso, Vero è che il dolce mansueto riso, Pur acqueta gli ardenti miei desiri, e mi sottragge el fuoco dei martiri, mentr'io sono a mirarvi intento e fiso. Ma gli spiriti miei si agghiacciano poi, ch'io veggio al dipartirgli atti soavi, Torcer da me le mie fatali stelle, E così torna al suo stato di prima, e così torna poi ad essere quello, ch'era prima che si risolvesse, perché ancora egli dice, che arde e muore e riprende i nervi suoi, cioè piglia le cagioni, delle quali è mantenuto, e vive poi con la fenice e prova a denotare, che non meno vive tal desiderio in lui, che la Fenice faccia nel mondo.
Per la intelligenza della presente stanza è da sapere che Alberto Magno, in quello
De mirabilis mundi
scrive, che nel mar d'India sono alcuni scogli di color ferrigno, i quali intende per quelle pietre che noi domandiamo calamita. E dice che sono di tanta smisurata forza, che il pericoloso è il navigarvi con navi che abbiano chiodi, perché da essi sogli vengono a esser tirati fuori dal legno, talmente che si disfanno. A questa pietra figura il poeta Madonna Laura e se stesso alla nave dicendo, Questo provo in fra l'onde d'amaro pianto, che quel bello scoglio, inteso per Madonna Laura ha col suo duro orgoglio, per aver detto pietra ardita, condotta mia vita ove conviene affondar. Onde dice, così un sasso, per essa Madonna Laura inteso, più scarso, più cupido e avaro a trarre a sé carne che ferro, furando il cor che fu già cosa dura, intendendo prima che da lacci d'amore fosse preso, e me tenne un, e me tenne insieme unito, che ora avendomi furato il core, son diviso e sparso, ha sfornita l'anima. Il testo va in questo modo ordinato, Così a un sasso più scarso a trar carne, che ferro, furando il cor che fu già cosa dura, e me tenne un, ch'or son diviso, e sparso, ha sfornita l'alma.
Assomiglia il poeta in questa stanza la natura e la vista di Madonna Laura a quella d'una fera nelle parti occidentali, detta Catoblefa, la cui natura, secondo Plinio nel settimo libro e xx, capo della sua naturale historia, è mansueta e dolce e di vista tanto crudele, ch'ogni uomo ch'assisa gli occhi in quelli di lei, subito muore. Così egli dice che per seguitare l'ingordo suo volere, d'andar a veder gli occhi col bel viso di Madonna Laura farà cagion del suo perire, quantunque che ella di natura e innocente e mansueta sia. Mostrando esser a questo contro sua voglia da esso suo cieco volere, cieco appetito, condotto, come in molti altri luoghi dell'opera veggiamo aver voluto questo medesimo significare. Ma chi diligentemente considera all'intelligentia del poeta in queste similirtudini, e quanto proprie e quanto elegantemente espresse sieno, li nascerà non solamente ammirazione, ma grandissimo e infinito stupore.
Recita Plinio al vi capitolo della natural historia e Quintiliano Curio al v d'una fonte nel paese de Trogloditi detta la fontana del sole, le cui acque sempre al mezzogiorno son dolci, e fredde, e poi a poco a poco, man mano che il sole va in Occidente, e da noi si allontana si va riscaldando, e perdendo la dolcezza tanto che a mezzanotte bollono e sono amare, e fanno il contrario andando verso mezzogiorno. Questo medesimo dice il poeta nella presente stanza, avenire a lui, essendo fonte e soggiorno di lacrime perché quando lo splendido lume del viso di Laura, che per lo suo sol intende, s'allontana da lui le sue luci degli occhi si fanno triste e solitarie, e è loro oscura notte, onde per gli amorosi pensieri che lo tormentano, arde e consuma. Ma poi se vede apparir l'oro, se vede apparir le aurate chiome di lei, e i raggi del sole, per quelli d'esso bel viso intesi, allora si sente cangiare e farsi di ghiaccio, tanto è per troppo amarla, come vuol inferire, fatto freddo dal timore. Onde ancora nel ii capitolo del Trionfo d'amore, Arder da lunge e agghiacciar da presso.
Al medesimo libro e canzone che nella precedente stanza abbiamo detto, scrive Plinio d'un'altra fonte nella selva Dodona la qual essendo fredda e gelata spegne le facelle accese e le spente accende, e più, che a mezo giorno scema e a meza notte trabocca. A quella fonte somiglia il poeta Madonna Laura, e l'anima di lui alla facella, per esser sua anima più volte stata spenta, del suo amore accesa. Onde dice che la sua anima, la qual non era ancora offesa di fuoco amoroso, appressandosi un poco a quella fredda, cioè a Madonna Laura, che, cioè per la qual, io, dice, sospiro sempre, come ancor in quel sonetto, In quel bel viso, ch'io sospiro e bramo, Arse tutta e né sol né stella vide giammai simil martirio, a dinotar che il suo amoroso incendio era stato sopra quel di tutti gli altri amanti che mai furono, grandissimo, poi che l'ebbe infiammata, rispense la virtù gelata, mediante 'l timore e bella essendo degna, e bella cosa il raffrenar il troppo ardente caldo desiderio. E così dice aver più volte acceso e spento il cuore, ed egli per la prova che ne seguiva in lui, sentirlo e per la ragione ripugnante, adirarsene spesso. Onde in quel sonetto, Quest'humil fiera, un cuor di tigre, o d'orsa, Non può più la virtù fragile e stanca, Tante varietati ormai soffrire, che 'n un punto arde, agghiaccia, arrossa, e 'mbianca, Fuggendo spera i suoi dolori finire, Come colei, che d'hora in hora manca, Che ben può nulla chi non può morire.
Tre altre fonti adduce il poeta in questa stanza per comparatione della sua varia e pensosa vita, e le due mette che siano in occidente fuori dal nostro Mediterraneo mare, e nell'isole dette Fortunate, le quali fonti, secondo Pomponio Mella in fine della sua opera, sono di questa natura, che chi beve dell'una dice che muor ridendo, e chi avesse bevuto di questa e poi dell'altre, per aver la crudele natura dell'una con la pietosa dell'altra temperata, scampa dal morire. Similmente dice il poeta che Fortuna stampa, cioè dispone la sua vita, perché nel gran piacere che nel veder Madonna Laura piglia, egli ridendo se ne morrebbe se tal piacere non fosse da dolorosi stridi, che dalle passioni sue alcune volta nascono, temperato. L'altra fonte intende per quella della Sorga, ove allora egli era, come nella seguente stanza egli dimostra, la qual fonte è cosa notissima in quel paese ella sempre essere d'acqua abbondantissima e tanto che per se stessa, senza esser d'alcuna altra acqua aiutata, fa fiume, ma nella stagione della Primavera tanto fuori di misura abbonda, e con tal empito getta fuori le sue acque, ch'appresso del gran sasso sotto al quale essa sorge, uomo non si può, se non per lungo spatio accostare. E come cosa miracolosa ancora di luoghi lontani vi concorrono le persone a vederla, la qual cosa dimostra il poeta in una sua epistola, ove dimostra che essendo ancora picciolo fanciullo, vi fu menato dal padre. Et in un'altra che di quel luogo scrive a Iacopo Colonna Vescovo, per dimostrare quanto fosse solitario, dice,
rarus super advenit hospes, Nec nisi rara vocant noti miracela fontis
. Volendo adunque i suoi occhi la matura di questa fonte somigliare, e non giudicandosi, per l'impedimento, come vuole inferire, ch'amore è stato ai suoi studi, autore da potere questa tal fonte per la sua mirabile natura, render famosa e celebrare, come state sono le precedenti dagli autori che veduto abbiamo celebrare. Onde in quella canzon, Se 'l pensier che mi strugge, Però ch'amo mi sforza e di saper mi spoglia, Parlo in rime aspre e di dolcezze ignude, si volta ad esso amore, il qual per questa ragione, quasi dolendosi dice, ch'essendo egli pur ancor da lui guidato, non alla vera fama, la qual è per se stessa manifesta, a chiara, anzi alla occulta e bruna, cioè alla nascosta e oscura ombra di quella che tacerà questa fonte, cioè che per la ragione detta di spora la metterà in tacere, quantunque leggiadramente la descrive. La qual fonte dice, ch'ogni or piena ma con più larga vena si vede essere, Quando il sol s'aduna, quando il sol s'unisce col Tauro, il che vedremmo in quel sonetto, Quando 'l pianeta che distingue l'ore, come seguiva ogni anno nel mese d'aprile. Così dunque per similitudine dice che gli occhi suoi ancora essi d'ogni tempo piangono, ma più nel tempo ch'a principio vide Madonna Laura, che medesimamente, come in più luoghi abbiamo dimostrato, fu di primavera, volendo inferire che la memoria, la qual li viene in tal stagione, come in quella fu a principio preso dell'amor di lei, e per esser così il costume di tutti gli amanti, li rinovella l'amorose piaghe, la qual cosa li da cagione di più largamente e oltre a l'usato lacrimare. Onde ancora in quel sonetto, Quella fenestra, ove l'un sol si vede, e 'l fiero passo ove mi aggiunse amore, E la nuova stagion, che d'anno in anno Mi rinfresca in quel dì l'antiche piaghe, Fanno le luci mie del pianger vaghe.
Parla il poeta in quest'ultima stanza alla canzone dicendo che chi spiasse, cioè chi domandasse che egli fa, ch'ella può dire come egli si sta in Valclusa sotto un gran sasso, del quale esce Sorga. Onde nella precedente stanza ha detto, tacerem questa fonte, né dice esservi chi lo scorga, chi lo veda se non Amore che mai l'abbandona, e l'immagine di Madonna Laura, la qual, per averla sempre nel pensiero lo strugge, che per se stesso egli strugge la conservazione di tutte le altre persone, essendosi, come vuol inferire, ogn'altra cosa che nel pensare a lei in orrore, come questo medesimo in più altri luoghi dell'opera dimostra.
Costume della fenice.
Alberto magno nel libro
De mirabilis mundi
. Uno invece di unito. Ordine del testo.
Catoblefa. Lode del Petrarca.
Q. Curio. Soggiorno, albergo.
Sospirare nel quarto caso.
Isole dette Fortunate. Stampare invece di disporre. Epistola del Petrarca. Quale sia la fonte intesa dal Petrarca.
Valclusa.
In questa canzone il poeta perseguitando nelle sue querele, per diversi esempi dimostra, che non solamente a tutti gli altri uomini, ma che agli animali bruti ancora dopo i travagli del dì, dopo che viene la sera, esser conceduto di potersi almeno la notte posare, dal qual riposo sono delle lor fatiche ristorati, quello che solo a lui per i continui amorosi pensieri, che lo tormentavano era negato. Onde in questa prima stanza adduce l'esempio della vecchierella pellegrina, la qual trovandosi sola in paese lontano, e vedendo 'l sole approssimarsi in Occidente, per riposar, come dice il giono a gente, che di là nell'altro emisfero forse l'aspetta, temendo non esser sopraggiunta dalla notte, radoppia i passi affrettandosi quanto può per esser col giorno a l'aspirato albergo, dove poi la notte posandosi, dimentica la noia e il male, il qual ha nella passata via sofferto. Ma egli dice che pur allor cresce ogni dolor in lui, che 'l dì gli aveva mediante gli amorosi pensieri, addutto e a gente, che di là Forse l'aspetta, dice, per esser stata opinione d'alcuni, che l'altro emisfero nono sia d'alcuna gente abitato, la qual è falsissima, come per l'esperentia manifestamente si vede.
Il secondo esempio che l' poeta adduce per dimostrare che la sua vita sia sopra quella di tutti gli altri uomini pensosa, sì è ora in questa stanza quello dell'avaro zappatore, il qual dice che vedendo il sole giunto in occidente, per dar luogo alla notte, onde, per la qual cosa discende da gli altissimi monti l'ombra maggiore, imitando Virgilio nella prima Ecloga, ove dice,
Maioresque cadunt altis de montibus umbrae
, Riprende l'arme, riprende la zappa, arme al suo esercitio accomodata, onde il medesimo nella prima delle
Georgiche
,
Dicendum est quae sint duris agrestibus arma
. E con parole e con alpestri note, cioè e con parole e con accenti, e canti rustici, sgombra, scaccia e manda fuori del suo petto ogni gravezza, che 'l giorno aveva sofferto, e poi ingombra, e poi empie la mensa di povere vivande, simili a quelle ghiande, che gli uomini della prima età usavano per cibo, le quali usando e fuggendo il civile, e politico vivere, onora e fa parer bello tutto il mondo, imitando Luc. nel primo ove dice,
Foecunda virorum paupertas fugitur titique, accersitur orbe
, ove veramente dice che tutto il mondo onora fuggendo quel rustico, salvatico vivere, perché ogni uomo onora e lauda quella prima età, nondimeno non è chi volesse usar la povertà, come gli uomini di quella età usano, ma dice che i rallegri ad ora ad ora, cioè a tutte l'ore chi vuole, ch'egli per volger di cielo né di pianeta, per li cui moti e corsi sogliono gli influssi variare, non ebbe mai un'ora non che lieta, ma pur solamente riposata.
Il terzo esempio che a suo proposito adduce il poeta in questa stanza è quello del pastore dicendo che quando esso pastore vede calar i raggi del sole in Occidente, ove secondo i poeti esso sole va a albergare, e conseguentemente le contrade d'Oriente imbrunire muove soavemente con l'usata verga, la schiera del suo gregge, lassando tutti quei luoghi, ove 'l giorno essa sua schiera s'era pasciuta, Poi lontan dalla gente fra i boschi ove per rispetto dei pascoli sogliono i pastori abitare, In giunca adorna o casetta o spelonca di verdi frondi, imitando Luca nel ii libro, ove dice,
haud procul inde domus non ullo robore fulta, sed sterili simo, cannaque intexta palustri
, ove adeguatamente sciolto da tutti i pensieri si adagia e dorme. Onde egli d'amor dolendosi dice, Ma tu crudele allora più m'informe, più mi mostri a seguire la voce e i passi e l'orme di Madonna Laura, intesa per la fiera che lo strugge, e non stringi lei, la qual s'appiatta e fugge da me, volendo inferire ch'egli dovrebbe piuttosto stringer lei, la qual si fugge, che lui, il qual è sempre presto a sofferir ogni amoroso tormento e pena.
Adduce il poeta in questa stanza il quarto esempio per lo qual dimostra il suo stato esser oltre a quello di tutti gli altri uomini miserabile, ed è quello dei naviganti, i quali avendo tutto 'l dì col vento e con l'onde combatutto, quando la sera s'asconde il sole si ritira in qualche porto, ove sul duro legno della nave e sotto i loro poveri e aspri e poveri panni gettan le membra pigliando delle fatiche che hanno 'l dì sofferte, qualche ristoro, imitando Virgilio nell'Eneide ove dice
Per dura sedilia nautae
, ma egli dice che quantunque il sole, come vogliono i poeti, s'attuffi la sera in mezo l'occidental Oceano, e lassi dietro alle sue spalle Ispana e Granata, reami d'Europa e Marocco, cioè Mauritania provincia d'Africa, e le colonne, Habile sul lito d'Europa, e Calpe sul lito d'Africa, monti secondo le favole, posti da Ercole, de quali per che cagione posti, in più accomodato luogo diremo, tutti i luoghi occidentali, e gli uomini e le donne, e 'l mondo e gli animali col riposo della notte acquietino i loro mali. Egli però dice che non puon mai fin al suo ostinato amoroso affanno, e che li duole che esso affanno arroga, cioè giunge ogni giorno al danno per lo tempo, che secondo vuole inferire, egli va perdendo dietro al suo fallace e van desiderio. Onde dice che per che io son già questa amorosa voglia crescendo, ben presso al decimo anno, ch'era dal dì che di Madonna Laura s'era innamorato fin quel punto, né posso indovinar chi me ne scioglia, ne posso, per liberarmene, pensare a che rimedio più ricorrere.
Mostra il poeta accorgersi, che parlando disfoga pur un poco il suo dolore. Onde in questa stanza adduce al proposito delle precedenti il quinto esempio, il quale è quello dei buoi, che vede a sera tornare liberi e sciolti dal duro giogo, sotto al quale solcando la terra sono il giorno stati, ad imitatione di Virgilio nella seconda Ecloga ove dice,
Aspice aratra iugo referunt suspensa iuvenci
. Onde domanda per qual cagione quando che sia il tempo e l'ora del riposo, non sono tolti ancora a lui i sui sospiri, e il suo amoroso giogo, e perché sono i suoi occhi dì e notte dalle lagrime molli, chiamandosi misero perché volse al principio del suo amore tenere essi suoi occhi fissi nel bel viso di Madonna Laura, imitando esso Virgilio nel medesimo luogo ove dice,
Heu quid volui misero mihi
? Per scoprirlo, per farsene un'immagine al cuore, del quale dice che sino a tanto ch'egli sia dato alla morte in preda, esso bel viso mai non sarà mosso, cioè che sino a tanto ch'egli muoia, mai non se lo dimenticherà, quantunque per l'opinione che è in quel sonetto, S'io credessi per morte esser scarco, dicendo esser stata di Platone, che non subito che l'anima rationale si divide dal corpo sia libera dalle passioni umane, ancora dopo la morte non sappia bene quello, ch'egli si creda che di lui debba seguire.
In quest'ultima stanza volgendo il poeta alla canzone il suo parlare dice, Canzon, se l'esser meco dal mattino, intendendo di quello nel quale egli l'avea cominciata, alla sera, che l'aveva finita, t'ha fatto di mia schiera, di mia natura, la qual era, come vuol inferire, d'esser solitario. Onde nella seconda stanza di quella canzone, Di pensier in pensier, di monte in monte, Per altri monti, e per selve aspre trovo Qualche riposo, ogni abitato loco è nemico mortal degli occhi miei, E dispregiator d'ogni gloria, come veggiamo in quel sonetto, S'io avessi pensato che sì care, fatto in morte di Madonna Laura, ove dice, E certo ogni mio studio in quel tempo era, Pur disfogare il doloroso cuore In qualche modo, non d'acquistar fama, Tu non vorrai in ciascun luogo mostrarti, E sì poco curerai d'altrui lode, Che assai ti sia, che assai ti devrà bastare, di poggio in poggio, e per questi luoghi solitari, meco venendo pensare, come l'amoroso fuoco Di questa viva pietra, per Madonna Laura, rispetto alla sua durezza verso di lui intesa, e stando ancora nelle pietre il fuoco, ov'io m'appoggio, nel quale io mi confido, m'ha miserabilmente concio.
Più e più, cioè quanto può. Falsa opinione che l'atro emisferio non fosse abitato.
Virgilio nella prima Ecloga. Virgilio nella Georgica. Luc. nel primo.
Ingiuncare. Luc. nel secondo.
Ispana, Granata, Marocco, colonne Arrogare.
Virgilio nella seconda ecloga. Iscolpire. Virgilio.
Seguita il poeta nel presente sonetto pur ancor in dolersi della crudeltà di Madonna Laura la qual mostra non solamente nuocere a lui, ma esser per nuocer ancora agli altri che sopsirano per amore, e a lei, che appresso di questi tali ella è per conseguire odio grandissimo. Onde dice l'arbor gentile, intendendo per alludere al nome di lei, di quella del lauro, che, cioè la qual io, mentre che i suoi rami, mentre che le sue bellezze, non m'ebber a sdegno, non si sdegnarono di me amai forte molti anni, faceva fiorire il mio debile ingegno alla sua ombra, alla sua vista, insegnandosi d'ornatissimamente le sue lodi descrivere, e crescer negli affanni, perché quanto più le sue eccellenti virtù, e bellezze per descriverle considerava, tanto più del suo amore s'accendeva, e conseguentemente più in lui gli amorosi affanni crescevano, poi che di dolce fece sé spietato legno, stando sempre nella metafora del l'arbor gentile, poi che ella di dolce e pia fu fatta spietata e crudele, securo me, assicurato io di tali inganni. E in sentenza tenendomi io securo che tali inganni non potessero da lei venire. Allora, per la sua crudeltà io volsi tutti i pensieri a' parlare de' miei tristi danni, che in amar aveva sofferto, e quasi in questa forma forma soggiunge, che cosa potrà dire adunque, chi sospira per amore, se le mie nuove, se le mie novelle e prime rime, nelle quali d'esso amore mi lodo, gli avesser data altra speranza e per costei, e per quest'altra speranza, essendo essa speranza per una dea figurata, c'ora, le presenti rime leggendo, sì da in contrario la perda. Avenga che altri intendono: e per costei, cioè e per Madonna Laura, perde, la qual sententia a noi per molti rispetti non piace. Risponde adunque che maledicendo potrà dire, che poeta non colga mai delle sue foglie per coronarsene, né Giove, dal quale è privilegiata che 'l folgore non la possa toccare, non la privilegi più. E venga in odio al sole, al quale è dedicata, e che amata fu da lui in corpo umano talmente, che ogni sua verde foglia si secchi.
Rami, bellezze.
Ombra: vista.
Nel presente sonetto il poeta a Madonna Laura il suo parlar drizzando, seguita nel suo dolersi di lei, narrandole in che debile e infelice per amarla si trova, dicendo che Amore lo ha posto come segno a strale, imitando Hieremia nelle
Lettioni
, ove dice,
Posuit me quasi signum ad sagittam
, come neve al sole, come cera al fuoco, come nebbia al vento, e da lei tutto procedere, e quantunque egli sia già roco del tanto chiederle mercede, ch'a lei non cale, cioè che ella non se ne cura, distinguendo come i suoi amorosi pensieri sono le saette, il bel viso di lei il sole, il desiderio il fuoco, e che Amore con queste arme, cioè con le saette lo punge, col sole l'abbaglia, col fuoco lo strugge. E l'angelico canto, e le parole col dolce spirare ch'ella parlando usa di fare, dal quale geli per la troppa dolcezza, non li può aiutare, son l'aura, son il vento, inanzi al quale la sua vita a similitudine della nebbia fugge e vien a mancare.
Hieremia nelle
Lettioni
.
Descrive il poeta nel presente sonetto un dolce leggiadro e non meno grave modo da Madonna Laura alcuna volta tenuto, quando cantare voleva, e quello che in lui aveva forza d'operare, quasi in questa forma dicendo, quando Amore, cioè quando Madonna Laura inchina i begli occhi a terra, e accoglie e tira a sé in un sospiro, come se sospirare volesse, i vaghi spirti e poi li scioglie e manda fuori in chiara, soave, angelica divina voce, sento far con le sue mani, con le sue forze, ch'ella mediante la dolcezza di tal voce, come vuol inferire, usava in lui, dolce rapina del mio cuore, ed in sentenza, ch'egli si sentiva per la troppa dolcezza venire meno. E sì, cioè talmente dentro tutti i mesti pensieri e triste voglie cangiare, che credendosi egli per la troppa voglia morire dice, Hor sieno, ore faranno L'ultime spoglie di me, cioè l'ultima volta che l'anima si spogli del mio corpo, Se il cielo mi destina sì onesta morte. Ma dice che il suono di tal voce, che di dolcezza lega e fa stare i sentimenti intenti ad ascoltare, raffrena, cioè ritiene l'anima presta, cioè pronta al dipartir da lui, col gran desir d'esser beata udendo, cioè col gran desiderio di stare udendo in beatitudine, e così dice che egli sì vive, e Madonna Laura, per lo cui dolce e soave canto, è fra noi sola del cielo non mortal serena, essendo delle sirene il dolce soave cantare, avvolge e spiega, fila e inasta, e in sententia ordina e dispone lo stame, cioè il corso della sua vita, che da lei par che gli è data.
Amor inteso per Madonna Laura.
Fresca, cioè pronta.
Finge il poeta nel presente sonetto un colloquio fra lui e la sua anima, e che egli prima la domandi del suo parere, se mai d'amorose lor passioni avranno pace o tregua, dalla qual anima mostra che gli sia risposto che ella non sa propriamente quello che di loro abbia a essere, ma in quello che ella scerna cioè veda, ch'a gli occhi di Madonna Laura non piace lor male. Onde egli domanda quello che questo giovi a loro, s'ella con essi suoi occhi li fa d'estate un ghiaccio, e quando si fa inverno un fuoco, contrarietà che negli amanti si provano e, molto da lui usate, alla qual domanda l'anima risponde che Madonna Laura non, ma Amore dal quale essi occhi erano governati, onde il poeta domanda quello che questo è a loro, s'ella se o vede e tacendo non li provede. Risponde l'anima che se ben Madonna Laura lo vede, e mostra di non farne stima, che forse dentro nel secreto cuore è altramente che non mostra di fuori. E ultimamente il poeta dice che la mente per questo conforto datole dall'anima, rompendo il duolo che s'accoglie e che stagna, che s'aduna e strigne in lei, come quella che ne resta in dubbio, non però s'acqueta, perché uomo ridotto in miseria, come egli si riputava essere, non crede mai a grande speranza, come quella la quale, che a Madonna Laura dovesse dispiacere lor male, era da essa anima tirato.
Accogliere e stagnare
Avendo il poeta a persuasione della sua anima, come nel precedente sonetto abbiamo veduto, pur un poco di speranza preso, che a Madonna Laura debba il suo mal dispiacere, ora in questa mostra volere sperimentare se così fosse. Onde ai suoi caldi e amorosi sospiri parlando dice, che debbano andare al freddo cuor di lei, e di quello romper il ghiaccio, cioè la fredda voglia, che li contende e niega la pietà, pregando il cielo che morte, o veramente mercede debba essere fine del suo dolore, non potendolo egli, come suole inferire, più tollerare. Poi voltando il parlare agli amorosi suoi pensieri dice, che debbano andar parlando di quello, ove cioè a che il bel guardo di Madonna Laura non s'estende né può penetrare, intendendo delle passioni del cuore. Perciò che se pur che poi ella l'averà intese, l'asprezza di lei, o la rea stella di lui, l'offenderà che non troverà alcuna mercede, che almeno faranno fuori di speranza e fuori di errore, e certi di non potere mai più avere pace, soggiungendo potersi ben dire, che il loco comune sia stato per loro inquieto e fosco, cioè senza riposo e oscuro, sì come quello di lei è pacifico e sereno. Ma non forse a pieno dice che si può dire, per esser il loro stato, come vuol inferire, fuori di misura, inquieto, non di meno, acceso di buona speranza, replica che debbano ormai securamente andare, perché saranno accompagnati d'Amore, cioè dal suo amoroso affetto, e che se a segni del suo Sole, per lo bel viso di lei inteso, conosce l'aere, cioè l'animo e la disposizione di lei, che la ria fortuna può esser, che debba venire meno, e convertirsi in favorevol e buona.
Ghiaccio cioè fredda voglia
Aere preso per l'anima di Madonna Laura
Nel presente sonetto il poeta a Madonna Laura il suo parlare drizzando, parte lauda l'eccellenza di lei, e parte mostra, quanto di quella persino ad ora egli abbia lungamente scritto, onde esclamando la domanda Alma gentile, ornata e calda di virtute ardente, ad imitatione di Virgilio nel VI ove dice
Aut ardens evexit ad aethera virus, Cui tante vergo, della quale tante carte vergo
, O già, o fino ad ora solo albergo di honestate, Torre salda e fondata in alto valore, a dinotar la sua pudicizia insieme con la constantia e fortezza d'animo, O fiamma, o rose sparse in dolce falda di viva neve, queste intende per lo castigato rossore sparso su per la sua candida faccia, In ch'io mi specchio e tergo, nel quale io mi miro e polisco, o piacer onde l'ali al bel viso ergo, O piacer per lo qual conseguir io alzo le ali del desiderio al bel viso, Che, il quale luce sopra quanti ne scalda il sole, soggiungendo: che le sue rime fossero si lunge intese, che egli avrebbe, del nome di lei, per lo lungo scrivere che di quello ha fatto, tutte le quattro parti del mondo pien, le quali quattro parti nomina per alcune isole, fiumi, provincia, citta e monti. E prima per l'isola di Thule, posta tra occidente e settentrione, Batto, provincia detta battriana in India maggiore tra oriente e mezzogiorno, per la Tana, città posta sul Tanai, fiume che mette nella palude Meotide in Sarmatia d'Europa posta a Settentrione, per lo Nilo fiume d'Egitto posto a mezzogiorno, per Atlante, monte in Africa posto a occidente, per Olimpo, monte in Tessaglia parte di Grecia, e per la Calpe, monte, secondo le favole, posto da Ercole in Occidente sul lito d'Europa, ma poi che egli, per lo variar delle lingue, non può esso nome di lei in tutte quattro le parti del mondo portare, che almeno il paese d'Italia, nel cui idioma, egli di quello scrive, l'udirà la quale Italia nomina per circuitione, dimostrando quella esser partita dall'Appennino, circondata dal Tirreno, e dall'Adriatico mare, e di sopra dalle Alpi, che dalla Gallia e la Germania la dividono.
Virgilio nel sesto dell'
Eneide
.
Thule isola. Batto, Tana, Olimpo.
Seguita il poeta nel presente sonetto le lodi della sua eccellente Laura dicendo, che le stelle e il cielo e gli elementi puosero a prova, cioè a concorrentia l'uno dell'altro, ogni loro arte ed estrema cura in compiutamente formarla, talmente, che la natura si specchia in Lei, e così ancora il Sole, perché non trova in alcuna altra parte del mondo una ch'a lui sia pari in bellezza, com'ella era. Onde dice, che nessun guardo mortal s'assecura in lei: perché si come in esso sole per la troppa luce non si può, così negli occhi suoi fuor di misura belli, per la tanta lor dolcezza e grazia non si poteva guardare. E l'aere, percosso da raggio di quelli, dice, che s'infiamma di honestate e diventa tale, cioè di tanta virtù che non volerlo dimostrare, vince non solamente ogni nostro dire, ma d'assai ancora ogni nostro pensiero, E che non è ch'ivi, cioè in quel luogo, ove i raggi de' suoi begli occhi percuotono, vi si senta alcun basso desire, ma solamente d'honore e di virtù, perché la venuta di lei, come vuol inferire, avea forza di così disporre gli animi di coloro che la vedevano. Onde domanda, quando fu mai che per somma beltà fosse spenta vil voglia, come allor, per la beltà di lei, in quelli che la vedevano seguiva, volendo inferire, che non mai o radissime volte era avenuto, perché la bellezza suol quasi sempre gli animi a concupiscentia e non alla virtù piegare.
A prova, a concorrenza.
Mostra il poeta nel presente sonetto un dì aver trovato Madonna Laura che per qual si fosse rea accidente piangeva, usando alcune compassionevoli parole. Onde egli volendo significare la pietà, che a vederla piangere era, e la dolcezza che ad udirla lamentar sentiva, dice che nè Giove a fulminare, né Cesare a ferire fur mai con tanta furia e empito mossi, che la pietà la qual veniva da tal pianto, non avesse le lor ire spente, e l'uno e l'altro scosso, cioè privato dell'arma usata, e che amore il suo signore, volse che egli fosse a vederla piangere di doglia, e i suoi lamenti a udire e di desiderio a colmare. E ricercarmi le midolla e gli ossi, cioè per farmi tal doglia e desiderio sin dentro le viscere sentire. Onde dice che quel dolce pianto Amore gli scolpì, e quei detti soavi che ella nel suo lamentare usava, li scrisse in mezzo al core dentro un diamante, a denotare quanto saldamente la memoria di quelli fosse nel suo cuor rimaso, ove, nel qual cuor dice, ch'ancor con salde e ingegnose chiavi, cioè con fermi e artificiosi pensieri torna spesse volte a trarne fuori, rispetto alla pietà del pianto, lagrime rare, lagrime rade volte con tanto dolore sparse, rispetto al desiderio dei sovra detti del lamento, sospir lunghi e gravi, sospiri grandi e profondi. Onde vedremo, che non solamente ne quattro seguenti sonetti, ma nell'ottava stanza di quella canzone, Nel dolce tempo della prima etade, e nella quinta di quell'altra, In quella parte dove amor mi sprona, egli ne torna ancora a ricordare.
Giove dal fulminare e Cesare dal ferire per la pietà essersi rimossi.
Ove, nel cuore.
Seguita il poeta nel presente sonetto in narrare i costumi, le bellezze, le lagrime, e sospiri che Madonna Laura nel suo pianto, che nel precedente abbiamo veduto, usava, e come per la dolcezza che da quello usciva, ogni altra cosa che egli vedeva, pareva, ch'a rispetto di quelli fossero sogni, ombre e fumi, cose che niente rilevano, e che tanta era la soave armonia, che 'l cielo, l'aere e ogne altra s'eran fermi e quietamente stavano ad ascoltarla, quasi in questa forma dicendo, Io vidi in terra costumi angelici, e bellezze celesti sole al mondo, talmente che di rimembrar, cioè che di ricordar della dolcezza, che di tal vista usciva, mi giova, e per lo dolore del suo amaro pianto, come vuol inferir, mi duole, che, per la qual cosa, quanto oltre a tali angelici costumi e celesti bellezze, io miro, par che a rispetti di quelli, siano ombre, sogni e fumi, cioè cose come abbiam detto, di nessun momento. Il resto è per se stesso, ben che tutto ancora assai facile e chiaro.
1. Giovare, val quanto dilettare.
Sogliono tutti coloro che veramente amano, quando della cosa amata vedono qualche notabile e dolce effetto, in quel medesimo atto mandarselo per sì fatto modo alla memoria, che sempre poi per la dolcezza che ne pigliano tornando col pensiero a quello, come ora nel presente sonetto veggiamo che il poeta mostra avvenir a lui, il quale avendo il dolce e amaro lamento e pianto di Madonna Laura che nei due precedenti detto abbiamo, con l'atto adorno d'ogne gentilezza e pietà e distintamente ogne parte delle sue bellezze notato dice, che Quel sempre acerbo e onorato giorno, ch 'n tal atto la vide ad imitatione di Virgilio nel v. ove dice,
Iamque dies (ni fallor) adest, quem sempre acerbum sempre honoratum (sic dii voluistis) habebo
, Mandò, cioè affisse, scolpì sì e talmente al cuor di lui la viva immagine d'esso cuore, la quale intende che fosse Madonna Laura nel medesimo atto, che pianger l'aveva veduta e udita lamentare, che non sarà ingegno o stile tanto alto, che mai lo possa descrivere, quel ch'ancora egli vuole inferire che non sa ne può fare. Ma che torna spesse volte da lei nel suo dolce piangere e lamentar tenuti. Hebeno è legno negrissimo, per le perle intendi i suoi candidi denti, per le vermiglie rose, i purpurei labbri.
Vergilio nel v.
Hebeno.
Il presente sonetto è il quarto fatto dal poeta sopra 'l pianto e il lamento di Madonna Laura, nel qual mostra non poterselo dimenticare, perché in ogni luogo che egli fermava, o volgeva gli occhi, per quetar la vaghezza, ch'a veder Madonna Laura gli spingeva, dice che trova chi in quel luogo dipingeva Bella donna, intendendo d'amore, il quale ovunque egli mirava, gliela rappresentava per immaginatione gliela rappresentava in quella propria forma che egli l'aveva veduta piangere, per fare i desideri suoi sempre verdi, cioè per fare che il desiderio in lui di rivederla, non mancasse mai, affermando quello che di sopra disse, io vidi in terra angelici costumi e celesti bellezze al mondo sole, perché quando disse questo, dice, che Amore e la verità furono con lui, volendo significare, che il suo amoroso affetto glielo fece dire, quello che disse fu cosa verissima.
Di sopra in quel sonetto, Non fur mai Giove e Cesare sì mossi, il poeta ha dimostrato come Amore, per colmarlo di doglia e di desiderio, aveva voluto che egli fosse a veder Madonna Laura piangere e udirla lamentare. Ora a lei in questo il suo parlar drizzando mostra come egli da tal desiderio è combattuto dicendo che Amore, per l'alto signore inteso, gli aveva con un amoroso e ardente strale acceso la mente di bel piacere, il quale intende per quello che egli aveva preso in udirla dolcemente lamentare, e che quantunque il colpo di questo strale fosse per se stesso aspro e mortale, per che, sì come vuol inferire, a poco a poco del desiderio d'esso si consumava ardendo, non di meno dice che esso amore, per avanzar sua impresa, cioè per più innanzi nella sua impresa di farlo morire procedere, ch'egli ha preso una saetta di pietade, la quale intende per quella che egli di lei nel vederla piangere avea e che con essa saetta li punge e assale or quindi or quinci, ora in un uno or in un altro luogo, il cuore, soggiungendo che la prima piaga arde e versa fuoco e fiamma, per lo desiderio grande che egli ha del piacere d'udirla, come abbiam detto, dolcemente lamentare, e che l'altra versa lacrime, che distilla e manda fuori per gli occhi il dolore che egli ha del rio e misero stato di lei, per lo cui pianto è da lui conosciuto. Onde ancora nel medesimo sonetto, Quel dolce pianto mi dipinse amore, Anzi scolpio, e quei detti soavi Mi scrisse entro un diamante, in mezo 'l core, Ove con salde e ingenose chiavi Ancor torna sovente a trarne fuori Lagrime rare e sospiri lunghi e gravi. Ma che per versar di lagrime, ch'e suoi due occhi, per li duo fonti intesi, facciano, che non talenta né scema però una sola favilla de l'incendio che l'infiamma, Anzi per la pietà del pianto, cresce ardente il desiderio del piacere.
L'alto signore, cioè amore.
Saetta di pietade.
Occhi intesi per i due fonti.
Torna il poeta nel presente sonetto alle lodi delle virtù e bellezze di Madonna Laura, onde, come di quelle meravigliato, domanda In qual parte del cielo, in qual idea naturale tolse l'esempio del bello e leggiadro viso di lei, nel qual volse mostrare a noi quaggiù di quanta eccellentia fossero le sue opere di lassù. E dice In qual parte del cielo, rispetto all'opinione di quei filosofi i quali, come vedemmo in quella canzone, A qualunque animal alberga in terra, vogliono che Iddio creasse a principio tutte le anime di pari numero alle stelle, e di quelle in diverse parti del cielo una ne comodasse, et in qual idea, rispetto all'opinione di Platone, la qual fu che l'immagini delle cose fossero tutte a principio nella mente divina create, perché idea è quella immagine della cosa, che nella nostra mente si forma prima che la facciamo, come per figura Leonardo da Vinci vuol fare l'immagine di Maria Vergine, ma prima che metta mano a l'opera nella mente ha stabilito di che grandezza, in che atto e abito e di che lineamenti vuol che essa sia. Questa tal immagine è adunque quello, che Idea è da Greci chiamata. Qual nimpha in fonti, questo nome di nimpha e generale ma secondo che i poeti fingono che diversi luoghi siano da loro abitati, diversamente ancor da quelli le nomano. Onde quelle, le quali vogliano che abitino i monti, chiamano Orcadi, quelle de fonti Napee, quelle degli alberi Amadriade, quelli de correnti fiumi Naiade, quelle delle selve Driade. In selve mai qual dea, rispetto a Diana, la qual è dea delle selve, ben che la somma, ben che la moltitudine tutta insieme di tante virtù e bellezze è ministra di mia morte, perché reo della morte di colui che muore è detto colui che l'uccide, come egli vuol inferire, che dalla somma di tante e sì eccellenti virtù e bellezze di Madonna Laura ucciso era, com'ancor in quel sonetto, Questo nostro caduco e fragil bene, Ch'è venuto e ombra, e ha nome beltade, Non fu giammai se non in questa etate, tutto in un corpo, e ciò fu per mie pene, per che sì come in altro luogo abbiamo detto, quanto la cosa amata è che non si può conseguire, è di più valore, tanto a l'amante, per lo desiderio che ha di quella da maggior passione. Il resto è per se stesso assai facile e chiaro.
Openion di certi filosofi intorno al crear de l'anime.
Ninfa nome generale.
Fu il presente sonetto fatto dal poeta l'anno del Signore MCCCXXXVIII ch'era della sua età xxxiiii, e del suo amore, come mostra, xi, e nel giorno del Venerdì Santo, nel qual simil giorno s'era a principio di Madonna Laura innamorato, ove mostra dei suoi passati erori essersi reso in colpa, come in tai giorni santi ha in costume ogni buon cristiano di fare, pregando Iddio che mediante la sua illuminante gratia, per aver detto dopo le notti, lo volga a migliore e più lodevol vita di quella che persino allora sotto il giogo di amore avea tenuta, riducere, acciocché esso amore suo duro avversario, avendo indarno teso le reti per farlo nel suo vitioso abito cadere, ultimamente di lui si resti scornato, domandando mercede per suo non degno e vano amoroso affanno, e che debba riducere i suoi vaghi pensieri a migliore e più riposato fine, con ricordare a quelli, come in quel dì egli era stato posto, e crudelmente morto in croce.
Quando il Petrarca fece questo sonetto.
Essendo il poeta nei giorni santi, e delle colpe sue dolente, come nel precedente sonetto abbiamo veduto, ora in questa moralissima canzone fa, per alcune similitudini, un discorso della passata vita, dimostrandosi desideroso di poterla emendare. Onde in questa prima stanza dice, che quello il quale è fermato, ha determinato di menar la vita sua su per le fallaci onde, e per gli scogli, scevro da morte, cioè separato e diviso dalle onde, con un picciolo e breve legno, non può molto lontano esser dal reo fine, luogo tratto da Giovenale nella xii Satira, ove dannando la temerarietà dei naviganti, dice,
Nunc e ventis anima comite, dolato confisus ligno digitisque a morte remotus Quatuor, aut septem, si fit altissima taeda
. E questo in quanto alla lettera, ma noi moralmente per la morte intenderemo il vitioso abito il quale è la morte dell'anima, e per lo picciol legno il fragil corpo umano, mediante il quale l'animo, avvenga che in atto sia morto, è non dimeno diviso e separato dalla morte eterna, perché mentre l'uomo, il quale è compostio di anima e di corpo, è ancor col corpo unito, è in sua facoltà di poter emendare e recuperare la vita. Ma per essere il corpo piccolo, cioè debile e frale è disposto di menar sua vita Su per le onde fallaci, dietro alle fallaci e vane speranze umane, e per li scogli, per li impedimenti di diversi vitii che li impediscono il vero cammino che mena alla salvatione, non può molto lontano essere dal reo fine. Però dice che mentre la vela crede ancora al governo, mentre che la mente crede ancora alla ragione, come vuol inferire che pur ancora la sua faceva, Sarebbe da ritrarsi in porto, sarebbe da ritrarsi in abito nel quale si potesse sperare salute, onde ancor nella seconda stanza di quella Canzone, Io vo pensando e nel penser m'assale, a questo la sua mente effortando dice, Mentre che il corpo è vivo, Hai tu il freno in balia dei pensier tuoi, Deh stringilo or che puoi, Che dubbioso è il tardar come tu fai, E 'l cominciar non sia per tempo ormai.
Fermar per determinare.
Onde fallaci.
Seguitando il poeta nella presente stanza il proposito della precedente, e nelle medesime similitudini dice, che l'Aura soave, alludendo al nome di Madonna Laura, cui, alla quale entrando egli a l'amorosa vita, commise, cioè diede in arbitrio ragione e mente, e sperando venir a miglior fine di quello, al quale ella avea indirizzato. Poi, la condusse in più di mille impedimenti, i quali erano infiniti vani amorosi pensieri, che da lei ogni giorno gli erano nell'animo generati, et avea le cagioni d'esso suo doglioso e reo fine non pur solamente d'intorno a sé, ma ancor di dentro, intendendo per le cagioni che avea d'intorno il suo vedere e udirle, per le cagioni che avea dentro, i pensieri, che mediante questi due sentimenti, gli erano nel cuor generati. Onde ancora dopo la morte di lei in quel sonetto, Datemi pace o duri miei pensieri, non basta ben che amore fortuna e morte Mi fanno guerra d'intorno e 'n su le porte, Senza trovarmi dentro altri guerrieri?
Commettere.
Ha il poeta nella precedente stanza dimostrato, come entrando egli a l'amorosa vita, s'era del tutto a Madonna Laura dato, E come fu da lei fra gli scogli condotto. Ora in questa al proposito seguitando dice, che gran tempo, chiuso nel suo carcere del corpo, andò errando senza mai l'occhio dell'intelletto levare alla vela, cioè alla mente, che tale amorosa vita seguitando, lo trasportava anzi il suo destinato dì al fine della vita, e questo per l'amorose passioni che lo consumavano, ma che poi piacque a dio, mediante la sua illuminante grazia, come nel seuguente madrigale vedremo, ritrarlo tanto indietro dagli impedimenti, che almeno da lunge gli apparisse il porto di salute.
Grazia illuminante.
Nella precedente stanza il poeta ha dimostrato come egli era stato da Dio tanto illuminato, che di lontano aveva pur veduto il luogo di salute. Ora in questa tal proposito seguitando, mostra per similitudine della nave, che di notte vede, d'alto mare alcun lume nel porto, dove aspira voler essere, il modo nel quale egli vide in questa forma dicendo, Come nave né, cioè o, legno, come ancora in quel sonetto Mie venture al venire son tarde e pigre, ove dice, prima ch'i trovi in ciò né pace né tregua, Vide mai, vide alcuna volta di notte d'alto mare lume in alcun porto, se tempesta o scogli Non gliele tolse, non li fece impedimento al poterli vedere, Dando alla nave e al legno, quello che è di coloro, da quali esse navi e legni sono governati, così di su dalla gonfiata vela, così con la mente di ignorantia piena Vid'io le insegne di quell'altra vita, conobbi io le scorte ch'a quell'altra vita conducono, le quali intende per le vestigi di coloro che tal vita possedono, et alhor sopirai verso il mio fine, e allora desiderai, seguitando tali insegne, finire. Videla a similitudine che d'alto mare si vede il lume di notte nel porto, e di su la gonfiata vela, a denotare, che con la nostra mente velata d'ignorantia, e ripiena d'errore, difficilmente possiamo discernere i mezzi, mediant ei quali alla felice vita si perviene.
Né invece di no.
Vela gonfiata.
Non basta conoscere il bene, come nella precedente stanza dimostra aver fatto il poeta, che sono di bisogno le buone opere a chi lo vuole conseguire, delle quali ora in questa egli par che si diffidi dicendo, che non per aver egli conosciuta e veduta la via che sia da tener per arrivare al buon fine, è di quello sicuro, perché volendo egli col giorno, cioè col vero lume dell'intelletto per la via delle virtù esservi, è gran viaggio in così poca vita, quanto solamente dalla natura ne viene a esser dato, overamente intende di quella, che li restava. Onde ancora in quel sonetto, La guancia che fu già piangendo stanca, Perché la lunga via tempo ne manca, e tanto maggiormente per trovarsi come dice, in fragil corpo e avere, più che non vorrebbe, piena la mente Del vento, cioè dell'errore che lo pinse in quelli impedimenti, da quali essa mente viene in tal viaggio ad esser impedita.
Giorno preso per lume.
Dimostra il poeta nella presente stanza il contrasto che fa la ragione con l'appetito in lui, e come da quella è spronato a dever lassar le vanità, e da questa contra sua voglia esservi ritenuto, usando in simil modo di parlare, come quello che vedremo nel capitolo di quella sua lettera familiare da noi nella esposizione della terza stanza di quella canzone, Ma io non vo più cantare come io soleva, a certo nostro proposito recitato, ove dice, io dico il vero se Dio al buon fine mi conduca, e dicesi quando con efficacia vogliamo affermare la cosa, ch'abbiamo già detta esser vera, e per le medesime parole diremo ancora, Se Dio mi conduca a buon fine, che io dica il vero, onde ancora il poeta in questo luogo, S'io esca vivo de dubbiosi scogli Ch'i sarei vago di voltare la vela, et aggiungendo le due copule dice S'io, esca vivo de dubbiosi scogli, Et arrivi il mio esilio ad un bel fine, Ch'i sarei vago di voltar la vela, E l'ancore gittar in qualche porto. Intendendo essere in esilio, essendo egli, come forse si dubitava, privato della grazia, così come intendiamo privato esser l'uomo quando è privato della patria. Mostra adunque che egli sarebbe desideroso di voltar la mente a più felice vita, E gittar l'ancore in qualche porto, e por le sue speranze in qualche riposato fine, Se non ch'i ardo, se non che io mi consumo come acceso legno pur a pensare, come vuole inferire, di dover ritrarmi da l'usata vita dietro alle terrene dolcezze tenuta, Sì m'è duro, tanto m'è difficile a poterla lassare.
S'io, così.
Ch'i farei, come io farei.
Leggi il Bembo nelle sue prose.
Nella presente ultima stanza il poeta al sommo Iddio e della sua fine e vita signore il suo parlar drizzando, prega prima che egli fiacchi il suo fragile corpo tra gli impedimenti, cioè prima che egli del tutto caggia nel suo vitioso abito, che voglia drizzar la mente affannata, e stanca nelle passioni, e perturbationi umane a buon e felice fine.
Fermar, per determinar; Onde fallaci.
Commettere.
Grazia illuminante.
Ne invece di o; vela gonfiata.
Giorno preso per lume.
S'io, cioè così; ch'i farei, come farei; Leggi il verbo nelle sue prose.
Abbiamo veduto di sopra quanto il poeta ha mostrato desiderar di potersi dalla vita lasciva ritrarre. Onde ora in questa morale stanza, mostra qual fosse la cagione che egli prima a tal vita si diede, e come lungo tempo avendo in quella perseverato, che ultimamente riconosciuto l'errore suo se ne era ritratto, quasi in questa forma dicendo, Perché una pellegrina e bella, Che, de la quale ogni altra mi parea men degna d'onore, portava al viso insegna d'amore, mostrava ne l'aspetto d'essere amorevole, Mosse il mio cor vano, Intendi a doverla amare, E lei seguendo su per l'erbe verdi, e lei seguendo per le voglie di speranza accese, Udì dir alta voce di lontano, Ai quanti passi per la selva perdi, ove abbiamo da notare che la voce, la quale egli dice di lontano avere udito, essere stata da lui intesa come la prima di quelle tre gratie, che secondo i teologi alcune volte ne son concedute da dio, la qual ne richiama da la vita voluttuosa, e indirizza nella volontà a volere il bene, e è detta brevemente. La seconda è quella che poi la buona volontà per la sua via, e mostrale quanto ella abbia da fare, ed e è detta illuminante, per la qual cosa dice sant'Agostino che la prima gratia fa che noi vogliamo, la seconda che noi possiamo. La terza è quella che adempie tutta la voglia nostra, perché ci fa conoscere Dio sommo bene, e è detta perficiente, overo consumante. Udì dunque il poeta alla prima gratia dire, Ai quanti passi per la selva perdi, Ai misero quanto tempo vanamente consumi per diversi e vari errori, perché l'uomo secondo che ancora Dante afferma nel suo
Convivio
, entra nella selva erronea della sua vita nell'età dell'adolescenza, e questa è la selva oscura, ne la quale al principio della prima cantica della sua commedia disse essersi ritrovato nel mezzo del cammin di nostra vita. O di lontano, a denotare quanto rimota sia la gratia della colpa sino a tanto che l'uomo se ne venga a riconoscere, come mostra aver fatto il poeta, perché ammonito dalla preveniente gratia di quanti passi egli per la selva perdeva, disse, Alhor mi strinsi all'ombra di un bel faggio, cioè allora mi ricoverai all'ombra di una bella e dolce solitudine tutto pensoso, perchè il faggio nasce nei luoghi campestri, e solitari, e chi vuol bene esaminare la coscientia e pensare i casi suoi, è di bisogno che si elegga luogo remoto, e solitario, la qual cosa avendo egli fatto, e rimirando intorno, cioè guardando da quante dannose cagioni io era circondato, e oppresso, Vidi assai piglioso il mio viaggio, cioè il mio passar per la presente vita, perché quando fosse nel reo abito, nel qual consiste la morte dell'animo, incorso, difficil e quasi impossibil cosa sarebbe stato a potersene ritrarre, onde dice, e tornai indietro, cioè rimossi volontà dalla vita lasciva, e indirizzai alla ragionevole e buona, Quasi a mezo 'l giorno, quasi a mezo la mia età. E la età de l'huomo da diversi, diversamente terminata, nondimeno i più, e specialmente Aristotile, seguitando l'opinione di alcuni poeti, s'accordano a LXX anni. Era dunque il poeta, avendone XXXIV, come nel precedente sonetto abbiamo veduto, quasi a mezo la sua età non avendo che a fornire uno più anno per giungere a XXXV che sono la metà di LXX. Né è inconveniente che egli metta in tal età l'aver ritirato l'animo da sensi, perché quasi tutti gli uomini sino a quell'età per lo ribollimento del natural calore, hanno l'animo sommerso nei diletti, e piacer terreni, ma giunti a l'età virile, nella quale il sangue si viene un poco a intiepidire, allora cominciano a svegliarsi e a conoscer a che effetto essi sono stati creati, pigliando la via che mena al porto di salute, se già non si lassano vincere tanto dalla sensualità, che tornino indietro nell'oscurità della selva, dalla quale miseria prega David il Signore che lo guardi dicendo,
Domine ne revoces me in dimidio dierum meorum
.
Gratie concedute da Dio.
Selva oscura in dante per che è intesa.
A mezo 'l giorno: cioè a mezo la vita.
David.
Nella precedente stanza abbiamo veduto il poeta essersi, secondo lui, dall'amor di Madonna Laura e dalla vita lasciva liberato. Ora in questo sonetto, poiché di tale amore s'era tornato un poco a risentire, mostra, che fino a tanto che egli divenga canuto e vecchio, non avere speranza di potere essere securo ove amore tira e empie, scocca e carca l'arco, ove in sententia di Madonna Laura sia, ch'affisi in lui e raccolga a sé li suoi amorosi sguardi, ma che non teme però che esso amore debba più avere quella forza in lui, che prima avea. Onde dice che le lagrime non possono dai suoi occhi più oggimai uscire, come prima per l'amorose passioni facevano. Né possono seguir gli altri effetti da lui narrati, che prima per la detta cagione seguivano. Scempie, strati, incischi, inticchi, e non molto oltre la ferita pasi, significa.
Scempiare
Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato, che dall'amore di Madonna Laura del qual di sopra pareva si fosse liberato, essersi tornato a risentire, ma che non temeva però che in lui dovesse più aver la forza, che prima avea. Ora in questo temendo forse che per averla un tempo mal sollecitata, ella non intendesse che egli si fosse del tutto tolto via di volerla più amare, e che per questo voltasse l'animo ad altro segno, mostra volerla da tal opinione rimuovere, e nondimeno farle intendere, che in suo arbitrio era d'amarla e lassa stare.
Onde a lei il suo parlare drizzando dice, che egli non fu mai lasso d'amarla, ma sì ben giunto a riva, cioè al fine di se stesso odiare, e stanco del continuo lacrimare ch'egli prima per l'amorose passioni faceva, e che vuole innanzi un bello e bianco sepolcro, un sepolcro di sopra del quale non sia alcuna cosa scritta, che il nome di lei, a danno di lui narrando come sia morto per troppo amarla, si scriva in alcun marmo sotto al quale dice, Sia la mia carne, sia il mio corpo privato dello spirito, la qual carne può ancora, con esso spirito stare e dare ad intendere, che egli non era tanto da l'amorose passioni oppresso ch'ancora non potesse vivere. Onde dice che se uno cuore, d'amorosa fede pieno, la può contentare, che senza farne strazio, le piaccia omai avere merce del suo, il qual vuol inferire che di fede abbonda, e che in altro modo il suo sdegno cerca d'essere satio, cioè ch'ella cerchi della morte di lui saziarsi, che in questo caso esso suo sdegno erra, e quello non sarà che egli si crede, volendo inferire, che non temendo egli più tanto esso suo sdegno come soleva fare, che non aveva forza di farlo, come si crede, morire, quello che forse per altri tempi avrebbe potuto fare, come chiaramente dimostra in quel sonetto Geri, quando talhor meco s'adira, ove dice, Ovunque ella sdegnando gli occhi gira, che di luce privar mia vita spera etc. di che dice ringratiarne amore per averli come vuole inferire, dato tanto di potere, e se stesso per essere stato degno di averlo.
A riva.
Sepolcro bello e bianco.
Nella precedente stanza il poeta ha mostrato come, ammonito dalla preveniente gratia, egli s'era da l'amorosa impresa liberato. E se ne due precedenti sonetti, che de l'amor di Madonna Laura se ne era tornato pur alquanto a risentire. Ora in questo madrigale mostra il processo che aveva fatto in lui. E com'era tornato al giuoco di prima dicendo, che quel suo amoroso gioco che egli credeva che dal tempo, che ogni cosa tra noi consuma e dalla sua men fresca età fosse spento, perché essendo venuto negli anni maturi non si credeva che dovesse più aver quella forza in lui, che prima aveva. Li rinfresca, li rinnova nell'anima fiamma e martire, onde s'accorge che le faville di tal fuoco, ben ch'egli si fosse tolto dall'impresa, non s'erano però del tutto spente, ma solamente un poco ricoperte. Per la qual cosa mostra dubitare, che questo suo secondo errore, d'essersi tornato ad invescare, non sia peggio del primo, a similitudine dell'infermo, che ricade nel male. Oltre a questo dice, che il dolore che egli ha nel cuore, per le fiamme amorose che lo tormentano, convenire che li distille e mandi fuor per via delle lagrime.
Che a mille a mille, senza numero, egli getta per gli occhi, e non pur solamente quel che era prima che si levasse dall'impresa, ma quello che egli pativa allora, il qual a lui par che cresca, cioè par che sia maggiore e più vehemente che il primo, e ultimamente che la gran copia delle lagrime, che i suoi occhi continuamente versano, dovrebbe avere spento non solamente il suo ma ogni maggior fuoco, ma che amore, per fare ch'egli tra due contrari, cioè tra l'acque delle lagrime e l'amoroso fuoco si distempre, consumi, e strugga, non lo lassa spegnere. E che li tende lacci intorno al cuore, che sono di lei le singolari bellezze di qualità e forte che quando egli ha più speranza, come di sopra ha mostrato avere, di poterlo sviluppare, ch'alor più nel bel viso di lei lo rinvesca e nutrica.
Età fresca.
A mille a mille, ciè senza numero.
Era il poeta stato qualche giorno che non avea veduto Madonna Laura avendo tentato di ritrarsi dal suo amore, il che abbiamo di sopra veduto. Ma come quello, la vita del quale dalla vista di lei dipendeva, ora in questo sonetto mostra, che per non morire, essere stato costretto a tornarla a vedere, onde a lei il suo parlar drizzando dice, ch'egli si sentiva già mancar gli spirti, che, i quali, ricevevano vita da lei. E perché naturalmente ogni terreno animale s'aita, contra la morte, ch'egli per non morire, largò e diede alquanto di libertate al suo non ragionevole desiderio figurato, come vedemmo in quel sonetto, Sì traviato è'l folle mio disio, per lo nero cavallo onde dice che egli allora lo teneva molto a freno, e miselo per la via della voluptà, quasi e non in tutto per non avere ancora fatto abito della temperantia, smarrita da lui, perciò che di e notte esso desiderio Indi cioè a procedere per quella tal via della virtù.
Ma perché meglio si intenda e perché in altri luoghi potrà servire, ci ricorderemo che noi dichiamo, esser una virtù detta temperantia nella quale chi ha fatto abito in forma si contiene, e astiene da ogni piacere e vitiosa voluptà che niuna difficoltà l'impedisce, nè gli è noia l'astenersi. E così chi ha fatto l'abito nel vizio dell'intemperatia, senza alcuno impedimento di vergogna o rimorso di coscientia, si dà tutto alla vita lasciva e voluttuosa, e per questo dichiariamo che quella è vera virtù e questo è vero vizio.
Ma prima che l'uomo contragga tali abiti abbiamo due disposizioni che tirano l'uomo nell'abito, delle quali l'una ci guida alla virtù ed è nominata continentia, perché il continente vuole astenersi dalla vita lasciva, ma non si contiene senza fatica perché non ha fatto ancora abito nella temperanza, ma continuando in quella continentia per lunga operatione fa abito, e poi senza più difficoltà si contiene e non è più continente ma temperato. L'altra lo guida al vitio perché l'incontinente ancora egli non vorrebbe cadere nel vitio, e combatte con la libidine come faceva il continente, ma non la vince, come lui, anzi si lascia vincere, e dopo molte volte più non combatte ma volentieri seguita la libidine e diventa l'intemperato. Essendosi dunque il poeta per un certo tempo contra il desiderio suo d'andare a vedere Madonna Laura astenuto, era in quello stato della continentia nondimeno conoscendo egli che la vita sua dalla vita di lei dipendeva, per non volere morire, largò il freno al desiderio, e miselo per la via della intemperanza, quasi per lunga operatione fatta nella continentia, smarrita da lui alla qual via seguitare, dì e notte era da esso desiderio invitato. Ma egli, come continente, lo menava contro sua voglia per la via della temperanza, la quale era di perseverare in essa continenza. Pur allora avendo egli per la ragione detta, allargato al desiderio il freno, e misolo per la via della intemperanza, dice che fu da lui ricondotto a vedere gli occhi di Madonna Laura, da quali per non esser lor grave, onde tardo e vergognoso, dice che v'era stato condotto, assai si guarda. Della qual vista dice che ora egli un tempo si viverà, di tanta soave dolcezza e virtù mostra che sia un solo sguardo di quelli, e finito quel tempo, se non crederà ad esso suo desiderio di tornarli a rivedere, che per mancar di tal nutrimento egli si morirà.
Largare.
Temperantia qual virtù sia.
Continenza, Incontinenza.
Non potendo il poeta fare di non andare a vedere Madonna Laura, come abbiamo nel precedente sonetto veduto: hora in questo per non avere saputo rimediare a principi mostra di sperarsi di mai più non potersi dal suo amore liberare. Onde di se stesso dolendosi dice, essere stato male accorto dal principio, che Amore lo venne a ferire, perché a passo a passo, cioè a poco a poco s'è poi fatto signore della sua vita talmente, che di quella se ne tiene il primo luogo, ma l'errore mostra essere stato male accorto dal principio, ch'Amore lo venne a ferire, perché a passo a passo, cioè a poco a poco s'è poi fatto signore della sua vita talmente, che di quella se ne tiene il primo luogo. Ma l'errore mostra essere stati che egli non si credeva che esso amore avesse tanto potere, che dovesse nel suo indurato core far mancare l'usata fermezza e valore, col quale egli era usato di resisterli, sempre esser credendo a tempo di poterlo fare, a darne ad intendere che dibbiamo rimediare ai principi, perché quando siamo incorsi nell'abito, difficil cosa è poi potercene ritrarre.
Onde Ovidio,
Principiis obsta fero medicina paratur. Quum mala per longas convalere moras e in altro luogo, Vidi ego quod fuerat primo sanabile vulnus, dilatumlongae damna tulisse morae
. Onde dice esser da quell'ora innanzi tarda ogni altra difesa, che di vedere sé potesse far ch'amor si movesse a pietà di lui, il qual non prega già che il suo cuor arda misuratamente, e mesto di quello che fa, per non esservi, come vuole inferire, alcun rimedio e perché meno non vorrebbe ardere.
Ma prega che ella abbia la sua parte di fuoco, a cio chè egli non arda solo, ad imitatione di Ovidio nel quarto libro del Met. ove dice,
Nec mediare mihi sanesque haec vulnera mando fineque nihil opus est partem ferat illa calori
, non essendo cosa che più tormenti i miseri amanti, che quella quando s'accorgono che le loro amate non ben in amore corrispondono, onde egli medesimo nel primo libro delle sue familiari epistole Amante non amato
nihil reor esse miserius
.
A passo a passo, cioè a poco a poco.
Ovidio
Ovidio. Petrarca nelle sue epistole
Il presente sonetto ha dependenza dal precedente, senza al quale egli viene a restare imperfetto, la qual cosa come si comprende fu dal poeta studiosamente fatta. Ha in fine di quello adunque dimostrato, che il desiderio suo non è né può in alcun modo essere, che il suo cuore possa misuratamente ardere, ma desidera che Madonna Laura ancora lei abbia la sua parte del fuoco. Onde ancora in questo narra tutti gli effetti che ne seguirebbono, quando così seguisse, e che altamente non potevano seguire, come ancora quasi in tutta la prima stanza di quella canzone a tal proposito parlando, Se il pensier che mi strugge com'è pungente e saldo, così vestisse d'un color conforme, forse tal m'arde e fugge, C'hauria parte del caldo, Quando adunque, Madonna Laura intesa per questa tale, avesse la sua parte del caldo, seguita in dire quello che ne seguirebbe, cioè che amore si desterebbe in lei, che le sue orme sarebbono men solitarie, e i suoi occhi men molli, ardendo lei, che come un ghiaccio stassi, così in questo luogo se Madonna Laura avesse la sua parte del fuoco dice, che egli canterebbe sì nuovamente d'amore, che trarrebbe per forza dal duro fianco di lei infiniti sospiri il dì e raccenderebbe nella sua allora gelata mente, altrettanti alti desideri e vedrebbe sovente, come fa chi arde per amore, il suo bel viso cangiare e i suoi occhi bagnare e far con quelli più pietosi giri, come suol fare chi si pente segli altrui martiri e del proprio errore quando non vale il pentire, volendo inferire che quando Madonna Laura avesse a sua parte del fuoco, ella si pentirebbe dell'errore che conoscerebbe aver fatto a non rimediare i martiri che egli aveva sino ad allora patito in amarla, quantunque tal suo pentire non valesse a far che egli non gli avesse patiti, seguitando negli effetti che in tal caso seguirebbono, e le verniglie rose fra la neve intendendo, per li simil labri sul candido volto di lei, Muover dall'ora, muover dal fiato, che spirando o parlando da quelli usciva, per l'avorio, i suoi bianchissimi denti, Fa di marmo chi dal presso 'l guarda, per quel timore che da grande ammiratione alcuna volta suol venire, come mostra in quel sonetto, Non pur quell'una bell'ignuda mano, ove dice, Gli occhi sereni e le tranquille ciglia, la bella bocca angelica di perle, Piena e di rose e di dolci parole, che fanno altrui tremar di meraviglia, Tutto quel, perch'ei non rincresce in questo viver breve a se stesso, intende per l'altri eccellenti parti di lei, oltre a quelle che ha nominato, per le quali poter gioire, si gloria d'essere serbato a vivere, Alla stagion più tarda, alla più tarda e ultima età, Intendendo di questa festa e ultima età el mondo, per esservi nata Madonna Laura onde in quella canzone, Perché la vita è breve, felice alma che per voi sospira, Lumi del cielo per i quali io ringrazio la vita, che per altro non m'è aggrado, et in quel sonetto, Anima, che diverse cose tante, ad essa anima ed al senso del vedere e dell'udire parlando dice, per quanto non vorreste o poscia, o ad ante esser giunti al cammin che sì mal tiensi, Per non vedervi i due bei lumi accensi, Ne l'orme impresse de l'amata pianta? Delle quali età diremo nella prima stanza di quella canzone, Anzi tre di creata era alma in parte.
Il presente sonetto dipende dal precedente.
Ora, qui fiato.
Le querele che 'l nostro poeta ha fatto del suo infelice amoroso stato, l'habbiamo di sopra vedute, le quali seguivano, per parerli Madonna Laura né di lui né dei suoi tormenti curasse, ma non seguiva così perché egli era da lei di casto e buono amore, come egli ancora amava lei, cordialissimamente amato. Ma ella per non dar da sospettar al luogo, e acciò che egli di lei tanto non s'accendesse che ne divenisse insano, andava molto nell'amor ritenuta, fingendo spesse volte la contraria dispositione del cuore. E quando lo vedeva quasi del suo amore disperato e in malo stato condotto, per confortarlo, e in tale amore confermarlo, ora con un gentile e pietoso sguardo, ora con un onesto e dolce saluto, in migliore stato lo riduceva, come leggiadramente queste sue arti in persona di lei nel secondo capitolo del Trionfo di morte sono da lei descritte, Essendo dunque esso poeta per gli amorosi affanni pallido e mesto nell'aspetto divenuto, ed ella essendosi nel scontrarlo del suo reo stato accorta, mossa a compassione di lui, come nel seguente madrigale vedremo, in tal suo contrario, in tal suo scontrarlo pietosamente guardandolo il salutò. Onde a confermatione di quello che egli dice nel Trionfo d'amore, che un poco dolce appaga molto amaro, essendo tutto confortato e di nuova speranza ripieno, ora in questo sonetto benedice tutto quello, che dal principio di tal amore sino a quel punto era stato fra loro, né altra esposizione giudichiamo che li bisogni, essendo per se stesso chiaro.
Dal precedente sonetto ha dependenza il presente madrigale nel quale il poeta esprime la cagione di tanto benedire che fa in quello dicendo come riscontrandosi Madonna Laura in lui, e volgendo gli occhi nel suo volto, che veduto, per gli amorosi affanni sofferti, esser pallido e magro diventa, talmente che a quelli che lo vedeano faceva ricordar della morte, perché a quella somigliava, che mossa a compassione di lui gratiosamente lo salutò, il qual saluto dice che fu di tanta forza che ritenne il suo cuore in vita, il quale veniva già di quella a mancare. Onde dai suoi occhi che lo guardano, e dalla sua voce che lo salutò dice riconoscere l'essere nel quale si trova. E poi che da lei dipende la sua vita e morte, essere apparecchiato a vivere e morire come piaceva a lei, perchè tutto quello che da lei li viene, se lo reputa a dolce e bello onore. L'una e l'altra chiave intende per quella della vita e della morte di lui, che in arbitrio di lei erano. Onde in quel sonetto Amor con sue promesse lusingando, e diè le chiavi a quella mia nemica, ch'ancor me di me stesso tiene in bando.
Chiavi per che intese.
Avendo il poeta, come di sopra abbiamo veduto, da Madonna Laura avuto pace, ora per la sententia del presente sonetto si può giudicare che mosso da nova speranza avesse avuto ardire di richiederla di potere con qualche sua comodità parlare e raccontarle (come desiderava) le sue passioni amorose e che ella, per non volerlo del suo amore ad un tratto disperare, ma farlo a poco a poco riconoscere del suo errore, gliene avesse dato qualche dubbia speranza, con assegnarli il tempo e l'hora, la qual venuta e vedendo egli non riuscire il segno si duole, e per similitudine di tre impedimenti, cioè di uggia, la quale è ombra che nuoce, della fiera dentro al mansueto ovile, e del muro che fra la spiga e la mano sia posto, domanda qual è quella cosa che di tanto desiderato piacere e contento l'impedisce, e dice che Amor, non per altro che per accrescergli più la doglia, l'aveva in sì gioiosa speranza addutto, ma hora ricordarsi di quello che forse in Ovidio nel ii libro del Met. aveva letto il qual non vuol che sia chi in questa vita si possa dir beato, come egli innanzi al tempo sera tenuto, essendo l'uomo ad infiniti casi di fortuna sottoposto, come per esperienza tutto il dì sì vede, onde dice,
Sed scilicet ultima sempre expectanda dies homini est, dicique beatus, Ante obitum nemo, supremaque funera debe
t.
Huggia, ombra che nuoce.
L'ultima cosa alla quale i miseri amanti pensano è quella alla quale prima devrebbon pensare, cioè che dalle loro amate possino esser beffati, perché quelle cose che non si vogliono, e specialmente nelle pratiche d'amore interviene, difficilmente si credono, come vediamo ora avvenire al nostro poeta: perché sì come abbiamo nel precedente sonetto veduto, essendo il tempo e l'ora, la quale par che da Madonna Laura li fosse assegnata, per deversi seco trovare, senza alcun effetto passata, non ne incolpa lei ma solamente alcuno impedimento creduto da lui, et hora in questo, perché ella di tal impedimento, forse fingeva avere dispiacere, e esser di pari desiderio seco di satisfar della voglia sua, ma che solo la comodità mancava, di nuovo ingannandosi si mostra, aver ammiratione, che essendo ciascun di loro d'un medesimo desiderio e voglia, e da ciascuna delle parti grandissima non altrimenti, che se una sola anima fosse tra lor due, com'è che per lo doppio e molto lor volere, esse voglie siano talmente in essa lor anima minori, ch'egli non possa l'effetto ugualmente da lor desiderato conseguire, quello che per lo contrario vuol inferire, che devrebbe esser.
Onde ad amore il suo parlare drizzando, quasi in questa forma lo domanda: che se fuoco per altro fuoco, e fiume per pioggia, quello che mai non si spese, e questo che mai non si seccò, ma sempre l'un per l'altro suo simile poggia, cioè monta, aumenta e cresce. E più forte che spesse volte s'è veduto l'un contrario esser dall'altro acceso e aumentato, come farebbe l'acqua della fucina, la quale è in sé fredda e umida: non di meno gettata sul fuoco, ch'è caldo e secco, più forte l'accende adunque. Tu amore, al quale si appoggia ricovera e posa, Un'anima in due corpi, una volontà ch'è sola tra lei e me, E che dispense, cioè distribuisci i nostri pensieri, i nostri desideri e voglie, per che fai in lei, per che fai in essa anima con disusata e non consueta foggia le voglie nostre per lei, per lo molto e doppio voler di lei e di me, Meno intense, meno vehementi e grandi? Volendo inferire, ch'aggiunto in essa loro anima il voler di lui con quel di lei, devrebbe in quella crescere, come fa il fuoco per altro fuoco, il fiume per la pioggia, e non mancare. Ma rispondendo a se stesso, per due similitudini mostra, come questo possa forse seguire, l'una per lo Nilo, fiume d'Egitto, il qual cadendo da altissimo monte fa sì grande e smisurato suono, che tutti gli abitatori che si sono intorno assordisce.
Onde Marco Tullio, in quello
De Somnio Scipionis
scrive queste parole,
Sicut in illis, ubi Nilus ab illa, quae Catadupa nominatur, praecipitat ex altissimis montibus, ea ges, quae illum locum accolit, propter magnitudem sonitus sensu audiendi caret
. L'altra per lo sole, dal qual viene tanta e sì smisurata luce, ch'abbaglia chi lo vuol ben fisso guardare. Onde medesimamente M.T.
sicut nequeri solem adversum, cuius radiis vestras acies, sensusque vincitur
. Perché, sì come il gran suono del Nilo non si accorda con i vicini, non essendo quelli di tanto suono capaci, vien perdendo nello sfrenato obietto d'essi vicini, il quale è esso Nilo, che vorebbon udire, che tanto sfrenatamente senza misura dispensa 'l suono che gli assorda, e fa in lor il suon men per lo molto intenso, e sì come per la medesima ragione, la luce del sole, che ben non s'accorda con chi fisso 'l guarda, vien perdendo nel suo sfrenato obietto, il quale è esso sole che vorrebbe vedere, che tanto sfrenatamente e senza misura dispensa la luce, che l'abbaglia e fa in lui la luce men per molta luce intesa, così rispondendo al dubbio dice che il grande e doppio desiderio è voglia di Madonna Laura che non s'accorda con seco, che non s'accorda con la loro anima, la quale ha detto una sola essere fra loro due, per non esser ella di tanto desiderio o voglia capace, vien perdendo nello sfrenato obietto d'essa lor anima, il quale è amore, cioè il loro amoroso affetto, perché lo vorrebbe conseguire, et il quale tanto sfrenatamente e senza misura dispensa in lei la voglia, che l'annoia e fa le voglie in lei men per molto voler intese.
E così per troppo spronar la fuga è tarda, cioè e così per troppo desiderare la cosa desiderata si vien tardo a conseguire, volendo inferire che se con modo e misura la desiderassero, che forse e più tosto la conseguirebbono. Sono alcuni che applicano il presente sonetto a quello che seguiva negli altri ordini, Perch'io ti abbia guardato di menzogna, e dicon che siccome il suon del Nilo non s'accorda con i vicini, e la luce del sole con chi ben fisso 'l guarda, così il desiderio che avea il poeta di esprimere a Madonna Laura il suo concetto, per che era troppo grande non s'accordava da se stesso, senza rispondere al dubbio mosso da esso poeta ad amore, senza accordare per qual cagione si dica, che fuoco per fuoco non si spense, e fiume per pioggia non si seccò mai.
L'ultima cosa che pensano gli amanti è quella che dovrebbon pensare prima.
Poggia, cioè monta e cresce.
Marco Tullio dello strepito del Nilo.
Intenzione del poeta.
Duolsi il poeta nel presente sonetto della sua mala sorte, essendoli fallato il pensero d'aversi, come sperava, e come ne precedenti sonetti abbiamo veduto, Madonna Laura trovare dicendo, che le sue avventure sono tarde e pigre a venire, Ma lui più che un velocissimo tigre a partire, e egli rimanersi col mancar di speranza, e 'l crescer di desiderio talmente, che per il mancare di quella incresce l'aspettare, e per il crescer di questo l'incresce il lassar l'amorosa impresa. Nondimeno mostra di esser in tutto fuor d'ogni speranza, dicendo che prima egli trovi nel suo amoroso stato pace, nè tregua, che faranno le cose impossibili a lui ad essere narrate, Euphrates e Tigre, notabilissimi fiumi nella maggiore Armenia, nascono di diversi fonti, e nel procedere del corso fanno la Mesopotamia, poi entrano l'uno nell'altro, dove 'l Tigre perde il nome, ma il poeta mette che nascono d'un medesimo fonte, seguitando la sacra scrittura, perché nel
Genesis
contenuto nella bibbia al ii capitolo si legge, che nel Paradiso Terrestre, il quale si dice essere posto alle parti estreme d'oriente, nascono d'un medesimo fonte quattro fiumi, de quali Euphrates e Tigre sono due, onde Dante nel xxxiii canto del Purgatorio questa medesima opinione seguitando, Dinanzi ad esso Euphrate e Tigri, veder mi parve uscir d'una fontana, e quasi amici dipartirsi pigri, e Boezio nel iii
De consolatione
,
Tigri set Euphrates uno se fonte resoluunt
. Adunque prima che egli abbia pace né tregua ne l'amorose sue passioni, il Sol si corcherà dove si suol levare, altri espongono, che il sole si corcherà là oltre. Ond'esce, la dove si leva, d'un medesimo fonte Euphrate e Tigre, come cosa impossibile, usciranno d'un medesimo fonte, il qual sentimento a noi par molto duro, oltre che la possibilità non corrisponde alla grandezza delle altre non essendo dall'uno all'altro fonte più di cento miglia. Soggiugne appresso che se pure avviene, ch'egli del suo amore abbia alcun dolce: che dopo quello è sopraggiunto da tanti amari, che 'l gusto, stando nella metafora dei sapori per disdegno si dilegua, si fugge e nasconde da lui talmente, che non li può gustare, Et altro di lor gratie, et altro di lor dolcezza dice, che non gli incontra mai.
Eufrate e Tigri fiumi.
Dante
Dileguare, fuggere e nascondersi.
Essendo fallato il disegno al nostro poeta, d'aversi con Madonna Laura a trovare, come abbiamo di sopra veduto, ora nel presente sonetto, mostra essersi avveduto, che gli era dileggiato di che non incolpa Madonna Laura ma la sua lingua, le sue lagrime e i suoi dolorosi e angosciosi sospiri, e della vista sua si loda. Duolsi adunque della lingua, perché sì come avviene a tutti quelli che veramente amano, quando si propongano di volere alla sua donna, molte cose dire, che giunti poi alla presenza di lei, né sanno esprimer quelle che di dir si avevano proposto, e meno altre formarne, tanto sono da quel timore che dal troppo intenso amore suol nascere, oppressi, e se pur alcuna cosa dicano, è imperfetta e senza alcun sapor, e a pena da loro stessi intesa. Duolsi delle sue lagrime, le quali dice che tutte le notti piangendo l'accompagnano, poi quando egli è dalla presentia di lei, e che per muoverla a compassione di lui vorrebbe lagrimare, non ne può avere una. Il simil mostrar avenir dei suoi sospiri dicendo, E voi sospiri sì pronti, sì presti a darmi angoscia e duolo, Alhor traete, alhor uscite fuori lenti e rotti. Vuole dunque inferire che se la lingua, le lagrime e i sospiri non avessero a Madonna Laura le sue amorose passioni taciuto, come fece la vista che gli le manifestò, forse che l'averebbono disposta a far la voglia sua, la vista, cioè la sua effigie, essendo per le passioni come vuole inferire, pallida e smorta divenuta, perche spesse volte per quella si può far giudicio delle dispositioni dell'anima. Onde egli medesimo in quel sonetto, Amor, con le sue promesse lusingando, che 'l cor negli occhi e nella fronte ho scritto.
Costume de gli amanti quando si trovan presenti all'amata.
Spesso per la qualità del volto si comprende la disposizion dell'animo.
Narra il poeta nel presente sonetto il dubbio suo, ma innanzi misero che felice stato, nel quale per l'amore che porta a Madonna Laura si trova, in questa forma dicendo, che mirando egli il sol sereno de begli occhi di lei, il quale intende per lo suo lucente e splendido viso, onde ancor in quel sonetto, datemi pace, o duri miei pensieri, ove a lei già morta parlando dice, Et senti che ver te mio cor in terra tal fu, qual'ora in cielo e mai non volsi altro da te, che il sol degli occhi tuoi, Ove, nei quali occhi è amore, che spesso dipinge, cioè rappresenta i suoi. Perché mirando egli negli occhi di Madonna Laura gli occhi di lui venivano da quelli di lei ad essere dipinti, e rappresentati, come fa lo spechio che dipinge e rappresenta in lui ogni oggetto che le si pone, come da lui fu espresso in quel sonetto, Qual vago dolce caro onesto sguardo, ove dice, Taciti sfavillando oltre lor modo dicean O lumi amici, che gran tempo con tal dolcezza feste di noi specchi, che l'anima di lui si scompagna, si divide dal cuore per andar in quel di lei, il quale intende per luo terrestre paradiso, credendosi per l'umanità e dolcezza, ch'ella mostrava negli occhi, poter in quello gioire, ma che trovando poi tal dolcezza essere acompagnata da molta amaritudine, allora dice che vede quanto al mondo si tesse opra d'Aragna, quanto al mondo si fa vani e fallaci pensieri, la qual cosa più nelle pratiche d'amore che in tutte le altre suole avvenire, come egli stesso mostra in quel sonetto, come va 'l mondo, Hor mi diletta e piace, ove dice, O speranza, o desir sempre fallace, e per gli amanti più ben che per un cento, onde con se stessa per non aver saputo ben discernere il vero, e con amore si lagna, per c'ha sì caldi sproni, intesi l'ardente desiderio che porgeva e la sua anima di andare in Madonna Laura, e per la simile speranza che li dava di deversi gioire, e poi ha si duro il freno, il quale intende per la repugnantia, che contra di quelli in lei essere trovava, e così per questi due contrari estremi, cioè per lo dolce e per l'amaro, misti, cioè insieme uniti, or con gelate, or con accese, cioè hor con timorose or con ardite voglie, secondo che il disdegnoso o lieto volto di lei, come vuole inferire, li porgeva, dice, tra misera e felice starsi, non sapendo ben discernere quello, che di elli debba seguire: ma che più sono però i tristi, che non sono i lieti pensieri in lei, cioè che piuttosto ne giudica male che bene, pentendosi spesse volte dell'ardite, e troppo sfrenate imprese, che per adempir le voglie sue alcuna volta faceva, come in quel sonetto, Quando il voler che con due sproni ardenti, e in quell altro, Amor che nel pensier mio vive e regna, abbiamo veduto e come mostra ora in questo, che era quella della sua anima di andar in Madonna Laura, la qual cosa altro non era che il suo troppo stare intento e fisso con tutto l'animo ingordamente a rimirarla. D'Aragne e dei suoi sottilissimi ma inutili lavori tratta Ovidio nel sesto libro del
Metamorfosi
.
Tessere opra d'Aragna.
E da avertire il quando andare senza il che
Ovidio.
Seguita pur ancora il poeta a dolersi, e con amore di Madonna Laura che sì lungamente lo tenga nel dubbio stato, che nel precedente sonetto ha dimostrato trovarsi dicendo, che se in breve ella non vi pone qualche termino, che per quel dolce veleno, per quel dolce amoroso distruggimento, ch'egli si sente per le vene andare al cuore, la sua vita è al fine el corso, perché la già frale e spenta sua virtù non può la varietà da lui narrate più sofferire, la qual virtù fuggendo dice che spera finire i suoi dolori, sentendosi a poco a poco, per lo fuggir di quella, mancare et per esser leggier cosa, a chi lo desidera il morire, anzi più facile a far tutte quante l'altre, et essendo d'ogne tempo in ogne luogo alla morte le vie infinite. Onde dice poter ben nulla, chi vorrebbe e non può morire.
Inforsare vien da forse e vale quanto mettere in dubbio, far dubbioso.
Nel presente sonetto il poeta mostra riconoscere i suoi passati errori, e quanto che perseverando in quelli, teme di cader nel vitioso abito, e similmente quanto per tale timore desideri da quelli potersi liberare. Onde dice ch'egli è sì, cioè talmente stanco sotto l'antico fascio delle sue colpe e della ria usanza, che dietro alle terrene dolcezze ha già preso, che per lo troppo grave peso di tal fascio, teme di mancar tra via, cioè che per trovarsi troppo nelle cose sensuali involto, teme di non potersene prima che giunga al passo della morte, liberare, e di cader perseverando in quelle, In mano, cioè nella forza del vitioso abito, o dell'appetito suo nimico nel quale come vedemmo in quel sonetto, Io sentia dentro al cor già venir meno, consiste la morte dell'anima soggiungendo, ben esserlo venuto a Diliurare, cioè a liberare un grande amico pensiero. Onde ancor in quel sonetto, Amor mi sprona un tempo e mi affrena, della sua mente parlando, Un amico pensier le mostra il guado, etc. Questo intende per la prima delle tre gratie, che secondo i teologi ne vengono alcuma volta da Dio, detta proveniente, della quale appieno dicemmo in quella stanza, perché al viso d'amor portava insegna, ove il poeta mostrò che l'avesse da vita voluptuosa richiamato, ma perché poco in tal porposito stette, come dietro a quella vedemmo, si partì da lui, e però dice che volò fuori dalla sua veduta, talmente che s'affatica indarno a volerlo mirare. A darne ad intendere che quando tali buone spirazioni ne sono mandate le dobbiamo mettere a luogo, perché lassandole andare non tornano sempre quando noi vogliamo, che radisime volte nella vita dell'uomo interviene.
E ben dice che per somma e Ineffabile cortesia, cioè per cortesia tanto grande di non poterlo dire, lo viene a diliurare perché Iddio, non per alcun nostro merito, ma per propria cortesia e gratia mosso a compassione dell'humana fragilità ne la concede. Onde è detta gratis data, la sua voce ne rimbomba ancor qua giù fra noi, chiamanla e invitando coloro che in questa valle di miseria travagliano, e sono dalle passioni e humane perturbazioni gittati, a dover pigliar il cammino da lei dimostrato, s'a la vita quieta felice vogliono pervenire, imitando San Matteo all xi capitolo ove dice,
Venite ad me omns qui laboratis et oneratis estis, et ego reficiam vos
. Benchè da pochi questa voce sia intesa, perché molti
sunt vocati et pauci vero electi
. Ma quelli che nel vizioso abito sono incorsi da questa voce non sono chiamati, perché da tale abito è lor serrato il passo di quel cammino, e perché hanno bisogno di maggiore aiuto sarebbe cosa vana il volerli richiamare. Onde dice, venite a me se altri 'l passo non serra. Essendo dunque il nostro poeta ancora del numero dei travagliati, e desiderando per riposarsi in tal cammino entrare, soggiunge quasi in questa forma, qual celeste grazia, qual divino amore, qual benigno e grazioso destino Mi darà penne, cioè mi darà forze e vigore e virtù, in guisa di candida pura e immacolata colomba, ch'i mi riposi e lievimi da terra, cioè con le quali io mi possa riposare e levare la mente dalle caduche e frali cose terrene, all'alte e divine alzandola, imitando il profeta nel salmo,
Exaudi me domine, ove dice, quis dabit mihi pennas sicut colomba et volabo et requiescam
?
Diliurare quanto liberare.
Ineffabile da non potersi dire.
Matteo all'xi capitolo.
David.
Esclama il nostro appassionato poeta in questo sonetto a tutte quelle cose che gli erano de l'amoroso tormento cagione, e che da lui sono narrate. Et ultimamente alle gentili anime che da li amorosi lacci si trovano esser involte, a quelle che la presente vita hanno lassato, et hanno i loro corpi resoluti in polvere, pregando che debbano per pietà di lui restare a vedere quale e quanto è l'acerbo e suo penoso male. Or sola insegna al gemino valore, o insegna sola al doppio valore dedicata, perché alludendo al nome di Madonna Laura intende della fronte del lauro, de la quale solo i valorosi armigeri e gli eccellenti poeti ne sono insigniti. Onde ancor in quel sonetto, arbor vittoriosa e trionfale, Honor d'imperatori e di poeti. Gli sproni e il freno quello che significhi l'abbiamo detto di sopra in quel sonetto, Mirando 'l sol de begli occhi sereno.
Valor gemino quello che dinota
Seguita il poeta in questo sonetto, nel suo lamento, dimostrando come non solamente tutto il giorno, ma tutta la notte ancora quando gli altri posano, egli solo è in continuo pianto, e così in pianto andare sperdendo il tempo talmente, che si reputa essere il più infimo che tutti gli animali, e tanto maggiormente per aver corso la maggior parte di questa vita, la quale per essere piena di amaritudine chiama morte, Imitando M.T. in quel
De somno
Scip. Ove dice,
Vestra vero, quae dicitur vita, mors est
, soggiungendo che più li dole il fallo che Madonna Laura fa in non aver pietà del suo amoroso ardore, vivendo in lei la pietà, che non duol del proprio intollerabil male, perché sì come in altro luogo credo aver detto, nessuna cosa è che tanto tormenti l'amante, quanto il veder la cosa amata non corrisponder nell'amor. Onde egli stesso in una sua epistola a Iacopo Colonna,
Amante non amato nihil reor esse miserius
.
M.Tullio in quel De Somno Scip.
Il poeta in sua epistola.
Duolsi l'innamorato e appassionato poeta in questo sonetto della sua fiera stella, cioè del suo fiero destino, se vera è quella falsa opinione di quei filosofi, i quali vogliono che ogni nostro operare venga dalle stelle destinato, come vedemmo in quella canzone A qualunque animale alberga in terra. E d'amore, per averlo egli più volte pregato che li voglia saldar la piaga fattagli da Madonna Laura per mezzo de begli occhi, che furon le saette, e dell'arco, che fu l'amoroso sguardo, di lei, perché con quell'arme, cioè col medesimo sguardo, quando verso di lui gratioso e humano fosse la può saldare a similitudine di quello che della lancia di Achille si legge. E come da lui non fu taciuto in quel sonetto, I begli occhi, ond'io fui percosso in guisa, Ch'e medesimi porian saldar la piaga, etc. Onde dice il colpo esser di saetta usata come vuol inferire, da lui, e non di spiedo o d'altr'armi ch'egli non usi, ma dice che egli si piglia a diletto i suoi dolori, e Ella, Madonna Laura, non già, Per che non son più duri essi suoi dolori, per la qual cosa, essi suoi dolori non son più duri a tollerare, come farebbono s'ella ancora diletto e gioco se ne pigliasse, et in sententia, non son più duri, perché ella non se ne piglia diletto. Onde ancora nella prima stanza di quella canzone, Dalla fontana di mia vita, veggiamo che usa tal modo di parlare, ove della memoria che di Madonna Laura gli era rimasta parlando dice, E pasco il gran desir sol di quest'una, onde l'alma vien men frale e digiuna. Nondimeno conchiude restarli un conforto, il qual è che meglio sia languire e esser tormentato per lei, che di qualunque altra goder o possedere.
Openion cerca al destino.
Narra il poeta nel presente sonetto la cagione, perché in altri tempi addietro egli desiderò di farsi nelle sue fervide, cioè affettuose e calde rime udire, e quella perché allor in esse sue rime desiderava d'esser, udito dicendo, che alhora fu per far sentire al duro cuor di Madonna Laura un fuoco di pietà del suo amoroso tormento, e che l'aura del suo affettuoso e ardente dire, rompesse, cioè si rompesse, l'empia nube, intendendo di quella del suo, che lo raffredda talmente che dalla pietra esso cuore di lei non può essere penetrato, o che facesse venire in odio ad altrui quello, che dai suoi begli occhi che lo distruggono era celato. Intendendo che fu per fare venire in odio ad altri la durezza e crudeltà di lei verso di lui usata, la quale faceva che ella li celava i suoi begli occhi. Onde cioè, i quali veramente lo struggevano, o veramente dice, che i suoi begli occhi li celavano essa sua crudeltà, perché vuole inferire, che pietosa e umile in vita sé li mostrava essere, ed in effetto era dispietata e crudele, di che abbiamo veduto in quel sonetto, Mirando 'l sol de begli ochi sereno, essersi medesimamente doluto, ma ora dice di non cercar più odio per lei, né pietà per lui perché quello per non darle biasimo, come vuol inferire, non vuol cercarlo, e questa cioè la pietà non può trovarla in lei, tal dice esser stata la sua stella e crudel forte, ma che egli canta la divina suà beltade, che cioè perché il mondo dopo il suo morire, sappia la sua morte essere stata dolce, essendo egli come suol inferire, per Amor d'una tanto bella ed eccellente donna morto.
Fervido, quanto caldo e per traslatione affettuoso.
Nube empia.
Il poeta nel presente sonetto si duol con amore, in quel che egli aveva già per fino alhora in seguitarlo sofferto, mostrando d'esser oggimai dal tempo talmente oppresso, che non ha più vigor né forza da poterlo seguitare, patir gli affani che per lo passato ha patito. E dice che ben vede di lontano il dolce lume de begli occhi di Madonna Laura dinotare che egli era lunge dal desiderio, c'havea di poterne gioire, al qual lume dice che esso amore lo sprona, e gira per l'aspre e difficil vie, secondo che dalla speranza è trasportato, ma di potervi giungere, che egli non ha, come lui l'ali, cioè non ha, come lui, né la virtù né il potere. Onde mostra di contentarsi quasi di quel medesimo, che nel precedente s'è mostrato contentare, cioè di consumarsi e di morire amando.
Stato e desiderio del poeta.
Narra il poeta nel presente sonetto alcune contrarietà del suo amoroso stato, che a tutti gli amanti sogliono essere note, e facilmente sono dagli altri di intendere di sì nuovo e mai più non sentito errore, la sua mente dice essere piena, e come essendo combattuto dalla ragione, intesa per l'amico pensiero, che mostrar ad essa sua mente il guado, cioè il passo non di vane lagrime, ma da gir tosto al porto di salute, ove spera di esser contenta, et da l'appetito, il quale quasi maggior forza indi la suolva, cioè quasi come con maggior forza da esso guado e passo tolti, essa sua mente rimaneva di lui vincitore, perché indirizzando quella all'abito del vitio, dice che conveniva che alla lunga, per aver detto da gir tosto, morte di lei e a quella di lui ella consentisse.
Contrarietà.
Narra il poeta nella presente stanza per alcune similitudini il modo per lo quale egli fu prima de l'amore di Madonna Laura preso, intendendo quella per la nuova angeletta, Sovra l'ale accorta, cioè di veloce e considerato ingegno, o veramente allude alla sua velocità nel fuggirlo, Su la fresca riva, intende di quella della Sorga, la dove egli destinato ad esser preso del suo amore passava, solo, del qual luogo abbiamo nella origine di lei detto. Poi che mi vide senza compagna, poi che mi vide senza compagnia, la quale intende per la fortezza e constantia d'animo, di che egli alhora era privato, come vedemmo in quel sonetto, Per fare una leggiadra sua vendetta, ove dice, Era la mia virtute al cor ristretta, etc. Senza scorta cioè senza prudentia, la quale è un'altra delle virtù morali senza la cui scorta e guida non si può drittamente procedere. Onde in quel primo sonetto, Era il giorno ch'al Sol si scoloraro, dice, Trovommi amor del tutto disarmato, e nel terzo capitolo del Trionfo d'amore, so di che poco canapa s'allaccia un'anima gentil, quand'ella è sola e non ha chi per lei difesa faccia. Un laccio che di seta ordiva, questo intende per la bellezza di lei, dalla quale egli rimase preso. Onde ancora nella seconda stanza di quella canzone, Anzi tre di creata era l'alma in parte, Che v'eran di lacciuolo forme sì nuove, e che ella ordiva a dinotare, che per la tenera età di lei essa bellezza non era ancora perfetta. Onde nella medesima stanza, Era un tenero fior nato in quel bosco, il giorno avanti e la radice in parre, e l'esser di seta, ch'era gentile ma tenace e forte. Tese fra l'erba, tese fra la grata e dolce maniera, mediante la quale egli fu dall'amoroso laccio preso. Onde ancora, nel primo capitolo del Trionfo d'amore, di Cesare parlando, Cleopatra legò tra fior, intesi per parole e l'erba, Onde 'l camin è verde, cioè per la qual gratia, procedendo nell'amore si spera perché se nell'appetito noi non procediamo, se non quanto s'aspetta a primi movimenti, si risolve in niente, Ma se ci lasciamo ritenere dal laccio della concupiscientia, procediamo poi alla speranza di potere tale appettito conseguire. Onde nel seguente sonetto, Così caddi alla rete, e qui m'hanno colto gli atti vaghi, e l'angeliche parole, E'l piacer, e 'l desir e la speranza. E così similmente dal laccio dice essere stato preso, e che non li spiacque poi, sì dolce lume usciva de' suoi occhi, perché fatto incontinente volontieri la seguitava.
Sorga.
Laccio di seta perché preso.
Il presente sonetto è quasi della medesima sentenza della precedente Stanza, perché il poeta, sì come ha fatto ancora in quella, descrive per alcune similitudini il modo, per lo quale egli fu dal principio dell'amore di Madonna Laura preso. Onde per l'erbe, intende, come sotto vedremo, gli atti vaghi di lei, fra la gratia, de quali amor tese la rete d'oro, e di perle intese per le sue aurate chiome, e per li suoi candidi denti, Sotto 'l ramo dell'alloro sempre verde, al suo nome alludendo, ben che n'abbi ombre, cioè benchè io ne abbia viste più tristi che liete. Il seme che sparge e miete sono gli sguardi, che ella intesa per amor spargeva, e raccoglieva a sé, era dolce e da lui bramato quando gratiosi e allegri se li mostravano, acerbo e porgevali pavento e terrore, quando quando turbati e accesi d'ira li vedea, Le note tanto soavi, e queste erano le dolcissime parole. Il chiaro lume era quello che del suo candido viso usciva, il Fune avvolto alla candida e bella mano, intende per lo desiderio mediante il quale, egli era dalla speranza, intesa per la bella mano, nel suo amor tirato e dice essere caduto alla rete e qui averlo colto gli atti vaghi, ch'ella cogli occhi faceva intesi per l'esca, l'angeliche parole per le soavi note, il piacer per lo chiaro lume, Il desire per la fune, e la speranza per la bianca e bella mano.
Atti vaghi.
La commune opinione del presente sonetto è che il poeta intenda parlare generalmente di tutti i cuori degli amanti, che quella seconda pena, cioè del gelare l'abbia per gelosia intesa, della quale Madonna Laura pareggiava tutti, perché a nessuno dava cagione d'essere geloso, dove dice, E chi pensa volar in cime del suo lume spiega l'ale indarno, intende, che chi pensa conseguire in lei l'ultimo effetto d'amore si affatica invano, cosa a mio giudizio non degna del poeta, e meno conveniente alla sua modestia, oltre che in tal opinione una impossibilità aggiunta, come una discordanza v'abbiamo.
La impossibilità è che essendo stati dagli amanti un più ch'un altro felice, e uno più che un altro misero, non può essere a tutti ad un modo dubbio qual sia più la speranza, o 'l timor, la fiamma o 'l gelo. La discordanza è che se tutti ardeno, questa pena è propria del poeta come dice essere, ma è con tutti gli altri amanti comune. Né si trova in questa sua opera luogo, ove quando vuol significare quel timore ch'a gelosia si possa applicare, che egli, per distinguere l'uno dall'altro timore, altramente che gelosia lo dimanda, come veggiamo in quel sonetto, In mezo di due amanti honesta, altiera, ove dice, Subito in allegrezza si converse la gelosia, che 'n fu la prima vista, Di sì alto aversario in cor mi nacque. Et in quell'altro, Liete e pensose, accompagnate, e sole, ove in persona delle donne parlando dice, Liete siam per memoria di quel sole, Dogliose per sua dolce compagnia, la qual ne toglie invidia e gelosia, Che d'altrui ben quasi suo mal si duole. Et in quell'altro, Laura serena, che fra verdi frondi, ove dice, E 'l bel viso veder, ch'altri m'asconde, che sdegno o gelo sia celato tiemme. Ma più chiaramente nella prima stanza di quella canzone, S'i dissi mai ch'i venga in odio, ove l'uno dall'altro timor distinguendo dice, E dal mio lato sia paura e gelosia, né perché dica gelata paura s'ha da tener, che gelosia voglia significare, per questa voce di gielo e di gelare che egli non l'usa con tal significato, come veggiamo in quella stanza, Non al suo amante più Diana piacque dove infin dice, Tal che mi fece hor quando egli arde il ciel tutto trenar d'un amoroso gielo. E nella seconda stanza di quella canzone, Nel dolce tempo della prima etade, E d'intorno al mio cor pensier gelati fatto havean, quasi adamantino smalto. Né perché dica sospetto, che veggiamo averlo usato ancora in quel sonetto, Quelle pietose rime, in ch'io m'accorsi, in cui dice, Ma pur senza sospetto in fin a l'uscio del suo albergo corsi.
Ma la cosa che fa questa openion tenere si è quel luogo nel sonetto ove dice, Pur come donna in un vestire schietto celi un uomo vivo, o sotto un picciol velo, perché l'uomo senza più oltra investigarsi crede, che il poeta abbia voluto imitare quel luogo del secondo libro di Propertio Ove dice, Omnia me laedunt, timidus sum, ignosce timori, e miser in tunicam, suspicor esse virum. Ma non sempre le medesime parole, pur che siano diversamente dette, come veggiamo essere da queste quelle del poeta, sogliono una medesima sententia significare. E siccome l'huomo alcuna volta s'accomoda della sententia e non delle parole, così ancora s'usa delle parle e non della sententia accomodare, come veggiamo ancora nella quinta stanza di quella canzone, Gentil mia donna i veggio, ove dice, certo il fin dei miei pianti, che non altronde il cor doglioso chiama vien da begli occhi al fin dolce tremanti, Ultima speme de' cortesi amanti,
che il poeta medesimamente s'accomoda delle parole di Giovenale, ove nella settima satire dice, non est leve tot puerorum, observare manus oculosque, in fine trementes, e nondimeno la sententia è tutta diversa. Onde la nostra opinione si è che il poeta intenda parlare del proprio cuore, e mostri esserli mosso un dubbio d'amore, qual sia più in esso suo cuore, o la speranza qual ha da adempir il suo amoroso desiderio, o 'l timore che tale speranza contende, o l'amorosa fiamma che il gelo che la fiamma intiepidisce, come ancora in quel sonetto, Amor mi sprona in un tempo e affrena, assicura e spaventa, arde e agghiaccia. Et in quell'altro, Pace non trovo e non ho da far guerra, e temo e spero e ardo, e sono un ghiaccio, per che al più caldo cielo, al più caldo aere, o sia alla più calda stagione dice che trema, e alla più fredda arde. Onde similmente in quel sonetto, S'amor non è, che dunque è che pensi? Havrem mai pace? Ad essa anima parlando, Che pro se con quelli occhi ella ne face, di state un ghiaccio, un foco quando verna, a dinotare i vari e contrari accidenti, che da lui erano nel suo amor provati, Sempre di desiderio e di sospetti pieno. Onde in quel sonetto, Quando il voler che con due sproni ardenti, Che gran temenza gran desire affrena. A similitudine d'una donna che in uno breve e schietto vestire, o sotto un picciol velo, celi un huom vivo, perché dal desiderio di salvarlo, e dal sospetto che sia trovato è combattuta, E senz'altra diffinizione mostra, che di queste due pene, cioè dell'ardere e del gelare, quella dell'ardere sia propria di lui, perché sempre, come dice, arde, ma quella del gielo, non perché vuole inferire che 'l suo bel foco, per Madonna Laura inteso, onde ancora in quel sonetto, Lasso, ch'io ardo e altri non mel crede, Ch'io veggio nel pensier dolce mio fuoco etc. Tale e di tanto venerabile e mirando aspetto, che da tutti quelli che la vedono viene ad essere amata, riverita e conseguentemente temuta, perché tutte quelle persone che s'amano e che s'hanno in veneratione, ancor si temono, onde nella quarta stanza di quella canzone, Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi, E quella in cui l'etade nostra si mira, la qual piombo o legno vedendo, è chi non pave. Et in quel sonetto, non pur quell'una bell'ignuda mano, Gli occhi sereni e le tranquille ciglia, La bella bocca angelica di perle, piena e di rose e di dolci parole, Che fanno altrui tremar di meraviglia, E chi del suo lume per aver detto mio bel fuoco, e chi del suo valore, mediante il quale ella progea a chi la vede timore, Pensa volar in cima, crede veder il tutto,
Spiega l'ali indarno, affatica l'ingegno invano, perché al sommo di quello non è, come vuol inferire, chi possa ascendere con il pensiero. Onde ancora in quel sonetto, Io pensava assai destro esser fu l'ale, Mai non potria volar penna d'ingegno, Non che stil grave o lingua, ove natura volò essendo il mio dolce ritegno.
Impossibilità, discordanza.
Propertio.
Giuvenale.
Spiegar l'ali.
Seguitando il poeta nel presente sonetto le lodi delle bellezze di Madonna Laura, l'assimiglia alla fenice descrivendo come quella è stata da Plinio nel x libro e secondo capitolo della sua naturale historia descritta, il quale mette che ella abbia intorno al collo un monile d'oro il resto sia porporino e la coda, la quale è verde, sia distinta con color di rose e il capo ornato di cresta, che ella abiti nei monti della ricca e felice Arabia, rispetto a molte cose pretiose e all'odorato soavissime che nascono in quelli. Per la qual cosa il poeta dice che Madonna Laura similmente dell'aurata piuma, per aver detto Fenice, della sua aurata chioma forma al suo bello, candido e gentile collo un caro e appregiato monile, senza arte, cioè naturale e non artificiosamente fatto, come quelle che l'altre donne usano portare, e così come quella ha la testa ornata di cresta, così lei dice ornata averla d'un natural diadema, lo qual intende per essa sua aurata chioma. Onde ancora in una sua epistola a Iacopo Colonna, di lei parlando,
Et caput auricomum, niveique, monilia colli
, e dal qual diadema esce il Tacito, il secreto fuoco, che a la più algente bruma, alla più fredda stagione l'arde e consuma, perchè dalla bellezza di quelle nasce in parte, come vuole inferire, il suo ardente amoroso foco, benchè bruma propriamenrte è domandata quella regione tra mezo giorno e l'occidente de la state dove nei brevissimi giorni, la sera s'asconde il sole, onde alhora dichiarò il sole ascondersi nella bruma, focile è quel luogo o quella cosa ove si tiene il fuoco, e come le purpuree penne di quella sono distinte e ornate di color di rose, così la purpurea vesta di lei dice essere ornata, D'un lembo cioè d'un fregio di celeste colore, attorse l'aurato, ovveramente di quello ornato. Et ultimamente che Lei che, cioè lei la quale, fama ripone e cela nell'odorato e ricco grembo dei monti Arabi. Vola per lo nostro cielo, cioè vola per lo nostro aere, et in sententia, ch'ella non abita, com'è fama, ne monti Arabi, ma in queste nostre parti.
Forma e colore della fenice.
Epistola del poeta a Giacomo Colonna.
Mostra il Poeta aver fatto il presente sonetto un giorno, che Madonna Laura su certi prati alla terra di Cabrieres vicini s'andava diportando, i quali perché vengano ad esser da quei colli, che nell'origine di lei abbiamo detto, e che nella tavola posta di sopra, veggiamo insieme con la terra chiusi serrati, domanda ombrosa chiostra di bei colli, cioè luogo fatto di bei colli chiuso et ombroso che cioè la qual lei, per essa ombrosa chiostra di bei colli, i piedi e gli occhi dolcemente movea, fingendo parlar con Amore, a mostrargli la gratia e i leggiadri modi da lei tenuti, col suo eletto e nuovo abito, e come l'erbe e fiori la desideravano et il cielo di lei si rallegrava.
Ostro è un pesce, del cui sangue gli antichi usavano tinger alcuni panni di lana, e tal color dimandavano porpora. Era appresso loro in grandissimo pregio. Elce è quel arbore che i latini domandano lex. Onde Horatio nelle Ode,
Beatus ille, libet iacere modo sub antiqua ilice
, Et Ovidio nel 9. del
Metamorphoses
.
Nigraque sub illice, manat
, Volgarmente e detto Leccio, Antica, vecchia, Negra, ombrosa significa.
Chiostra ombrosa.
Astro pesce Elce. Horatio. Ovidio.
Descrive il Poeta nel presente Sonetto il nobile e gentile nutrimento ch'egli in Madonna Laura et udirla dolcemente parlare alcuna volta pigliava. Onde dice che Rapto, cioè rapito per man d'Amore non saper ben dove, tanto vuol inferire, ch'egli era a tal dolcezza pieno di stupore e con i sentimenti intento, in un volto delibo, in un volto gusto doppia dolcezza. Ambrosia e nettare è il cibo e poco né beati, né l'altro significa che il vedere e fruire Iddio di che essi ne sono nutriti, come vuol il Poeta inferire, che del veder, et udir Madonna Laura egli si nutriva.
Onde dice non invidio, non porto invidia del suo ambrosia e nettare a Giove. E così, in men d'un palmo, cioè in brevissimo spazio del suo bel viso appare, quanto ingegno, natura, e 'l ciel può fare, perché in lei vuol inferire, ch' aveano, per compitamente d'ogni eccellente parte dotarla, posto ogni estrema cura.
Rapto, rapisce.
In men d'un palmo.
Il veder Iddio è vita eterna, cioè beata, perché solo sa cose eterne, come sono gli spirti eletti e le felici anime, può esser veduto. La qual cosa il Poeta nel presente sonetto il suo parlar a Madonna Laura drizzando, adduce in comparatione del suo veder lei, perché da tal vista mostra ch'egli similmente era felicitato. Onde dice, che si come il veder Iddio è vita eterna, et che oltre di quello più non si brama, né licito è di più bramare, che similmente in questo frale, e breve viver di lui la vista di lei lo fa felice. E che, se l'occhio ridice vero al cuore, ch'egli non la vide già mai si bella come allora gliela pareva di vedere, imitando Propertio nel 2. libro ove dice:
Non illa mihi formosior unquam Vita fuit
, dice beatrice, cioè dolce cosa, la qual beatifica, che vince ora ogn'altra speme, ogni desio del mio pensiero, si come fa l'anime beate il veder Dio, soggiugnendo che il partir di tal beatitudine e vista non fosse.
Sì ratto, cioè sì tosto, che né ancora egli più oltre domanderebbe, Che s'alcuno è che sol si viene d'odore, come secondo Plinio nel 7. libro et al secondo capitolo della sua naturale historia in India al fonte del fiume Gange uomini mostruosi detti Astomi, E così come altri sono che vivon d'acqua, come tutti i pesci, o di fuoco, come sono secondo esso Plinio al XXXVj. cap. del XI. libro d'essa natural historia, alcuni animali alati un poco più grossi d'una mosca, detti Pilaris, overamente Piraustri, i quali in Cipri stanno nelle fornaci, dove si fondono i metalli, e tanto solamente vivono, quanto il fuoco in esse fornaci dura. Et tal fama, che sia chi di queste cose viva acquista fede appresso di coloro che l'odono. E così come il gustar et il toccar di queste cose, che giovano e confortano, Acquetan cose terminan doglie prive d'ogni dolciore, domanda, per qual ragione ancora egli de l'alma, cioè della nutritiva vista di lei, non è possibile che viva, et suoi amorosi tormenti acqueti; Volendo inferire, che quando si ratto non fuggisse, non meno possibil sarebbe.
Properzio
Plinio
Astomi uomini mostruosi
Pirausti
Trova il nostro leggiadro et innamorato Poeta a tutte l'ore nuove et alte invenzioni per immortali lodi alla sua eccellente Laura attribuire. Onde ora nel presente sonetto dice che, se Virgilio et Homero, principe l'uno della Latina e l'altro della Greca lingua avesser veduto e fosse loro tanto piaciuto quanto piaceva a lui, che solo per darle fama avrebbe posto tutte loro forze de l'ingegno e misto l'un Latino con l'altro Greco stile, Onde Enea et Ottavia; che LVI. anni con somma pace tranquillità resse sì ben la monarchia di tutto il mondo, cantati da Virgilio, Et Achille, Ulisse, con gli altri eroici semidei, et Agamemnon, che fu da Egidio ancisco, cantati da Omero, sarebbon turbati e tristi, perché restarebbono oscuri, e senza fama. E fa comparazione dalla virtù e bellezze di Scipione Africano a quelle di Madonna Laura.
Il quale Scipione fu cantato da Ennio Poeta, ma con rozo e duro verso. E Madonna Laura dice esser similmente cantata da lui, onde esclamado dice. Et o pur non molesto, cioè, Et o Dio voglia pure, che il mio basso ingegno e stile non le sia molesto, ch'ella non isprezze il mio lodare.
Achille. Ulisse.
Ennio cantò di Scipione.
Seguita il Poeta nel seguente Sonetto quasi per medesimo modo, che nel precedente ha fatto, in sommamente Madonna Laura lodare, A più chiara intelligentia del quale è da sapere, secondo Plut. nella vita d'Alessandro Magno scrive, che andando esso Alessandro contra de Persi, et avendo già passato l'Helesponto e giunto a Troia fece in quel luogo il sacrificio a Minerva, e l'essequie a tutti i Semidei, poi unto et nudo corse intorno alla statua d'Achille, la qual coronando, per due cose lo chiamò fortunato, e felice, l'una perché in vita aveva avuto si fedel compagno, come Patroclo gli era stato, l'altra, che dopo la morte avesse avuta la tuba d'Omero, che le sue lode cantasse, Onde Scilio Italico,
felix aecidia, cui tali contingit ores Gentibus ostendit, crevit tua carmine virtus, E.M.T.O fortunate inquit adolescens, qui tuae virtutis preconem Homerum inveneras
. Onde il Poeta dice, che cioè, perchè tal tuba insieme con quella d'Orfeo e della Virginiana essendo Madonna Laura dignissima ch'andassen sempre cantando lei sola, Stella, deforme Et fatto sol per reo, e fato solo in questo alla felicità di lei contrario, Commise a tale, commise a tal persona, intendendo di se stesso, che di lei devesse cantare, che cioè il quale adora il suo bel nome, ma forse parlando, ma forse di lei cantando, scema sue lodi. Il testo va in questo modo ordinato, Che dignissima intendi, essendo d'Omero e d'Orfeo, O del pastor ch'ancor onora Mantua, Ch'andassen sempre cantando lei Sola, Stella deforme e fatto qui reo Commise a tal ch'adora il suo bel nome. Ma forse scema parlando sue lode.
Alessandro contra de' Persi
Scilio Italico
Torna il Poeta nel presente Sonetto a dire, come in altri luoghi ha fatto, da quanto terrore egli fosse preso, quando in Madonna Laura si scontrava, o che nella considerazione delle sue bellezze era volto, intendendo per Laura celeste l'anima di lei, ch'era come tutte l'altre rationali sono, celeste e divina.
La quale spirava dentro in quel, rispetto al suo nome, verde lauro, cioè in quel suo verde e vivo corpo, ove, nel quale amore essendo, ferì Apollo nel fianco, alludendo alla favola di Dafne, nei cui occhi esso amore, come vuol inferire, era quando Apollo fu da lui nel fianco, cioè nel cor ferito, et a lui pose, a similitudine de' buoi, un tal dolce giogo, che tardi restaura la sua libertà
Può quello in me, che nel gran vecchio Mauro Medusa, può quello in me, che Medusa, trasformato in un sasso nel modo che Madonna Laura trasformava, come vuol inferir, lui, ne toccammo, in quel Sonetto. Poco era ad appresarsi agli occhi miei, brevemente la favola. Né dice poter dar crollo dal bel nodo delle sue bionde e crespe chiome, che di bellezza non pur solamente l'ambra e l'auro vinceva, ma il Sole ancora, tanto era da quello la sua anima, che solo con lei armava d'umiltà legata e stretta; E che L'ombra cioè la vista solamente di tal nodo faceva il suo cuore un ghiaccio e tingeva il viso di bianca paura, perché pallido e smorto era fatto da quel timore, che dal troppo amarla veniva; Ma che gli occhi avevano virtù e forza di fare esso suo cuore, per lo terrore, un marmo. Selce è una pietra che fa foco. Onde dice Medusa, quando in felce trasformollo.
Atlante in Sasso
Seguitando il poeta, in questo Sonetto, nelle lodi delle bionde trecce di Madonna Laura, narra similmente che effetti operavano in lui, dicendo che Laura soave, cioè il soave vento, quantunque al nome di lei alluda, spiega e vibra, scioglie e scuote al Sole L'Auro, per esse aurate trecce inteso; che cioè il quale Amore fila e tesse Madonna Laura pettina e compone. La da' begli occhi, la da essi begli occhi vicino, e dalle stesse, cioè dalle medesime chiome lega il lasso e stanco cuore, e cribra, e ricercai lievi spirti. E in sententia dice che 'l soave vento scioglie e scuote le chiome d'oro che Madonna Laura presso ai suoi begli occhi pettina, compone et intreccia. E che alle medesime chiome lega il suo lasso cuore, e lì cerca i suoi spirti leggeri e pronti al dipartir da lui per volere ove sono esse trecce andare.
E che non ha medolla in osso, O sangue in fibra, cioè sangue in vena, ch'egli non senta tremar pur che s'appressi lei, la quale spesse volte Appende libra, appica e pesa, cioè fa giudicio della sua morte, In fra le bilancia, in fragil vita, intendendo di quella di lui quando vede I lumi, cioè i begli occhi Onde, cioè a' quali s'accende. E quando vede i nodi delle belle trecce, da' quali è preso ora sul destro, ora sul manco omero folgorare, Et ultimamente conchiude, che per esser il suo intelletto dalle divine luci de' begli occhi offeso, Et il cuore dalla troppa dolcezza delle bionde trecce oppresso e stanco, ch'egli nol può ridire perchè nol comprende, qual di ciascun sia la sua grande eccellentia. Fibre sono domandate da' Latini quelle vene, dentro le quali sta il sangue, onde ancora Virgilio:
Nec fibris requies datur ulla renatis
.
Fibra, vena.
Virgilio.
Per l'intelligenza del presente Sonetto noi ci proporremo, ch'essendo'l Poeta e Madonna Laura visitati, overamente essendo iti a visitare, il primo dì di Maggio, un antico vecchio, che molto l'un e l'altro amava e non poco al loro amore favoriva, E che stando esso vecchio in mezo di lor due, et tenendo ciascuno per mano, presentò medesimamente ad ognun di loro una rosa, usando le parole dal Poeta replicate; le quali, col dolce modo da lui tenuto, ebbe forza di far d'amorosa vergogna e l'uno e l'altro viso di lor due cangiare. Le rose erano state colte in paradiso, che tanto suona in Greco quanto giardino. Il testo va in questo modo ordinato: Due rose fresche e colte l'altr'ier in paradiso, E d'un antico e saggio amante il primo di Maggio, bel dono diviso egualmente tra duo minori con si dolce parlare, e con un riso di sfavillante et amoroso raggio da far uom servaggio innamorare, fe' l'uno et l'altro viso cangiare. Il resto segue per l'ordine.
Paradiso, val quanto giardino.
Nel presente Sonetto il Poeta drizzando a Madonna Laura il suo parlar si dole che'l suo amoroso ardore sia creduto e conosciuto da ogni persona se non da lei la quale è sopra ogni altra eccellente, come vuol inferire, E ch'egli sola sopra ogn'altra vorrebbe, e la quale manifestamente esso suo ardore negli occhi di lui e nel suo mesto aspetto vede e conosce, incolpandone non lei, per esser (come dice) fonte di pietà, ma la sua iniqua stella, sotto la quale egli era nato, ch'a questo lo destinava.
Il qual ardore insieme con gli honori di lui Diffusi, cioè sparsi nelle sue rime dice, che ne poriano forse ancora infiamar mille, il numero finito per l'infinito pigliando; che dopo loro verranno, perché li par di ueder nel pensiero esso ardore et onori in rime diffusi che quando fredda sarà la lingua di lui, e chiusi i due begli occhi di lei, cioè che l'uno e l'altro di lor due sarà morto rimaner dopo loro pieni di faville, cioè di scintille d'amore, talmente, che quelli, i quali tali rime legeranno, ne rimarranno infiammati.
Diffunder quanto sparger.
Mostra il Poeta nel presente Sonetto reputar sua somma gratia l'esser tenuto al mondo nel tempo che Madonna Laura visse: perché da lei, mediante la luce dei suoi occhi, era scorto per la via del cielo, Onde alla propria anima, agli occhi, et al suo senso de l'udire, che scorgeva al cuore l'alte e sante parole lei parlando, domanda, per quanto non vorrebbon esser giunti O Poscia od ante poi, o prima, Al camino, al pellegrinaggio di questa presente vita, che tanto mal si tiene essendo, come vuol inferire, dalla sua parte smarrito, anzi perduto il vero e dritto camino della virtù, per non trovarvi i duo bei lumi, per non trovarvi i duo begli occhi Accesi, Né l'orme impresse, nelle forme segnate De l'amate piante, per aver detto orme, Alludendo alla favola di Dafne che fu amata d'Apollo, della pudicizia e bellezza, intese delle piante, della quale erano in Madonna Laura l'orme perché di quella era impressa, avendo rispetto alla conformità del nome, perché il lauro in Greco si domanda Dafne.
Et i suoi occhi erano accesi della sua onestate, non avendo ella al favore d'Apollo voluto assentire. Onde in quel Sonetto. Le stelle, e 'l cielo e gli elementi a prova, d'essi occhi parlando, L'aere percosso da lor dolci rai s'infiamma d'onestate volendo inferire, che per cosa che sia non dovrebbon voler esser giunti prima né poi perché sarebbono stati privati d'una tanta ottima scorta. Adunque dice che, con si chiara luce, com'è quella della onestate, che da' begli occhi veniva. E con tai segni, e con tal scorte, com'essi occhi erano, bisognando a chi drittamente per la non conosciuta via vuol procedere, e luce e buona scorta, non si debba errare nel breve viaggio della presente vita la dritta via del cielo, perché seguitando quei tai segni, da' quali la luce veniva, et i quali la scorta erano, il può alla felice vita guidare, farli degni d'eterno albergo. Onde conforta il core sforzarsi per mezo la nebbia de' dolci sdegni di lei, i quali erano quelli, che quando dalla retta via torceva, lo raffrenavano, a seguitar i suoi onesti passi, cioè ad imitar i suoi onesti costumi, quali erano la scorta, e 'l divo raggio de' begli occhi, ch'era la luce, per li cui mezi egli era scorto al cielo.
Accensi, quanto accesi.
Tutto quello che dalla cosa amata viene all'amante dolce, perché il dolce gli è per se stesso dolce e l'amaro, come nel presente Sonetto dimostra il nostro Poeta dalla sua Madonna Laura avere. Onde alla propria anima parlando dice ch'ella non si debba lagnare, ma temprar il dolce amaro col dolce onore, ch'egli in amar quella ha preso. Alla quale egli disse lei sola sopra tutte l'altre piacerli, intendendo pur di Madonna Laura perché sarà forse ancora chi dopo loro, leggendo quant'egli abbia in amarla sofferto, il porterà invidia, Et altri che vorrebbero esser stati al suo tempo per averla potuta vedere, la qual cosa egli nel precedente ha mostrato attribuirlo a sua gran ventura.
Belle lodi di Madonna Laura.
Seguita il Poeta nel presente Sonetto in dir delle dolcezze da Madonna Laura venivano, come ha nel precedente detto, e quello ch'operavano il lui. Onde a lei il suo parlar drizzando dice Che quando egli l'ode si dolcemente parlare, come propriamente Amore instila, cioè amore imprime o mostra a' suoi seguaci, che l'acceso suo desire ch'ad udire quel tal dolce parlare, Tutto sfavilla, tutto d'amor ardendo si risente per modo che non solamente l'anime, che sono accese, et a' loro corpi unite, ma le spente, e che di quelli son private, dovrebbe infiammare. Et allora dice che trova la bella Donna, per Madonna Laura intesa, presente per imaginazione ovunque, cioè tutti quei luoghi ove che mai li fu tranquilla, o dolce in quell'habito, modo e forma, che per la memoria della prima volta quando la vide Amore suon non d'altra squilla ma di quello degli amorosi suoi sospiri, lo fa sovente destare narrando, come la vede nella forma, ch'a principio la vide, con le chiome sparse a l'aura; e lei conversa, cioè lei indietro nella forma che in tal principio solea esser, tornata. E cosi bella gli ritorna nel cuore, che la qual tien la chiave da poterlo con la vista aprire et a sua posta serrare. Ma dice che 'l soverchio piacer che s'attraversa alla sua lingua, perché l'impedisce e nega 'l dire, fa che non ha ardir di mostrarla, cioè di scriverla in palese, come e con quanta gratia e maestà ella nel cuor di lui si siede.
Squilla, campana.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra in sentenza che, quantunque egli si veda di giorno in giorno andar invecchiando, non potersi però del suo amoroso giogo liberare, né fino a tanto ch'egli muoia o Madonna Laura avesse pietà del suo affanno, sperar di quello potersi posare. Né ch'altri che morte, overamente lei Sani il colpo, sani la piaga ch'Amor co' begli occhi di lei gl'impresse al core. I dolci inescati ami sono le dolci parole e gratiosi modi di lei, da' quali egli era stato preso, onde nel trionpho d'Amore, Ella mi prese, et io ch'avrei giurato Difendermi ad uom coperto d'arme, Con parole e con cenni fui legato Sbrancar in verdi, Et inescati rami del lauro, si è, rimuovere dalla memoria gli amorosi pensieri che di Madonna Laura, al cui nome allude, sempre vivi erano in lui. La sua bell'ombra, che sempre teme e brama, è la vista di lei, onde nel medesimo trionfo, So della namica cercar l'orme, E temer di trovarla.
colpo, inteso per la piaga.
Narra il poeta nel presente Sonetto tutte quelle eccellenti parti di che Madonna Laura era dotata. Dalla grazia delle quali dice essere stato trasformato, E prima dalla sua rara, e non d'umana gente, ma di divina, come vuol inferire, virtù, dalla mente canuta sotto biondi capelli. Onde ancora nel trionfo di castità, Pensier canuti in giovenil etade, Dalla beltà divina in umil Donna, Dalla singolare et pellegrina leggiadria, Dal cantar che si sentia ne l'aia a di notare che dalla dolcezza di quello tutti coloro che l'udivano si sentivano commovere, Dal celeste andare, Dal vago et ardente spirare, Da' begli occhi, Et ultimamente dalla sua dolce eloquentia, Gratie, come dice, che 'l ciel destina largamente a pochi, anzi possiamo dire a nessuno, se non fossero quelli, che per se volerli, ha da tutte le macule preserva, Mago appresso degli Egitij tanto suona quanto a noi Filosofo, Ma volgarmente da Simon Mago è inteso colui, che per arte Maga costringe gli spirti, e fagli in diverse forme trasformare, come vuol il poeta inferire, ch'ancora egli da Madonna Laura mediante esse sue eccellenti doti, era stato trasformato in lei.
Mago quello che suona appresso gli Egitij.
Seguita il Poeta nel presente Sonetto, com'ha nel precedente fatto, nelle singulari et divine doti, che dalla natura erano state a Madonna Laura concedute. E, quantunque per se stesso sia ingegnosissimo, non però giudichiamo ch'altra espositione li sia di bisogno, nondimeno diremo, ch'a sua somma et infinita laude egli dice, Iddio aver raccolto et unito in lei Vita umile e queta in nobil sangue, Et un puro cuore in alto intelletto, cose che rade volte si trovano che stiano insieme, perché l'umiltà e la quiete comunemente si trova esser nelli ignobili, e non ne' nobili, essendo quelli lunge da l'ambitione, e questi sempre più da quella oppressi. E dove regna l'ambitione non può esser quietudine, che la purità e semplicità dell'animo debba esser in alto intelletto, a questo n'ammaestra il Salvatore dicente Estote prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae. Ma si trova similmente in pochi, perché negli alti intelletti, aspirando agli onori et alla gloria del mondo, la purità e semplicità dell'animo non può star con loro, de l'altre parti, che da lui le sono attribuite, abbiam veduto e vedremo in altri luoghi dell'opera.
Parole di Christo.
Trova sempre il nostro leggiadro Poeta nuove inventioni per la sua eccellente Laura esaltare. Onde nel presente Sonetto non parendogli assai per belle comparationi avere dimostrato quanto ch'ella vincesse tutte l'altre Donne di bellezza, dimostra ancora, per alcune similitudini dopo 'l morir di lui, e senz'ella, il mondo aver ad esser nulla, come sarebbe, oltre al perir d'ogni virtù col segno di Amor insieme, se natura togliesse la Luna e 'l Sole al cielo, i venti a l'aere, l'erbe e le fronde alla terra, l'intelletto e le parole a l'uomo, Et ultimamente onde e i pesci al mare. E non solamente dice dever rimaner le cose, dopo 'l morir di lei, tant'oscure, e sole, ma più ancora attribuendo tutto 'l mondo quello, che solamente a lui giudicava dovesse avvenire, come vedremo poi ch'avvenne.
Lodi singulari di Madonna Laura.
Il Poeta nel presente Sonetto mostra che per veder il tempo velocemente passare, et egli dalle amorose passioni esser consumato, aver speranza di tosto quelle insieme co' giorni suoi finire, E poi chiaramente conoscer i suoi passati errori, quello ch'allora, per l'impedimento del corpo non potea vedere. Onde dice che quanto più egli S'avvicina all'estremo giorno della vita, che Suol far breve, cioè suol suol terminar l'umana miseria, non essendo questa vita altro che miseria e stento, che tanto più velocemente vede 'l tempo passare et il suo di tal tempo sperare, esser Fallace e scemo, incerto e vano Onde dice dire agli amorosi soi pensieri che non andaranno ormai troppo più parlando d'amore, come usati erano di fare, sentendo 'l duro e grave terreno incarco del corpo struggersi et a poco a poco mancare.
Onde per la qual cosa dice Noi avremo pace, perché insieme con lui mancheranno le quattro perturbazioni dell'animo, cioè la speranza, il riso, il pianto e la paura, aggiungendo ad imitatione di Marco Tulio nel primo del De Officiis, l'ira ove dice Vacandum autem est omni animi perturbatione, tum cupiditate, metu, etiam aegritudine et voluptate animi, et iracundia, le quali sì lungamente ne fen vaneggiare, E che poi partita che sarà l'anima dal corpo, vedremo chiaramente, Come altri s'avanza, come l'uomo si augumenta et cresce. Onde nel trionfo del tempo, et io m'avanzo di perpetui affanni. Per le cose dubbiose, per entro le cagioni dannose, e che conducon a miserabil fine Onde in quella Canzone I' vo pensando e nel penser m'assale. Che dubbioso a 'l tardar come tu sai, E come spesso indarno, vanamente, e senz'alcuna vera cagione si sospira quello ch'allora, com'ha detto, per lo corpo che fa velo, et impedimento a l'anima, non potea vedere.
La vita humana niente altro esser che miseria e stento.
Marco Tulio nel primo del
De Officiis
.
Per lo presente Sonetto il Poeta mostra esser giunto al principio del quattordicesimo anno del suo amore, E de ardente amoroso desiderio, come nel precedente ha fatto, si sentiva mancare dicendo che s'al principio d'esso quattordicesimo anno risponde 'l mezo e 'l fine, che Laura, al nome di Madonna Laura alludendo, Nel rezo, cioè ne 'l vento ne l'ombra, non lo può più scampare per non poter venir da loro, come vuol inferire, tanto rinfrescamento, che possa essere suo ardente desiderio spegnere, tanto dice, che lo sente fuor di misura crescere: Soggiungendo Amore Con cui, col quale i miei pensieri Non hanno mai mezo, non hanno mai regola, o termino alcuno sotto 'l giogo e servitù del quale, de' miei amorosi affanni non respiro mai mi governa e regge talmente, per gli occhi ch'io giro e volgo si spesso in quelli di Madonna Laura che per lo suo mal gl'intende perché di quello erano cagione, Ch'io non son già mezo, per esser come vuol inferire, la maggior parte di lui consumata.
Onde dice, così di giorno in giorno vo sì chiusamente mancando, che nessuno altri che io e Madonna Laura la qual Guardando, cioè col guardo mi strugge e consuma il core se n'accorge, Onde soghiunge, A dena in fino a qui Scorgo, cioè conosco l'anima esser in me, né so quanto il suo soggiorno, il suo star sia meco, Che, per morte s'appressa, et il viver fugge, volendo inferire, che per tal cagione picciol tempo ragionevolmente vi deveva stare.
Rezo, vento et ombra.
Soggiorno.
Fu il presente Sonetto, per quanto giudicar possiamo, dal Poeta al suo amico Sennuccio mandato, al quale vedemmo di sopra in quell'altro Qui dove mezo son Sennuccio mio, com'essendo esso Poeta dalla corte partito et alla sua habitazione di Valclusa tornato a stare gli aveva scritto ch'amore aveva racceso l'amoroso fuoco nella sua anima. Onde ora in questo, tal cosa raccordandoli, li narra il processo ch'avea fatto in lui. Et la difficoltà, che gli era allora, a potersi da quello liberare dicendo Che, lusingando con le sue promesse amore, l'avea ricondotto all'antica sua prigione, E le chiavi di quella date alla sua nemica Madonna Laura. A dinotare che 'n facultà di lei era il poterla aprire e serrare, cioè di poterlo far felice e misero come piaceva a lei, Che, la qual Madonna Laura, lo tien ancora in bando di se stesso, esendosi egli per lei, come vuol inferire, di se stesso dimenticato, E che non se n'accorse prima ch'egli fosse nella forza di quelle, a dinotare che la dolcezza, la qual pigliamo nella volontà, è tanta che noi non ci accorgiamo di sdrucciolarvi dentro, ne esservi incorsi, per fino a tanto che v'abbiamo fatto tal habito, che difficil cosa ne fia il potercene ritrarre.
Onde a pena mostra creder che li debba giurando esser creduto, ch'egli sospirando ritorni in libertà, soggiungendo che, sì come vero et afflitto prigioniero, porta gran parte dell'amorose sue catene, Imitando Propertio nella terza Elegia, ove dice:
Cum fugit, a collo trahitur pars longa cathenae
; le quali, per lo suo cangiato e mesto aspetto, si conosceano, avendo, come dice, negli occhi e nella fronte scritto quante e quali fossero l'amorose fiamme che gli aveano afflitto e consumato dentro il core. Onde dice che, quando esso Sennuccio si sarà accorto del suo tristo dolore, che farà giudicio ch'egli aveva d'andar più oltre poco nelle sue amorose passioni perseverando, per dover morire. Onde par ch'un'altra volta faccia prova di volersi dal suo amoroso giogo liberare, come nel seguente Sonetto più chiaramente vedremo.
Chiavi di aprire e serrare.
Propertio nella Terza Elegia.
Il presente Sonetto fu fatto dal Poeta l'anno del Signore MCCCXLI della sua età 37 e del suo amore presso al fine del quattordicesimo, partendosi da Valclusa per andar a Roma a coronarsi della laurea; nel qual mostra essersi dell'amore di Madonna Laura liberato, sì come nel precedente abbiamo veduto, che ne faceva prova. Onde dice che, poi che la sua speranza, intendendo di quella che di conseguir la cosa amata prima avea, è troppo lunga a venire, e 'l trapassar della vita sì corto, ch'egli si vorrebbe esser accorto a miglior tempo, più a bon'ora del suo amoroso errore, per fuggir, per tornare indietro più velocemente che di galoppo di quella speranza, la qual troppo lunga dice, ch'era a venire, com'allora quando sano era, vuol inferire, ch'avrebbe potuto fare, pur nondimeno che così debole e zoppo, com'egli da l'un de' lati riuscito; Intendendo del lato ove sta 'l cuore, et ove l'amoroso desiderio l'avea storto, che fugge e torna indietro omai securamente senza alcun contrario stimolo, avenga ch'egli porti nel viso, per lo mutato aspetto, i segni che prese A L'amoroso intoppo, a l'amoroso scontro, il qual fu quello degli occhi di Madonna Laura, quando in lei la prima volta si venne a scontrare.
Onde consiglia quelli che sono in via, e dietro a tal lunga speranza, che debbano tornare indietro, E quelli ch'erano avampati d'amore, che non debbano aspettar l'ultimo ardore et estremo incendio a ritrarsene, il che altro non significa se non che si guardino di cadere nell'habito, nel qual consiste la morte dell'anima, e non si confidino nell'esempio di lui, se ben vi fosse caduto e che vivesse, perché di mille non ne scampa uno, A dinotar la gran difficoltà ch'è poi tornar indietro. Né vuole ancora che si confidino nella propria virtù in constantia d'animo, perché la sua nemica Madonna Laura dice ch'ella ancora era ben forte, nondimeno che la vide però esser dagli amorosi dardi nel mezo del cuore ferita.
Intoppo amoroso.
Dura cosa è veramente il voler contra lo stimolo contrastare, come già più volte e nuovamente ne' due precedenti Sonetti abbiamo veduto il nostro Poeta essersi ingegnato voler fare, quantunque di questa, come dell'altre, mostri averne riportato poca vittoria. Abbiamo adunque nel precedente Sonetto veduto egli essersi (secondo ch'à voluto inferire) dell'amor di Madonna Laura liberato, et in cammino per andar a Roma entrato.
Ora questo fu mandato da lui, per quanto giudicar possiamo, al conte Orso Anguillara, allora di Roma Senatore e del Signore Stefano il giovane, di Giovanni Cardinale Iacopo Vescovo fratelli Colonnesi, cognato, per aver Agnese loro nobilissima sorella per sposa; dal quale era già stato in campidoglio della laurea coronato, e col quale avea tutti i suoi amorosi casi conferito. Et essendosi pur ancora dell'amor di Madonna Laura tornato a risentir, mostra il combatter che faceva in lui la ragion col senso; Perché un ragionevole pensiero mosso da sacro aspetto della sacratissima Roma dice che lo faceva piangere, e trar guai del mal passato, cioè dei suoi passati errori, e sgridando l'ammoniva che dovesse ora mai levarsi dalle vanità e miserie terrene, mostrandogli la via per la qual si sale al cielo, ma che questo pensiero era combattuto da un altro, il qual diceva che passava 'l tempo di tornar a veder Madonna Laura, e che, avendo già più volte l'un con l'altro combattuto, la lite restava indeterminata, et in dubbio quai dei due dovesse vincere.
Orso Anguillara.
Assai manifestamente dichiara il Poeta nel presente sonetto quanto l'appetito possa più che la ragione in lui, i quali di sopra ha lassato in dubbio qual di loro due doveva vincere, poiché conosce l'error suo, e non vi può rimediare, A similitudine di Medea in Ovidio che drittamente giudicava esser somma felicità tradir il padre et abbandonar la patria; ma l'appetito d'esser con Iasone la tirava contro la ragione. Onde dice:
Video meliora proboque, deteriora sequor
.
Duolsi adunque della brevità del tempo, e della poca mercede, ch'al suo lungo e molto languire e tormento vede apparecchiarsi, E dell'estremo giorno al qual si de' avvicinare, né per questo potersi dalle mani d'amor liberare, dimostrando come la ragione e la voglia aveano già combattuto in lui due volte sette anni, e fu dal dì che di Madonna Laura s'era innamorato, e vincerà il migliore, cioè la ragione, S'anime son qua giù del ben presaghe, S'anime son tra noi del ben indovine, Onde par che 'l fine di lui gli sia stato predetto che debba esser buono.
Medea presso Ovidio.
Il maggiore, cioè la ragione.
Vedemo di sopra in quel Sonetto, Poi che mia speme è lunga a venir troppo, il Poeta, mosso da una ragionevol dispositione et andandosene a Roma, essersi dall'amor di Madonna Laura, secondo lui, liberato; Et in quell'altro l'aspetto sacro della terra vostra, com'essendo poi a Roma giunto, era da due contrari pensieri combattuto, l'uno de' quali l'indrizzava alla via del cielo et l'altro a dover tornare a veder Madonna Laura nel precedente, che sperava pur che 'l miglior pensiero, cioè la ragione, dovesser vincer. Ora il presente fu fatto da lui essendosi partito da Roma, et in via per tornarsene al fonte di Sorga, benché poi a Parma, come nella vita di lui dicemmo, fosse da' Signori da Corregio ritenuto. Nel qual dimostra la voglia essere stata vittoriosa, Onde si duol d'amore dicendo ch'egli sapea ben che un naturale e buono consiglio, com'era stato 'l suo di voler dalle sue man fuggire, non valse mai contra di lui, per averne già fatto molte prove, E che nuovamente di questo s'era meglio ancor aveduto, essendo egli tra la riva del Toscano mare, et L'Elba, e Giglio, che sono due isole, le quali le stanno per contra, dove andando egli a Roma era passato, perché in quel luogo fu da' suoi ministri, intesi per gli amorosi pensieri, per divertirlo da questo buon proponimento, assalito, E che dirà il caso, non come persona partiale, e che ne fece prova ma come colui al qual ne rincresce, narrando in forma, che per se stesso chiaramente s'intende.
L'Elba e il Giglio.
Fu il presente Sonetto, per quanto giudicar possiamo, fatto dal Poeta essendo nella città di Parma dove, nel precedente abbiamo detto, che nel suo ritorno da Roma dovea esser da' Signori da Correggio ritenuto; Nel qual finge narrar ad alcune donne come fuggendo egli la prigion d'amore, che nel precedente abbiamo veduto, quanto della nuova libertà gli rincrescesse, a dinotare che male essa prigione era da lui fuggito, Et come ingannato, e lusingato da quello, ritornò nel primo stato, Del quale inganno, essendosi egli per l'habito già fatto, come vuol inferire, avveduto tardi, si chiama misero, E così della fatica ch'allora avea a liberarsi da tal errore, nel qual s'era da se stesso involto. E dice spetro perché un core ostinato in un errore è simile ad una rigida e dura pietra, che non si lassa rompere o spezzare.
Signori da Correggio.
Spetrare.
Nel precedente Sonetto il Poeta ha dimostrato, come fuggendo la prigion d'amore, quanto gli fosse dura la nuova libertà. Ora in questo narra com'essendo in tal fugga, la qual di sopra abbiamo veduto essere stata per mare disceso alla sinistra riva di quello, il quale da Tirreno Re, che di Lidia venne ad abitar in Toscana, Tirreno nomina, e sinistra riva dice perché, andando egli di Ponente a Roma, da quella parte essa riva gli stava. Dove, cioè alla quale riva, l'onde di tal mare, essendo rotte dal vento, piangono. E per suo diporto, solo fra certi boschetti e colline andando, gli venne veduto un lauro, al quale per la memoria di Madonna Laura, spinto dall'amoroso desiderio, volendo andare, non s'avvide d'un rio d'acqua che nascosto dall'erba, tra 'l lauro e lui, per quel luogo correva, onde egli n'andò dentro e bagnossi i piedi talmente che d'essersi così inconsideratamente dal desiderio lassato trasportare mostra aver avuto di se stesso vergogna, la quale è da Aristotele definita esser non virtù, ma laudabile effetto d'animo.
Onde soggiunge che ben gli piace aver cangiato stile, che dove prima per le lagrime si bagnava gli occhi, che ora s'abbia a bagnare i piedi, pur ch'essendo i pie' molli, un più cortese Aprile, una più benigna stagione, a quella della primavera, nella quale egli era quando si bagnò i piedi, alludendo, asciugasse gli occhi, acciò che 'l suo amoroso desiderio adempiendo, non avesse più cagion di lagrimare.
Re Tirreno.
Aprile più cortese.
Il presente mesto Sonetto giudichiamo essere stato fatto dal poeta medesimamente, come 'l precedente, nella città di Parma, nel quale, per trovarsi lunge da lei che era 'l suo solo conforto, e senza speranza di poterlo così tosto tornar a vedere, quasi come disperato di non mai più poter aver bene mostra portar invidia a' morti, dolendosi d'amore, di fortuna et della sua schiva mente: d'amore perché gli strugge et consuma 'l cuore, Di fortuna perché essendo stato cagione ch'egli da Madonna Laura s'era partito, priva esso cuore d'ogni conforto, della sua stolta et cieca mente, che di vane cagioni s'adira et piange.
E così dice convenir che 'l cuor si viva sempre in molta pena combattendo, et egli fuor d'ogni speranza, trovarsi già del suo vitale aver passato 'l mezzo, perché, essendo passato il quattordicesimo anno del suo amore, com'abbiamo di sopra veduto, et essendosi egli di Madonna Laura al ventitreesimo della sua età innamorato, andava per trentotto, ch'era vicino a tre anni oltre alla metà del corso, essendo la metà di quello a trentacinque terminato, come in altro luogo dimostrato abbiamo.
Come il Petrarca avesse passato il mezzo della sua età.
Il presente Sonetto fu fatto dal Poeta medesimamente in questa sua lontananza da Madonna Laura che ne' precedenti abbiamo dimostrato, nel qual narra quello ch'entervien di lui quando si ricorda del principio del suo amore, mostrando che quel medesimo era allora, che in tal principio si ricorda essere stato dicendo, Quando mi viene innanzi, cioè quando mi torna a mente, il tempo, la stagione et il logo ove nel qual di lei, come vuol inferire, innamorandomi, et facendomi cosa sua, perder me stesso, E del caro amoroso nodo, onde del quale Amore M'avvinse, mi strinse di sua mano di modo che mi fece parer il dolce amaro e gioco il piangere, contrarietà da lui molto usate, e che negli amanti si provano, sono tutto solfo et esca, e 'l cuore un fuoco acceso.
Sì cioè talmente dentro Da quei soavi spirti, cioè da quei soavi detti da lei, che 'n tal principio, come vuol infierire, si ricorda aver udito i quali per la memoria che glien'è rimasta, dice che ode sempre, ch'ardendo godo et d'altro Mi cal, mi curo poco, tanto vuol inferire esser dolce il tormento, ch'egli pate per lei, Quel Sol che solo, Quel bel viso di lei che solo risplender agli occhi miei, Coi vaghi sguardi Ancor indi, ancor di quel luogo. ov'ha detto che perse se stesso, Mi scalda a vespro, mi scalda ora in questa virile età, Qual era oggi per tempo, qual faceva il principio della mia gioventù, Et così di lontano, come allora da quel tal luogo egli era dice, che lo alluma e'ncende, Che perché la memoria ad ogni or Fresca e salda, e viva, et ferma, mi mostra pur quel nodo e 'l luogo e 'l tempo, de' quali al principio ha detto, di tanta forza vuol inferire, che sia ivi la memoria del principio di tal amore.
Sì talmente.
Non potendo il Poeta per la memoria di Madonna Laura rimaso li avvenga che lontano fosse da lui, come di sopra abbiamo veduto, lassa d'amarla, or nel presente Sonetto mostra rimetter se stesso del tutto in lei, disposto d'esser quello ch'è sempre stato, viver amandola com'è sempre vissuto. Onde dice ch'ella lo debba porre ove il sol uccide i fiori e l'erba, intendendo che lo debba porre nelle parti di Libia, o dell'Ethiopia et altri luoghi posti sotto la zona torrida, dove dall'eccessivo ardore l'herbe et fiori sono uccisi, o dove vince lui il ghiaccio e la neve vince esso sole, che sono i luoghi settentrionali, volti a l'opposita parte di questi sotto la zona frigida, dove non potendo il Sole sempre ghiaccio e neve. Pommi ov' è il suo carro temperato e lieve, intendendo di quei luoghi che sono sotto la zona temperata fra il circolo artico e il tropico del cancro, et ov' è chi cel rende per l'Oriente, o chi del serba per l'Occidente, per il Sole la mattina, n'è dall'Oriente fenduto, e la fera dall'Occidente serbato, imitando Horatius nelle ode, ove dice
Pone me pigris ubi nulla campus Arbor aestive recreatur aura. Quod latus mundi nebula malusque; Iuppiter urge, Pone sub curru nimium propinquis Solis in terra dominus negata
, Et in sententia ch'ella faccia di lui quelloche le piace, ch'egli serà e vivrà sempre amandola, com'abbiamo di sopra detto, continuando il mio sospir trilustre, continuando il terzo lustro del mio sospirare, ch'io so per amore, perché un lustro appresso degli antichi era il termine di cinque anni, avendone adunque egli passato XIIII del suo amore, come di sopra abbiamo veduto, fino a tanto che giugnea alla fine del XV continuava nel terzo lustro.
Libia, Ethiopia
Horatius nelle Odi
Duolsi il poeta nel presente Sonetto della guerra che da begli occhi di Madonna Laura quantunque, come di sopra abbiamo veduto, egli ne fosse lontano, e del non veder forma da potersene difendere. Onde dice che temendo non distruggano, per lo superchio affanno il cuore, che li vorrebbe fuggire, ma che i loro amorosi rai, quali dì et notte gli stanno nella mente, risplendono in modo che, essendo egli giunto al XV anno del suo amore, abbagliano assai più che quando il primo giorno li vide, e le immagini di quelli dice esser si cosparse, così in ogni parte ov'egli si trova, che non si può voltar in luogo ove non veglia o quella propriamente, quando egli è presente, o simile ad essi amorosi rai accesa luce per immaginazione quando n'è lontano, come allora era; soggiungendo solo d'un lauro, alludendo al nome di lei, tal selva verdeggia, tal ombroso e solitario luogo risplende, intendendo di quello ove la terra di Cabrieres è posta, onde in quel sonetto. Stiamo amor a veder la gloria nostra, che dolcemente i passi e gli occhi muove. Per questa di bei colli ombrosa chiostra et in quell'altro, e questo il nido in che la mia Fenice, fatto in morte di lei e dove gli occhi tuoi solean far giorno, che, nella qual selva, il mio avversario Amore, con mirabil e stupenda arte m'adduca, mi conduce e mena. Vago fra i rami, stando nella Metafora della selva e del lauro, cioè desideroso fra gli ornamenti, i quali erano virtù e bellezze di lei; onde ancora nella III Stanza di quella canzone, Un lauro mi difese allor dal cielo, onde più volte vago de' bei rami. Da poi son gito per selve e per poggi, ovunque vuol, ovunque io sia, per averli, come ha detto, propriamente o per immaginazione sempre presenti.
Immagini cosparte.
Nel precedente Sonetto, il Poeta ha dimostrato, come quantunque egli fosse da Madonna Laura lontano, quanto dalla immagine di lei era continuamente perseguitato. Onde ora in questo volse esprimere delle immaginazioni che di lei gli era in tal sua lontananza un dì venuta, la qual fu che gli parea d'aver gli occhi fermi et fissi nel bel viso di lei, la qual in un atto quasi dicesse Che pensi tu? e ,verso di lui muovendosi , gli porgesse la mano ch'egli secondo amava, perché il primo amato era il suo bel viso. Onde dice che il cuore, al quale, mediante il senso del vedere, tutte le immagini da lui comprese si riferiscono, preso ivi come pesce all'amo, o come novo uccello visco al visco doppio piacere, che da esso bel viso e dalla candida mano pigliava, per vivo esempio delle quali bellezze si vien a ben fare, perché avevano forza, come vuol inferire, di così disporre gli animi di coloro che le vedono. Onde in quel Sonetto le stelle e il cielo e gli elementi a prova e questo affermando dice basso desir non è ch'ici si senta. Ma d'onor di virtute, or qual mai fu per somma beltà vil voglia spenta? Non volse i sensi, cioè quello del veder, col qual veder gliela pareva, quello del tatto, col qual l'onorata mano li parsa toccare, quello dell'udire, col qual udire gliela parsa parlare, i quali erano occupati nella immaginazione, al vero, talmente che non potessero discernere quella esser immaginazione non cosa.
Onde ancora nella quarta stanza di quella Canzone, di pensier in pensier, di monte in monte, a tal proposito dice. Poi quando il vero sgombra Quel dolce error, ma la vista, la qual è uno di quei tanti sentimenti, essendo privata del suo obietto, inteso per la luce che già del bel viso di lei gli era usata venire, sì come l'obietto della nostra vista è la luce, che per riflesso ne viene dal Sole, si face a far via per mezzo di tal immaginazione al vederla. Onde a similitudine delle cose che si sognano gliela pareva di vedere. Senza la qual via di poterla veramente vedere, il bene di tal vista veniva ad esser imperfetto, come sarebbe il bene della nostra vista, che è luce qual non la potessimo chiaramente e con effetto vedere. Essendo dunque l'anima del Poeta per immaginazione ivi tra l'una e l'altra gloria sua, intesa per lo bel viso che gli pareva vedere, per la bella mano, che gli pareva toccare, dice che si sentiva certo celeste, nuovo, e mai più non sentito diletto, e certa strana, cioè insistita, dolcezza, che per un'altra volta i tre sentimenti nella immaginazione occupati replicare, vuol inferire ch'ella voce di lei nel suo parlar veniva, la qual dolcezza, per esser troppo grande, egli non la sa, ne può come vorrebbe dire.
La mano di Madonna Laura amata dal Petrarca dopo il viso.
Sensi quali sono nell'uomo.
Strana cosa, cioè inusitata.
Seguita il poeta, nel presente Sonetto, il narrar di quello che in Madonna Laura per via della immaginazione, che nel precedente ha dimostrato essergli venuta, avea veduto che 'n somma pur della vista de' suoi begli occhi, i quali sfavillando verso di lui folgoravano, e che l'udire la sua dolce eloquenza era. Onde dice che ogni volta ch'egli torna ripensando a quel dì, come ch'al variar de' costumi duri duri di lei, perché prima, come vuol inferire, erano usati d'esser verso di lui duri et aspri, et allora gli erano paruti tutti pieni di dolcezza, i suoi spiriti venivano mancando; che pur il rimembrar, cioè che pur il ricordar, si par che di dolcezze lo consumi, ordinando il testo in questo modo: uscian di duo bei lumi vive faville ver me si dolcemente folgorando, e d'un cuor saggio sì soavi fiumi d'alta eloquenza parte sospirando, che qualora torno ripensando a quel dì, com'al variar de' suoi duri costumi e miei sporti veniva mancando, pur il rimembrar par mi consumi; ma dice che, essendo l'anima sempre in doglia et in pene nutrita, appositive quant'el poter d'una prescritta, cioè d'una terminata e ferma usanza, fu sì inferma, fu tanto debile a poter sostener il doppio piacer, che 'n veder il bel viso di lei, et in udirla dolcemente parlare pigliava, che solamente al gusto del disusato non più consueto bene, or di paura che immaginazione, com'era or di speranza, che vera cosa fosse tremando, fu spesse volte tra due, fu spesse volte tra il si e il no d'abbandonarlo e partir da lui, credendosi alla vera, e non all'immaginata Madonna Laura andare.
Rimembrar. Ricordare.
Tra il si e il no.
Esclama il Poeta, nel presente Sonetto, ad alcune belle parti, delle quali Madonna Laura era dotata, perché essendone lontano, come ne' precedenti abbiamo dimostrato, erano da lui grandemente desiderate, per la qual cosa domanda, se vedrà mai il dì, che la possa veramente e non per immaginazione, com'ha ne' due precedenti Sonetti dimostrato, riveder et udire, quasi ch'egli si dubiti di no; e duoli della sua rea fortuna, la quale non solamente dice che lo priva della lor presenza, ma quando pensa ancor alcuna volta ai suoi begli occhi, e chi di tal pensiero qualche dolcezza onesta e licita gli viene, come di sopra veduto abbiamo, per allontanarlo, et ancor di quella del tutto privarlo, subito or fa cavalli or navi: perché con quelli più velocemente che con altro si fugge, cioè subito trova cagion, per la quale esso dolce pensiero si parta con prestezza da lui.
Fortuna rea del Petrarca.
Mostra il poeta nel presente Sonetto che gli torni a mente alcuni luoghi, là dove, quando egli era al fonte di Sorga, solea alcuna volta Madonna Laura vedere, come quello, che per esserne lontano, ne vive a in gran dolore, e la stagione nella qual fu a principio preso del suo amore, e il luogo e le parole sue. La memoria delle quali cose dice che facevano vaghe le sue luci di piangere, la qual cosa avveniva per lo soperchio dolore che d'esserne privato ave a. Ma l'un Sole che si vede all'una delle due fenestre che nomina, per lo bel viso di lei, l'intende, e per quello che vi si vede fu la nona, a dinotare che era volta a mezzogiorno, il vero Sole, et l'altra fenestra che ciascuna era della casa di lei, per lo vento Borea, che da quella parte viene, dinota esser volta a Settentrione.
Stagione. Tempo
Laura assomiglia al sole.
Mostra il poeta, nel presente Sonetto, aver passato il XVI anno del suo amore, et egli trapassar innanzi verso l'estremo della vita, con alcune contrarietà per lo suo amoroso tormento, fra le quali è che prega il suo grave et angoscioso vivere che avanzi l'empia sua fortuna talmente che contra l'opinione e forza di lei lo faccia vedere. E teme che morte non chiuda anzi ch'egli muoia i begli occhi di Madonna Laura, cioè teme ch'ella non muoia prima di lui, per la ragione espressa in quel Sonetto, Laura, che 'l verde lauro, e l'aureo crine, ove a tal proposito dice, si ch'io non veggia il gran pubblico danno, e 'l mondo rimaner senz' al suo sole, etc. Et ultimamente che le sue nuove lagrime, nelle quali i suoi antichi amorosi desideri erano cagione, fanno prova, fanno fede e provano, che dopo tanto tempo gli è di quel medesimo desiderio ch'è usato d'essere, né per mille rivolte ch'abbia fatto, ingegnandosi di volersi dal suo amoroso giogo partire; non che partito, ma dice non essersi pur ancora cominciato a movere.
Contrarietà.
Narra il Poeta, nel presente Sonetto, l'aspra vita tenuta da lui, per esser da Madonna Laura, come abbiamo di sopra veduto, lontano, imitando il Profeta del Salmo, ove dice vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tetto. Et oltre agli altri effetti, ch'a suo danno mostra, che seguono, afferma che il sonno veramente, come si dice, parente della morte. Onde Virgilio nel VI,
Tum consanguineus laeti sopir
, e Seneca,
Frater durar languide mortis
, et Ovidio,
Stulte quid est somnus gelide nisi mortis imano? Longa quiescenti tempora fata dabunt
. Ma il Poeta in questo luogo intende il Sonno esser parente della morte, perché, sì come la morte in atto porta affanno e doglia, così vuol inferire che fa il sonno a lui, e tanto maggiormente sottraendo, come dice, il cuore a quel dolce pensiero che lo tien in vita, intendendo di quel dolce pensiero che di lei aveva, onde ancor in quella Canzone, in quella parte dov'amor mi sprona, Amor col rimembrar sol mi mantiene, et nel seguente Sonetto. E sol di lei pensando ho qualche pace, Domanda felice et Almo, cioè nutrito paese quello, ove avea lassato Madonna Laura perché da lei felicitato, et egli, come vuol inferire, della memoria di quello si nutriva, lodando le sue verdi rive, le fiorite et ombrose piagge, dicendo che da loro era posseduto, e da lei, per dolore d'esserne lontano, pianto 'l suo bene, ch'essa Madonna Laura era.
David ne' salmi.
Virgilio nel sesto. Seneca. Ovidio.
Almo quale che significhi.
Fu il presente Sonetto fatto dal Poeta nelle sue notturne vigilie, quando in questa sua lontananza per l'amorose passioni non poeta dormire, nel qual dimostra a talora ogni cosa esser queta e dormire, et geli solo vaneggiare et esser in travaglio, et il suo stato in guerra, e solo a Madonna Laura, dalla quale tal guerra veniva pensando, aver da quella, per lo conforto che 'n tele pensier pigliava, medesimamente pace. E così, per similitudine, dice che d'un solo fonte è mosso il dolce e l'amaro, cioè la guerra e la pace, di che egli si pasce, et una sola mano esser quella che lo punge e sana, e per fare che il suo martir sia senza fine, ch'egli nasce e more mille volte al giorno. Tanto punge dalla sua salute esser si trova.
Notte menare in giro il carro celeste.
La presente mesta Canzone fu fatta dal Poeta in questa sua lontananza da Madonna Laura che di sopra dimostrato abbiamo, nella quale, per non poter tornare a lei, mostra esser in somma dispiacere, et in questa prima Stanza quasi al fine della vita condotto, come dopo 'l suo partir da lei vissuto sotto speranza di poterla tornare a vedere, ma che allora tale speranza veniva mancando, e vedevasi in quella troppo invecchiare. Onde, per similitudine dice essersi debole il filo, al qual s'attiene la sua gravosa vita; che fe' da altri, intendendo da Dio, o veramente da Madonna Laura ella non è aiutata ch'ella serà tosto a Riva, cioè al fine, perché dopo l'empia e crudele partita, ch'egli fece da Madonna Laura, suo dolce bene, una sola speranza essere stata quella, che fino allora l'avea tenuto in vita, dicendo che, quantunque egli fosse privato della dolce vista di lei, che si dovesse però mantener in vita, perché poteva ancor tornar a miglior tempo, et a giorni più lieti, e racquistar il perduto tempo, e che questa tale speranza l'ha mantenuto un tempo, ma che allora, vedendosi in quella troppo invecchiare, veniva mancando.
La presente Stanza altro in sententia non contiene, se non che 'l Poeta, considerando quanto 'l tempo velocemente passa, e trovandosi tanto da Madonna Laura esser lontano, si dubita di non poter tanto vivere, che la possa tornar a vedere, onde del conforto usato, il quale era la speranza che di tornarla a vedere ave a, com'ha nella precedente Stanza detto, dice avanzargli poco, né sa per ancora quanto in tale stato s'abbia da vivere. Onde dice ch 'l tempo passa e l'ore esser si pronte a fornir il viaggio e peregrinaggio della presente vita, ch'egli non ha pur solamente tanto spati o di tempo da poter pensar com'ei corre alla morte, ch'appena appar in Oriente un raggio di Sole, che si vede esser giunto in Occidente all'opposto orizonte per le vie lunghe distorte dello zodiaco, e le vite esser sì corte, et i corpi de' mortali uomini sì gravi e frali, che quando egli pensa d'esser da tanta distantia diviso e fatto lontano dal bel viso di lei, non potendo muover l'ali del desiderio per andar a vederlo, dice poco avanzargli dall'usato conforto che di tornarlo a veder ave a, né saper in quale stato quanto tempo s'abbia ancor a vivere.
Tre cose volse il Poeta nella presente Stanza significare essergli in dispiacere e grandemente attristarlo, essendo da Madonna Laura lontano, la prima, ogni luogo ove non vedeva esser i begli occhi di lei e che lei non era la seconda, il continuo pensar da quanta distantia era da quelli diviso, la terza la memoria qual fosse la vita gioiosa, et allegra, quando egli era por presso, e che li vedeva, rispetto a quella noiosa e dispiacevole, nella quale allora, essendone lontano, si vedeva condotto: perché di ciò ricordandosi, vuol inferire, ch'egli era di dolor inestimabile, onde Dante, nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, e Boezio
in omni adversitate fortuna e infelicissimum genus infortunij est fluisse felice
.
Duolsi il Poeta nella presente stanza d'esser sforzato a ragionar delle amorose sue passioni e de' begli occhi di Madonna Laura, come vegliamo che nella precedente aveva cominciato, perché tal ragionare era cagione di rinnovargli le sue prime amorose piaghe. Onde domanda, che fe 'l ragionar di quelli rinfresca, cioè rinnova, onde ancor in quel Sonetto, quella fenestra, ove l'un sol si vede. E la nuova station, che d'anno in anno mi rinfresca in quel dì l'antiche piaghe, il suo ardente amoroso desiderio, dal qual procede il tormento, et il qual nacque il giorno ch'egli passò addietro la miglior parte di lui, intendendo di quel ch'a principio di Madonna Laura s'innamorò, e che la sua anima, che di lui era la miglior parte, andò ad abitar in lei. E s'amor se ne va per lungo oblio, cioè per lunga dimenticanza, qual sia quella cosa che lo conduca a l'esca del doverne ragionare, et a ridursegli alla memoria, acciò che cresca 'l suo dolore, e facciali di quello che non ragionandone farebbe, e perché prima che ragionare, com'egli fa, tacendo non m'impetro, tacendo non divento a similitudine d'una statua di pietra che non parla mai? Ma che certamente cristallo trasparente vetro non mostrò mai di fuori sì bene altro colore ch'avesse dentro a sé nascosto, che la sua anima non mostri assai più manifestamente i loro amorosi pensieri, e la fiera dolcezza, che ha nel cuore, perché che i quali vaghi di sempre piangere, cercano dì e notte chi glien'appaghi, cioè cosa la quale dia loro cagione di tanto piangere quanto n'hanno voglia.
Ha il Poeta, nella precedente stanza, dimostrato il suo diletto esser di pianger assai, ma essendo cosa da non così leggermente crederla, adduce ora in questa per comparazione l'esempio degli amanti, dicendo che sì come negli umani ingegni trova spesse volte chi si piglia nuovo cioè strano piacere d'amar cosa nuova cosa strana, qual acciglia, la quale aduni più folta schiera, più spessa moltitudine di sospiri, che egli similmente è uno di quelli, a chi giova 'l piangere, e che par ben ch'egli s'ingegni per disfogar, come vuol inferire, il cuore che gli occhi suoi siano tanto pregni di lagrime, quanto è pieno di doglia il cuore. E perché nessuna cosa è, che più l'induca a lagrimare, che ragionar de' begli occhi, però dice che ricorre e rientra spesso colà, cioè a quella cosa, onde da la quale trabocchi più largo il duolo, e che ambe le luci che gli furon duci, cioè scorta alla strada d'amore, onde Properzio: Oculi sunt in amore duces, sieno col cor punire.
Duolsi il Poeta, nella presente stanza, che per esser da Madonna Laura lontano gli sia tolto di poter veder et udire tutti quelli eccellenti parti ch'avea notate in lei, com'erano le trecce d'oro, le cui bellezze dice che decrebbero esser invidiate dal Sole, il bel sereno sguardo ove, nel quale o raggi, cioè gli strali d'amore son sì caldi che lo fanno viver meno innanzi tempo; le parole accorte, rade, o sole nel mondo, che gli furon dono cortesemente di loro; ma soprattutto della sua benigna et angelica voce, della quale alcuna volta soleva esser dolcemente salutato, e che destava et accendeva il suo cuore virtute, onde, come colui che mai più non spera poterla tornar ad udire, dice ch'egli non pensa di poter già mai udir più cosa, che lo conforti ad altro ch'al trar angosciosi guai, per essergli ogn'altra cosa che ode, come vuol inferir, noiosa.
Nella presente stanza, pigliando il Poeta piacer nel piangere, come di sopra abbiamo veduto, seguita in narrare l'altre degne parti che in Madonna Laura ave a notato, le quali dice che per ancora più dilettevolmente piangere egli erano celate da que' luoghi alpestri e fedi contenuti con gli Appennini, e vicino a quella selva plana nominata al confine di Reggio, et oltre al fiume d'Elza dove nella sua vita dicemmo ch'egli per più giorni stette, essendo lunge dalle persone che tal suo piacer e diletto non potevano impedire. Onde ancora Stanza di quella Canzone, Di pensier in pensier di monte in monte, Per alti monti e per selve aspre trovo qualche riposo, ogni abitato loco e nemico mortale degli occhi miei. E perché ancora senza lei ogni cosa gli era in orrore, come mostra quel Sonetto di morte, Quel Sol che mi mostrava il cammin destro, ove dice Ond'io son fatto un animal silvestro, che co' pie' vaghi solitarie lassi porto 'l cor grave e gli occhi umili o bassi al mondo ch'è per me un deserto alpestri. Et eranli di quei luoghi alpestri e fieri celati, perché fra quelli era allora, quantunque contra sua voglia ritenuto, come ancora nell'ultima Stanza di quella Canzone, O aspettata in ciel Beata e bella, ad essa Canzone parlando dice: Tu vedrai Italia e l'onorata riva, Canzon ch'agli occhi miei cela e contende non mar, non poggio o fiume, ma solo amor, soggiungendo che non sa s'egli ha da sperar di poterla più innanzi ch'egli muoia vedere, perché la speranza, a tutte l'ore monta, e cresce, dicendogli esser possibile, ma che poi ricadendo afferma il contrario, e che mai non vedrà lei, che delle sue bellezze onora il cielo, di dove, per far fede qua giù a noi, come vuol inferire, delle bellezze di quello ella era discesa. Onde nella terza Stanza di quella Canzone, Che debb'io far? Che mi consigli Amore? Ohimè terra è fatto il suo bel viso, Che solea far del cielo, e del ben di là sù fede fra noi, ove, nella qual lei alberga honestade, e cortesia; et dove, e nella quale egli prega che sia il suo albergo. Onde ancora nella seconda Stanza di quella Canzone, Chiare fresche et dolci acque, E torni l'alma al proprio albergo ignuda, et in quel Sonetto, Il mio adversario in cui veder solete, per consiglio di lui Donna m'avete scacciato dal mio dolce albergo fuora, Et in sententia altro non vuol significare, se non che vorrebbe talmente esser amato da lei, ch'egli le fosse sempre nell'animo.
Volgendo il Poeta, nella presente ultima stanza, alla Canzone il parlar, dice che se partendo ella da lui vede Madonna Laura al dolce luogo, dov'ella è usata essere, ch'egli si crede ben ch'ella si creda ch'essa Madonna Laura per accoglierla le porgerà la bella mano, dalla quale egli si è lontano, imitando Ovidio
in epistolis ad Hero
, ove dice:
Iam tibi formosa porriget illa manum
, Onde come invidioso, o geloso, l'ammonisce che non debba toccare, ma solamente con riverenza dirle, che tosto come possa, o vivo, o morto, ritornerà a vederla.
Filo della vita.
Attemperare, invecchiare.
Tre cose che molestavano il Petrarca.
Boezio.
Rinfrescare. Rinnovare.
Impetrare, divenir pietra.
Folta, spessa.
Properzio.
Raggi che s'ha ad intender per l'incendio e non per gli strali.
Elza fiume.
Quello che vuole inferire il Petrarca.
Ovidio nelle Epistole.
Mostra il nostro innamorato Poeta, nel presente Sonetto, esser giunto al diciassettesimo anno del suo amore, e per il voltar di quello non esser però ancora spento in lui l'amoroso ardore, della qual cosa amaramente si duole dicendo che quando avviene ch'egli ripensi al suo infelice stato, com'egli sia condotto a tanto perseverar in un errore, che si sente nascer in mezzo dell'amorose fiamme un gelo, il quale altro non è che timore di mai più non potersene liberare, affermando esser vero quel proverbio che si cangia prima il pelo che 'l vezzo, cioè che si diventa prima canuto et vecchio che si possa il vizioso abito mutare; e perché i sensi lentino, et facciansi per gli anni men possenti, che gli umani affetti per questo non vengo ad esser meno intesi meno veementi et grandi, onde ancor in quel Sonetto, Erano i capri d'oro a l'aura sparsi, Piaga per allentar d'arco non sana, volendo di se stesso inferire che, quantunque egli piegasse verso l'occaso, che l'amore ch'avea portato e che portava a Madonna Laura non mancava per questo in parte alcuna . Et ciò dice avvenire da l'ombra ria del grande velo dalla dannosa e grave carne del corpo, la qual fa velo, et impedisce la vista dell'intelletto talmente che non può discerner la sua ignorantia, et tornar alla buona e dritta via. Onde sapientemente Boezio:
Felix qui potuti gravis terre solvere vincola
. Per la qual cosa con esclamatione domanda quando sarà quel giorno che mirando, che considerando il veloce fuggir de' suoi anni, possa del fuoco delle sue amorose pene uscire, e se vedrà mai il dì, che quanto egli vorrebbe, quanto solamente fosse conveniente, e non tanto fuori di misura, piaccia a suoi occhi l'aria del bel viso di Madonna Laura, il quale, quantunque allora gli fosse lontano, l'ava nondimeno sempre presente per immaginazione, come nella precedente Canzone, et in più altri luoghi ha di sopra mostrato, volendo inferire che mai nol crede, né lo spera in alcun modo vedere.
Vezzo.
Boezio.
Abbiamo di sopra veduto il nostro Poeta che, per trovarsi di Madonna Laura lontano, esser in dispiacere grandissimo. Ora, la presente Canzone fu fatta da lui medesimamente in questa sua lontananza, essendo nella città d'Arezzo, onde, nelle sue amorose querele seguitando, in questa prima stanza brevemente propone e narra ciò che più diffusamente, per acquietar i sospiri e soccorrer al dolore, in quella vuol dire, che 'n somma è l'historia de' suoi martir scrittagli per le mani d'Amore in mezzo 'l cuore, al qual dice che spesso rincorre, cioè col pensier ricorre, perché l'historia de' suoi martiri non è altro che Madonna Laura col suo bel viso, essendo da lui ogni oggetto che vede, a lei, dalla quale nasce ogni suo martire, col pensiero talmente figurato, ch'ognuno di quelli che vede gli par veder lei per dirle della quale dice ch'amore lo sprona a volger le sue dogliose rime seguaci è conforme della sua afflitta e tormentata mente, ma quali abbiamo ad esser l'ultime dogliose, e quali prime senza doglia, essendo l'amorose pratiche incerte senza mezzo alcuno, e cosa confusa e dubbia il volerne discerner gli estremi. Onde in quel sonetto, S'al principio risponde il fine e 'l mezzo, Amor con cui pensier mai non ha mezzo, Non di meno dice voler dire, perché parlando i suoi sospir han tregua, e soccorre al dolore.
Nella precedente stanza il Poeta ha dimostrato come ogni oggetto che vedeva era da lui a Madonna Laura figurato. Onde, ora, in questa, dolendosi della sua dispietata ventura, che l'abbia da lei dilungato, con la memoria della qual solamente e dice esser mantenuto d'amore, comincia particolarmente a distinguer ognuno di quelli; e prima le stagioni dell'anno, somigliandole all'età di lei, cioè la primavera a quella tenera età, nella quale egli la prima volta la vide, poi estate, quando sormontando il Sole riscalda, alla gioventù, quando fiamma d'Amore s'indovina, cioè s'insignisce in cuor alto e gentile; e 'l mancar che fanno poi nell'autunno i giorni, quando che sormontano le notti, alla sua perfetta e matura etade.
Assomiglia il Poeta, nella presente stanza, quelle grondi, che fuor della scorta de' rami, e le viole, che fuor della terra nel tempo della primavera cominciano a mostrarsi, a quell'erbe e fiori, che fuora del seno di Madonna Laura quando di lei principio s'innamorò, vide ch'usciamo, come nella prima Stanza di quella Canzone, Chiare, fresche, dolci acque, abbiamo dimostrato. Onde dice ch'a la stagione, che 'l freddo perde dal caldo, et le migliori stelle, come principalmente il Sole, poi Giove e Venere, acquistan forza, e fannosi sopra di noi più possenti, mirando in ramo fronde, ovvero in terra viole, che negli occhi ha pur le violette e 'l verde di che Amore, delle quali Madonna Laura, nel principio della sua amorosa guerra, era talmente armato, ch'ancor la memoria la sforza deverla, come vuol inferire, amore, perché queste erano di lei contra di lui tutte le armi offensive. Onde, in quel sonetto, L'oro, e le perle, e i fior vermigli, e bianchi, Che 'l verno devria far languire e secchi son per me acerbi e velenosi stecchi ch'io provo per lo petto e per li fianchi. E, quantunque fossero cose passate, et ella, per anni già maturi, più non gli usasse portare, nondimeno per la memoria di quelle solamente egli era sforzato (com'abbiamo detto) a deverla amare. Onde in quel Sonetto, Erano i capri d'oro a l'aura sparsi, Piaga per allentar d'arco non sana, Et ancora dice aver negli occhi quella leggiadretta scorza, per aver detto in ramo fronde, cioè quella leggiadretta gonna, onde ancora nel medesimo luogo della detta Canzone, Erba e fior che la gonna leggiadra ricoperse, che, la qual ricopria le pargolette, et sue tenere membra, dove, dentro alle quali, allora la gentile anima di lei albergava, ch'ogni altro piacer, che di pensar a lei il fa parer vile, si forte, cioè tanto si ricorda del portamento, contegno, e modo umile, che 'n quel tempo fioriva e poi innanzi agli occhi crebbe, a dinotare che la virtù avea in lei superiori gli anni, perché 'l contegno et modo in ogni gesto, è virtù bellissima e tanto si dimostra esser maggiore, quanto si vede in men perfetta età, et nelle persperità essere usata, come vuol il Poeta di Madonna Laura inferire. Onde, nel trionfo di castità, l'enfier canuti in giovenile etate. E nella detta Canzone, Et ella si sedea umile in tanta gloria, e questo di lei umile portamento dice esser sola cagione, e riposo de' suoi amorosi affanni, perché, sì come in altro luogo abbiamo detto, quanto si conosce la cosa desiderata, et che non si può conseguire esser di maggior valore, come il Poeta Madonna Laura esser conosceva, tanto da maggior passione, et non di meno gli era ancora riposo, per la ragione da lui espressa in quel Sonetto, Fiera stella se 'l cielo ha forza in noi, ove dice Pur mi consola che languir per lei meglio è che gioir d'altra. Et in quello I' mi vive a di mia sorte contento. Mille piaceri non valgon un tormento.
Seguitando il Poeta, nella presente stanza, le sue similitudini, assomiglia il bianco viso di Madonna Laura oltre, come vuol inferire, a l'umano viso lucente et bello, alla tenera et fresca neve percossa su per li colli dal sole, perché quella vedendo, et ad esso bel viso, per la similitudine che quella gli rende pensando dice: Amor mi governa, amore mi consuma, et strugge com' il sol neve. E, per lo dolore ch'à d'esser lontano, può gli occhi suoi far molli, e da presso, per la sua troppa luce, gli abbaglia, e quel che fra 'l bianco et l'aureo colore, ove non vide mai (ch'egli creda) altr'occhio mortal che 'l suo vince 'l cuore, intende dell'amoroso effetto di lei, che di fuori per la fronte posta fra la bianca faccia e l'aurate chiome sempre si mostrava, e vincea 'l cuor di lui, perché di tutti gli altri pensieri lo spogliava. Onde, in questa Canzone, Perché la vita è breve, l'amoroso pensiero ch'alberga dentro in noi mi si discopre, tal che mi trae dal cuor ogni altra gioia. Et in quell'altra, Tacer non posso, e temo non adopre, dinanzi una colona cristallina, et ivi entro ogni pensiero scritto, e fuor traluca sì chiaramente, che mi fra lieto, e sospirar sovente, et occhio mortale altro che 'l suo non vide mai: perché da lui sopra ogn'altro, come quello a chi la cosa si premeva, ogni atto e gesto di lei era notato. Onde ancora in quel Sonetto, Quel vago impallidir che 'l dolce riso, conobbi allor sì, come in paradiso vede l'un l'altro, in tal guisa s'aperse, quel pietoso pensier, ch'altri non scerne, ma vidilo io ch'altrove non m'affiso.
E nella prima Stanza di quella Canzone, Gentil mia donna i' veglio, dentro là dove sol con amor seggio, soggiungendo che quando sospirando ella sorride, l'infiamma talmente dell'amoroso desiderio d'ancora vederla sospirar, et sorridere, ch'esso desiderio non apprezza, e teme oblio, cioè dimenticanza alcuna, ma diventa eterno, ma sta sempre fermo, e permanente in lui nell'estate, che l'altre cose suol cangiar, e 'l verno spegnerle, non lo possono in alcun modo dell'esser suo rimuovere.
Tre altre similitudini adduce il poeta, nella presente stanza, per la bellezza di Madonna Laura esaltare. La prima è delle stelle di sette pianeti, quando, dopo la notturna pioggia, essendo ogni nube sparita, si sogliono all'ombra dell'aere sereno più belle e lucenti mostrare a begli occhi di lei, che all'ombra d'un bel velo li ave a un dì veduti piangere, come di sopra in quel Sonetto, Non fur mai Giove e Cesare sì mossi, e ne' quattro seguenti a quello, fu dimostrato. Et la similitudine è questa, che sì come le stelle, dalla cui bellezza il gelo, o vogliamo dir il ghiaccio in terra la notte splende, sfavillando fra la rugiada, che cade dal cielo, cioè dall'aere, fiammeggiando in esso gelo. Onde Dante in persona di Beatrice, S'io ti fiammeggio ne' raggi d'amore, così gli occhi di Madonna Laura, delle cui bellezze il cielo (come dice) quel dì splendea, sfavillando fra le lacrime che da loro cadevano, fiammeggiando in esso cielo. Sono esse stelle dette erranti, perciò che per li loro diversi moti non sempre sono in longitudine, né latitudine con egual distantia fra le stesse divise, come quelle dell'ottava sfera, avvenga che questo nome d'errare, come dice Marco Tullio nelle
Tusculanae
, sia loro falsamente attribuito, perché senza mai errare, ciascuna fa sempre il naturale proprio corso suo, come quelle del firmamento. Onde ancora Plinio, nel sesto cap. del secondo libro,
Inter hanc coelumque eodem spiritu pendent certis discreta spartii septem sydera, quae ab incesso vocamus entia, cum errent nulla minus illis
. La seconda similitudine è da levar del Sole, all'apparir di lei. La terza et ultima dal tramontar di quello al suo dipartire.
Due altre similitudini fa il Poeta, nella presente Stanza, per più lodi a Madonna Laura attribuire, l'una delle quali è dalle bianche et vermiglie rose poste in tal vasel d'oro, et allora allora colte da vergine mano, che sono tre cose eccellenti, a tre altre eccellentie, che 'l bel viso di lei adornavano, le quali sono le bionde trecce in luogo del vasel d'oro, perché spargendosi sopra il bianco collo, che simile alle candide rose si rendeva, venivano quello con le guance che un dolce fuoco, che un dolce et castigato rossore adornava, e che le vermiglie rose somigliavano, a contenere imitando Virgilio nell'undicesimo dell'
Eneide
, ove dice:
Qualem virgineo demessum pollice florem, seu mollis violae, feu languentis hiacynthi, cui neque fulgor adhuc, nec dum sua forma recessit
. Et nel dodici:
Vel mixta rubent ubi lilia multa alba rosa, tales virgo dabat ore colores
. L'altra da fiori bianchi e gialli mossi fu per le piagge dall'ora, a' capelli di lei che, sparsi su le piagge della Sorga, furon da lui la prima volta veduti. Onde in quel Sonetto, Erano i capri d'oro a l'aura sparsi etc.
Mostra il Poeta, in questa stanza, ch'egli avea preso a voler narrar nella presente Canzone tutti quelli oggetti che rendevano similitudine e conformità all'eccellenti bellezze di Madonna Laura nelle precedenti Stanze n'ha narrati alquanti che naturalmente sogliono questo nostro visivo senno dilettare, com'ancora esse bellezze di lei dilettavano. E, crescendogliene ad ogni ora infiniti altri, che da quelle pigliavano similitudine e conformità, s'accorse che 'l pensiero ch'egli avea fatto di volerli tutti dire esser non altramente vano, che s'avesse pensato voler le innumerabili stelle del cielo ad una ad una tutte numerare, e tanto esser possibile che 'n si poca carta, che basta a contener la presente Canzone, li chiuda tutti: e come se chiuder volesse tutte l'acque in picciol vaso di vetro; ma che questo tal pensiero che gli nacque di volerli tutti in così poca carta chiudere essere stato per farli ancora meglio vedere di quanta eccellenza ella era, accioch'egli s'avesse talmente nel suo amor a confirmare, che non si potesse mai da lei partire, la qual cosa, per non poter altramente fare, dice che non farà. E che, se ben talora egli si fugge, e cerca del suo amoroso giogo liberarsi, trova che 'n cielo e 'n terra ella gli ha serrati i passi, perché guardando egli lassù in cielo il Sole con l'altre erranti stelle, e qua giù in terra le station, le nevi, le rose, e i fiori, con altri infiniti oggetti, ch'a le bellezze di lei rendevano similitudine, come nelle precedenti Stanze ha dimostrato, fa che ovunque, o lassù in cielo, o qua giù in terra guarda, ella si fa talmente per similitudine e sempre presente, che non la può fuggire. E così dice ch'ella si sta sempre seco, e ch'altro non vede mai, né altra brama di vedere, né il nome d'altra chiama ne' suoi sospiri, perché ella sola è da lui, come vuol inferire, sopra ogni altra cosa desiderata.
Avendo il Poeta, nelle precedenti Stanze, per più similitudini, molto le bellezze di Madonna Laura lodate, ora, in questa ultima alla Canzone parlando, mostra esser niente quanto egli n'ha detto, rispetto a quello che 'l suo amoroso pensiero ne comprende, solo per lo conforto del quale dice che 'n così lunga guerra de' suoi amorosi affanni non perisce, e che 'l conto ch'egli facea per lontananza del suo cuor con Madonna Laura rimaso l'avrebbe ben già morto, ma che per lo mezzo di tal conforto piglia indugio dal morire.
Rincorrere, quanto ricorrere, tornare a correre.
Sormontare, montar sopra, alzarli
Indonarsi, insignorirsi formato da Donna, che è quanto Signora.
Scorza perché la piglia qui il Petrarca.
Governare qui per distruggere.
Tralucere.
Oblio, dimenticanza.
Tramontare.
Dante.
Tullio nelle Tusculanae. Plinio.
Virgilio nell'undecimo.
Racchiudere.
Impossibilità.
Nulla spesso usa il Petrarca, e niente rade volte.
Fu il presente Sonetto fatto dal Poeta essendo pur ancora nella città d'Arezzo, come nella precedente Canzone detto abbiamo, nel qual dimostra quanto che, per fuggir l'ignaro volgo, la vita solitaria sempre fosse da lui desiderata, chiamandone per testimoni le solitarie rive, le campagne, e i boschi che per tal cagione quando egli era al fonte di Sorga ave a in uso di cercare. Onde dice che se in ciò compita fosse la sua voglia, che suo re dal paese, Toscano, nel qual allora egli era, Sorga che per li mesti soggetti, come di sopra nella Canzone. Sì è debole il filo a cui s'attiene, e per gli allegri, come nella precedente, mediante il conforto che dal suo celato amoroso pensier ha detto che piglia. L'aita a piangere cantare, l'avrebbe ancora tra suoi bei colli foschi, cioè ombrosi, com'altra volta avea, ma che la sua nemica fortuna lo risospinge in quel luogo, ov' egli si sdegna vedere il bel tesoro suo, inteso per Madonna Laura, nel fango, cioè tra quelli ingegni sordi e loschi, sordi e ciechi, dell'intelletto, celebrata. Onde ancora nella prima stanza di quella Canzone, Amor fe' uno ch'i' torni al giogo antico. Il mio caro tesoro in terra trova. Et in quel Sonetto, Rotta è l'alta colonna e 'l verde lauro, tolto m'hai morte il mio doppio tesoro, volendo inferire che dava le margherite a' porci. Ma dice ch'essa fortuna a quella volta era fatta amica alla mano, con la quale, per fuggire simili ignoranza, scrivea, perché gli dava facoltà di tanto ornatamente scriver le lodi di lei, che tal suo scriver non era forse indegno, come in altri luoghi abbiamo veduto, che l'ha reputato, tanto, altamente allora gliene pareva scrivere, e perché solamente di cose passate, e che 'n gran parte nel principio del suo amore ave a in lei notato scrive a, come nella precedente Canzone abbiamo veduto; però in sententia dice, che se 'l suo scriver ch'allora delle lodi di lei faceva, era non indegno di quelle, ch'amor del vide in quel tal principio, e sapevano Madonna Laura e lui come di tal cosa testimoni.
Sorga.
Nota il Bembo, questo bel modo di dire a la mano ond'io scrivo, invece di con la quale.
Il Petrarca, giudicando bene, non giudicava presuntuosamente delle sue rime.
Essendo pur ancor il Poeta, come di sopra abbiamo veduto, in Arezzo, scrisse il presente sonetto, per quanto giudicar possiamo, al Signor Stefano Colonna, il giovane in Avignone, nel quale della sua lontananza da lui e da Madonna Laura si duole dimostrando come da ogni suo pensiero era a doverlo andar a veder tirato, ma del suo fermo amoroso desiderio, che lo consuma, a veder Madonna Laura per morir costretto. E mentre che l'uno e l'altro di loro, intesi per li suoi due lumi, chiede per esser troppo lontani, indarno dice che ovunque egli è, che sempre del dolor ne sospira, soggiungendo che le catene delle quali egli si trova con molti affanni legato, et alle quali volontariamente s'era stretto, sono carità di Signore, et amor de Donna, cioè l'amore ch'ad esso Signore, inteso per la colonna, et a Madonna Laura, intesa per lo verde lauro, portava, mostrando l'un, cioè la colonna, portata in seno quindici anni, perché tanto era che la sua familiarità teneva; l'altro, cioè il lauro verde diciotto, che fu dal dì che di lei s'era a principio innamorato. E giammai non si scinse, a dinotare che dell'animo non gli erano mai caduti.
A cui fu scritto il presente sonetto.
L'una si riferisce alla Colonna, l'altra al lauro.
Nel precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta molto ma contento contra la voglia sua esser in Arezzo ritenuto. Ora, il presente fu fatto da lui nel suo ritorno al fonte della Sorga, ove quel dì medesimo, passando da Cabrieres (che suo cammino era), dove sperava veder Madonna Laura, dove a arrivare. Onde par che tutto si conforti et, essendo in certi boschetti vicimi, mostra di riconoscer l'aura, cioè lo spirito di Madonna Laura, il qual rasserenava quei poggi, che nella tavola vegliamo, dalle spalle di Valclusa partirsi, e destava in quei tao boschetti i fiori. Per cui convien che 'n pena e 'n fama poggi, per la qual convien che 'n pena, per gli amorosi affanni, et in fama, per lo scriver delle sue lodi monti. E per appoggiar lo stanco cor di lui appresso di lei (non potendo in altro luogo posare) dice che fugge dal suo natio, cioè natio aere toscano, e per far lume al suo fosco, cioè oscuro e torbido pensiero, cercar suo sole, che 'l bel viso di lei era. E spera (come detto abbiamo) quel di poterlo vedere per la luce del quale dice che 'l cielo dà, cioè permette ch'egli ne debba perire, perché quando n'è lontano si strugge del desiderio c'ha di vederlo et, essendo presente, arde del troppo amoroso incendio che da quello gli viene.
Natio, nativo.
Nel precedente Sonetto abbiano veduto come il Poeta, nel suo ritorno d'Arezzo, avvicinandosi a Valclusa, sperava quel dì medesimo, passando a Cabrieres, poter Madonna Laura vedere. Ora, il presente Madrigale giudichiamo ch'egli lo facesse essendo stato a visitarla, nel qual mostra di lei oltre all'usato aver avuto benigna e grata accoglienza; per la qual cosa, acceso di molta speranza, fra se stesso domanda quello ch'oggi mai fanno più seco quei dolorosi sospiri, per li quali di fuori nell'aspetto mostrava la sua angoscia e disperata vita, quasi in tal modo da sé discacciandoli. E narra come quando egli girava 'l volto ne' begli occhi, che gli pareva vedervi dentro amore ch'aitandolo manteneva la sua ragione, che tutto era per le grate buone dimostrazioni che da lei gli erano fatte. Nondimeno, per darne ad intendere che nelle pratiche d'amore non è mai dolcezza senza qualche amaro, dice che per questo ancor non trova però guerra finita, né ogni stato del suo cuor tranquillo, perché quanto più la speranza della finita guerra, e della tranquillità, dallo stato suo l'assecura, che tanto più cade del desiderio ch'egli ha che debba così seguire.
Quando fece il Petrarca il presente Madrigale.
Della speranza, che 'l Poeta nel precedente Madrigale ha mostrato aver di pacificar il suo stato, ora, nel presente sonetto, mostra quasi disperarsi; onde dice ch'Amore, inteso per Madonna Laura per Madonna Laura gli manda, mediante la buona cera che da lei, com'abbiamo in quello veduto, gli era fatto, quel dolce pensiero, quel dolce desiderio, ch'antico segretario era fra loro due, intendendo del desiderio ch'egli ave a di poterle una volta parlare, e ch'ella fosse disposta di volerlo graziosamente ascoltare, come in più luoghi veggiamo questo esser da lui sommamente desiderato, et era fra lui e Madonna Laura antico segretario, perché tal cosa era lungamente da lui stata desiderata e da lei ottimamente intesa. Dal qual pensiero, per la ragione detta di sopra, mostra esser confortato, che gli dica ella mai non esser stata presta et apparecchiata, com'allora era, a quello ch'egli bramava, ch'era d'esser da lei ascoltato, e a quello ch'egli sperava, perché udito ch'ella l'avesse, et inteso il suo desiderio, altro non esser se non ch'ella gli fosse più graziosa della vista de' suoi dolci occhi, com'in quel Madrigale, Lassar il velo o per sole o per ombra, e nella quinta Stanza di quella Canzone, Gentil mia Donna veggio, abbiamo veduto, et in più altri luoghi vedremo, et a nessuno reo fine, come forse ella sospettava, pretendere, sperava tal suo desiderio da lei poter conseguire; ma dice ch'egli il qual ha trovato le parole, cioè quello ch'esso pensiero gli prometteva, talor menzogna, alcuna volta non vere, ch'ella, quantunque graziosa et allegra sé il mostrasse, lo volesse però ascoltare, come veggiamo nella quarta stanza di quella Canzone, Nel dolce tempo della prima etade, ove dice: Poi la rividi in altro abito sola, tal ch'io non la conobbi, etc. È talor vero, come in quel Sonetto, Perch'io t'abbia guardato di menzogna, et il quell'altro, Più volte già dal bel sembiante umano , abbiamo veduto, ma che solamente da lui, per lo timore che nasce da troppo amare, era mancato, dice, che non fa s'egli il creda, e così si vive in tra due, che, perché né si né no gli suona interamente nel cuore, dolendosi fra questo mezzo vedersi andare nella contraria stagione, ch'a tal promessa et alla sua speranza di doverla conseguire, si converrebbe, cioè del suo vedersi divenir vecchio, non per questo sentir variar, né in alcuna parte il suo amoroso desiderio mancare. Nondimeno mostra che, per aver nel correr alla vecchiezza de' compagni assai, più pazientemente portarselo in pace. Onde abbiamo per domestica et approvata sentenza:
Solatium est miseri, socios habere penarum
. Ma ben dice temer la brevità del tempo che n'avanza a vivere, dubitando di non potersi innanzi a l'ultimo suo giorno da tal desiderio rimuovere.
Amore inteso per Madonna Laura.
In questo cioè in questo monte intanto.
È conforto lo haver compagni nelle miserie.
Quel dolce pensiero, che il Poeta ha nel precedente Sonetto dimostrato esser antico segretario di lui d'amore, ora in quel medesimo dimostra in questo che lo desia, cioè diparte da tutti gli altri pensieri, per meglio poter a quel pensare, lo fa da se stesso involarsi, cercando pur Madonna Laura, la qual essendo d'ogni suo amoroso affanno cagione, dovrebbe fuggire, e trovata che l'ha, dice, che la vede passar si dolce , ria che l'anima è per levarsi a volo, et voler il suo vago pensiero adempire, il quale di voler parlare, come la dolcezza di lei gli detta, trema e non ardisce per la rigidità, da la qual vede tal dolcezza di lei esser accompagnata. Tale stuolo, sì fatta moltitudine di pensieri armati, per esser la vaghezza di quella armata di tal timore, conduce seco questa bella Madonna Laura nemica, d'amore e mia. Pure dice: S'io non erro scorgo un raggio di pietà, nel nubiloso altero ciglio, nella sua turbata altera vista, che, il quale, rasserena in parte l'adorato cuore, allora raccolgo l'alma, allora ripiglio l'ardire, e poi ch'i' aggio preso consiglio, preso per partito di scoprirle il mio male, vuol inferire che sia l'istoria lunga.
Stuolo, moltitudine.
Raccogliere l'alma, prendere ardire.
Seguitando il Poeta, nel presente Sonetto, il lessato proposito del precedente, mostra desiderare di poter esprimere a Madonna Laura la sua amorosa doglia, et che l'umanità, la quale ella nostra nel suo bel viso, gliene dava ardire, ma che gli occhi glielo negavano. Onde dice che già più volte egli ave a dal bello e umano sembiante, ch'ella nel viso mostrava, preso ardire d'affidarla con oneste et accorte parole, accompagnato dalle sue fide scorte, intese per lagrime et per li sospiri, de' quali in quel Sonetto. Perch'io t'abbia guardato di menzogna, vedemmo a tal proposito esser doluto. E per la vista squallida e mesta, della qual solamente in quello si lodava, perché avrebbe, come vuol inferire, fatto fede alle pietose parole ch'egli intende a voler dire. ma che giunto a questo gli occhi di lei, per aver posto amore in loro arbitrio ogni stato, facevano vani i suoi pensieri. Onde dicono aver mai potuto formar parola, che fosse da altro che da lui stesso intesa, così tremante e fioco l'ava fatto amore, e che vede bene, che chiariate accesa, ch'amore grandemente desiderato come quello, che mediante la pietà del suo amoroso incendio, quando a Madonna Laura l'avesse potuto manifestare, sperava da lei poter conseguire lega la lingua de' miseri umani, et invola loro gli spiriti talmente, che non possono parlare, soggiungendo al proposito una degna e notabile sentenzia, la qual è che colui il quale può dire come e quanto arde, è picciol fuoco, a dinotare che questa tal taciturnità non interviene, se non in quelli che amor si trovano esser in estremo ardore.
Chi può dire come e quanto arde o in piccioli fuoco.
Il presente Sonetto fu fatto dal poeta una volta fra l'altre ch'egli era salito su quei colli posti alle spalle della più alta sponda di Valclusa, de' quali la terra di Cabrieres, dove Madonna Laura stava col suo bel pianto si vede, di che abbiamo nella origine di lei trattato, e nella tavola posta di sopra il tutto si mostra. Era adunque in questo luogo a quella ora che 'l Sol s'appressa in Occidente, et perché quel basso colle, che fa coda alla sponda della valle viene a tal ora adombrar la detta terra con quasi tutto 'l piano, il Poeta prega 'l Sole che voglia fermarsi e restar a veder la fronde prima da esso Sole, et poi da lui amata, intendendola non per Madonna Laura, né per Dafne, avvenga che che alluda alla favola. Ma per la fronde di quel Lauro piantato da lui sul corrente di Limergue, che passa a toccar la terra, come in altri luoghi abbiamo detto, et Sonetto, Apollo s'ancor vive il bel desio, vedremo: perché quello in memoria di lei poteva, et non Madonna Laura vedere, dolendosi che fuggiva, e faceva adombrare da quel colle il luogo, ove 'l suo cuore con essa Madonna Laura albergava talmente che a poco a poco, secondo che l'ombra cresceva, egli ne prendeva la vista. Alma, questa dizione vien da quel verbo Alere, che sta per nutrire, onde diciamo Alma Venus et Alma Roma, verdeggia risplende questa fronde senza alcuni pari, poi ch'Adamo vide prima il suo et il nostro male, che fu quella fronde il frutto, del cui arbore gustando, fu di quel mal cagione. Adunque, poi ch'Adamo vide quel suo e nostro male, non fu fronde che verdeggiasse tanto quanto questa facea.
Ombrare val quanto adombrare.
Laura piantata dal Poeta, arca fu 'l corrente di Limergue.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, esser di contrario desiderio di quei felici amanti, che da le loro amate consegnano l'ultimo effetto d'amore, perché quelli, acciò che meglio possino i loro amorosi frutti nascondere, desiderano la sera, et odiano l'aurora, la qual, per non manifestargli, gliene suol dipartire. Ma egli dice che i pianti e le doglie del dì se gli addoppiano la sera, perché lo priva, come vuol inferire, della vista di Madonna Laura la mattina è per lui più felice ora, perché a similitudine del verso sole. L'altro inteso per Madonna Laura, insieme con quello Apreno, apriscono non altrimenti che se due lontani fossero tanto simili di beltà, et di lume, ch'ancora 'l cielo s'innamora della terra, come fece già, quando i primi rami del Lauro, per la trasformazione di Dafne, in quello verdeggiarono. De la qual Dafne, benché rena fosse, Apollo celeste pianeta s'innamorò, et in quali rami, al nome et alle bellezze di Madonna Laura alludendo, dice M'hanno radice, cioè m'hanno memoria nel cuore, acciocché sempre ami più altrui, ami più Madonna Laura, che me stesso. Et così dice che fanno per lui due ore a quelle degli altri amanti contrarie, e esser ben ragione che egli brami la mattina che l'acqua, e tema et odi la sera, che per esser cagion di fargli perder la vista di lei, gli adduce affanno.
Alma, quello che significa.
Apreno, qui appariscono
Nel presente Sonetto il Poeta fa comparazione dal risentirsi, che fanno le valli la mattina per lo canto degli uccelli, e per lo mormorio dell'acqua, al risentirsi che egli facea al suono de' suoi amorosi pensieri, che di Madonna Laura l'apparir de l'aurora ave a. Onde dice, Il cantar nuovo il rinnovar del canto, et il pianger degli uccelli, perché vogliono i Poeti, ch'ancora essi per li loro aversi casi piangono. Onde in quel Sonetto, Vago uccelletto, che cantando vai, over piangendo il tuo tempo passato; et in quell'altro, Zephiro torna e 'l buon tempo rimena, e garrir Progne e pianger Philomena, e 'l mormorar de' liquidi cristalli, e 'l mormorar de' chiari fiumicelli, già per freschi et snelli, giù per freschi et i spediti rivi, fanno risentir le valli su 'l dì. Quella ch'ha neve il volto, oro i cipigli, questa intende per l'aurora, la qual in Oriente innanzi che 'l sol esca fuori de l'orizzonte, di quei colori si suol mostrare, quantunque al candido viso di Madonna Laura et alle sue aurate chiome allude. Né l'amor de la qual aurora non fur mai inganni, perché sempre serbò la fede inviolata al suo antico Titone, né fallì, perché mai non falla, del tramontar del Sole al levar di quello, di tornarsi al giacer con lui, destami al suon de gli amorosi balli, cioè destami al suon de gli amorosi pensieri, onde ancor nella prima stanza di quella Canzone, Levar l'aurora, che sì dolce l'aura al tempo nuovo suol movere i fiori, e gli uccelletti incominciar por versi, sì dolcemente i pensier dentro l'alma muovermi sento a chi li ha tutti in forza, che ritornar convieni alle mie notte: ovviamente, che più mi piace, intende de gli amorosi balli, che Venere secondo i Poeti, con le sue nimphe e le grazie suol fare. Onde Horatio, nel primo libro e quarta Oda,
Iam Citherea choros duci Venus imminente luna, iunctaeque nymphis gratie decentes Alterno terra quatiunt pete
; e nel quarto libro, Oda settima,
Gratia cum nymphis geminisque sororibus audet Ducere nuda choros
, pettinando al suo vecchio Titone i bianchi velli, i canuti capelli, e così dice svegliarsi a salutarla insieme col sol ch'è seco. Ma più a salutar Madonna Laura per l'altro sol intesa, soggiungendo averli veduti alcun giorno levar insieme, et in un tempo et in un'ora medesima il vero Sole aver fatto per la sua gran luce sparir le stelle, e Madonna Laura, ch'era l'altro sole, aver fatto sparir lui, a dinotar ch'ella era più bella e lucente del Sole; ad imitazione di Quinto Catullo antichissimo Poeta, in un suo Epigramma recitato da M.T. nel primo libro della Natura degli Dei, il quale dice in questa forma
constiteram exorientem aurora forte salutano, cum subito a larva exoritur, pace mihi liceat coelestes dicere vesta, mortalis visus pulchrior esse Deo
. Titone fu fratello di Laumedonte, re di Troia, il qual, andando in Oriente, conquistò nuove sedie. E perché, senza più tornare in patria, restò in quel luogo, i Poeti fingono che vi rimanesse per esser preso de l'Amor de l'Aurora, de la qual abbiamo di sopra detto.
Cantar novo, rinnovar del canto.
Ambedui qui dice il Petrarca in desinenza, usando ambedue quasi sempre.
Horatio nelle Ode.
Quinto Catullo.
Fu il presente Sonetto fatto dal Poeta essendo su le piagge della Sorga, quasi in quel medesimo luogo et in quella stagione che a principio de l'amore di Madonna Laura fu preso, perché spirandogli nel volto quella medesima dolce aura, che 'n tal principio spirava, dice che gli face a risovvenir delle sue prime amorose piaghe, e che per immaginazione gli parsa veder il bel viso di lei, il quale allora, perché ella non si lassava veder, s'immaginava, che sdegno di lei o gelosia d'altri glielo celassero. Et ancora si pareva di ceder le sue belle chiome, che per esser ella allora giunta agli anni più maturi, portava avvolte in perle e'n gemme, ma che'n quel primo tempo le portava sciolte, come di quelle di più tenera età e del paese era l'usanza, e sopra or terso, e sopra or polito bionde. Et erano da essa aura sì dolcemente sparse con sì leggiadri modi raccolte, che la mente ancora ripensando trema di meraviglia. Onde ancor in quel Sonetto, Erano i capri d'oro a l'aura sparsi, che 'n mille dolci nodi li avvolge a, et in quell'altro, Non pur quell'una bella ignuda mano, gli occhi sereni, e le tranquille ciglia, la bella bocca angelica di perle, che fanno altrui tremar di meraviglia. E soggiunge, Torse 'l tempo, cioè avolsele poi la più matura età, in più saldi nodi, et strinse 'l cuore di un sì possente amoroso laccio, che morte sola fia, ch'io lo snodi, sarà che, per la rimembranza, da quello lo possa snodare.
Snodi avendo detto laccio e strinse.
Torcere, avvolgere.
Abbiamo veduto, nel precedente Sonetto, il Poeta dolersi che 'l bel viso di Madonna Laura gli fosse tenuto celato, non sapendo ben immaginarsi che ne fosse cagione, o sdegno di lei, o gelosia d'altri, ora in questo mostra che scontrandosi egli in quelle donne, in compagnia delle quali Madonna Laura sole a andare, e non vedendola con loro, di domandarle donde questo venga, e che esse Donne rispondendogli alle proprie parole, e perché liete e perché pensose erano concludono, che non indegno di lei, ma invidia e gelosia d'altri esserne cagione, la qual invidia si dolga de l'altrui bene, quasi come fosse proprio male, intendendo del bene di loro, il qual era la compagnia di lei e quel di lui, ch'era 'l poterla vedere. A le quali il Poeta ancor domanda, Chi è quello che pin freno agli animali o da por legge? Imitando Boetio in quello de Consolatione, ove dice:
Quis legem dat amantibus? Major lex amor est sibi
, quasi facendosi beffe et intendendo questo farsi per lui. Onde le donne rispondono che nessuno l'alma può mettere freno, o darle legge, ma possi al corpo, et ira et asprezza usare; il che allora in Madonna Laura, e talora in esse medesime era provato; ma che nel partir da lei, perché spesse volte nella fronte si legge il cuore, imitando Ovidio nella II Elegia ove dice:
Alpicias oculos mando, frontemque legentis, et tacito vultu scire futura licet
, per l'oscurar de l'alta sua bellezza, e per li suoi occhi, che tutti rugiadosi, cioè lagrimosi aveano veduti fare, comprendevano ella essere trista e di mala voglia rimasa.
Boezio.
Descrive l'appassionato nostro Poeta, nel presente Sonetto, quanto egli si contristava quando 'l Sole s'ascondeva la sera in Occidente, imitando Virgilio nell'
Eneide
, ove dice:
Precipitem oceani rubro lavit aequore currum
. E quando poi tutta la notte fra se medesimo andava vacillando e fantasticando, con sospiri, lamenti e lagrime, fino all'alba, qual venuta dice che 'mbiancava l'aer fosco, cioè l'aere tenebroso, ma lui no, perché solo Madonna Laura, la qual era il suo sole, ave a potere d'addolcire, e di mitigare la sua amorosa doglia, e di richiarir li oscuri suoi pensieri. Ma essendo, come ha nel precedente Sonetto dimostrato, da l'invidia tolta da poterla vedere, era sempre oscura notte per lui. I' narro, cioè incapparro, e vien da quelli che comprano, perché fatto 'l mercato della cosa usano di dar l'arra; onde quella tal cosa vien poi ad esser inarrata, garrire è proprio d'alcuni uccelli; onde in quel Sonetto, Zephiro torna, e 'l buon tempo rimena, e garrir Progne, e pianger Philomena. Ma il Poeta, in questo luogo di fe', per lo suo tutta la notte querelarsi d'amore, l'intende.
Virgilio nell'
Eneide
.
Inarrare, incapparrare.
Garrire proprio di alcuni uccelli.
Nella presente Canzone, il Poeta seguita nel suo lamento, dimostrando egli solo sopra tutti gli altri uomini esser al modo infelicissimo, e senza mai aver riposo del suo amoroso affanno. Onde, in questa prima stanza, per più innumerabil cose dinota l'infinità de' suoi amorosi et angosciosi pensieri, da quali, ogni volta che vien la sera, è assalito, come nel precedente Sonetto ha dimostrato.
Mostra il Poeta, nella presente stanza, avere speranza di tosto poter, mediante la morte, por fine a' suoi amorosi affanni, che da l'infinità de' mesti suoi pensieri, che nella precedente ha detto, gli erano nel cor generati. Onde dice che de dì in dì spera l'ultima sera scevri, cioè separi et divida in lui l'onde del suo pianto, dal vivo terreno, dal suo vivo corpo. Altri intendono della parte umida quello, essendo 'l corpo umano di quattro elementi composto, de' quali il fuoco è caldo, l'aere freddo, l'acqua umida e la terra secca, perché mancando l'umore, co 'l calore il corpo si vien a risolvere. E poi la lassi in qualche piaggia, in qualche risposato luogo per sempre mai dormire, chiamando per testimonio d'essi suoi affanni i boschi, i solitari luoghi da lui, per fuggire le persone, cercati.
Altro non volse il Poeta, nella presente Stanza, in sentenza significare, se non quanto 'l suo stato fosse inquieto, e per alcune impossibilità, quanto lunge dalla speranza di poterla mai quietare: come è che 'l mare sia senza onde, che 'l Sol piglia la luce dalla luna, et che i fiori in ogni piaggia verghino a morir d'Aprile, allora quando si sogliano nascere.
Seguita pur ancora il Poeta a dire della inquietudine del suo amoroso stato, somigliandolo a quello della Luna, la qual non posa mai, et quando, giungendo la sera, gettava sospiri da crollare li boschi, et lagrime da poter l'erba bagnare. E così dice: Di piaggia in piaggia, cioè d'un in un altro solitario in abito e diserto luogo andarsi continuamente consumando et struggendo.
Dimostra il Poeta, nella presente Stanza, quanto la solitudine fosse amata da lui, per poter co' sospiri, e co' 'l pianto, come nella precedente ha dimostrato, i suoi amorosi pensieri disfogare. Onde dice esser a' suoi pensieri le città, dove le turbe concorrono, nemiche, et i boschi solitari amici, i quai pensieri, accompagnati col mormorio de l'onde, va per lo silenzio della notte disfogando, talmente che, per poterli meglio disfogare, egli aspetta tutto 'l dì che giunga la sera, et che dal nostro emisfero, per dar luogo alla luna, si parta 'l Sole.
Il poeta, nella presente stanza, mostra desiderare d'esser con Endimione Vago, cioè innamorato della Luna, la cui favola tocca M.T. nel primo libro de Tus. e Pli. nel 2 li. et al 9 cap. della sua historia naturale, addormentato in qualche verdi boschi, in qualche allegri et solitari luoghi, e che Madonna Laura, la qual innanzi vespro gli fa sera, che innanzi tempo lo conduca a morte, insieme con essa Luna e con amore andasse a starsi ivi in quella piaggia, che la seconda Stanza ha detto, una sola notte, la qual durasse sempre.
Volgendo 'l Poeta nella presente ultima Stanza alla Canzone il parlar, dice ch'ella, la qual era nata, cioè stata composta di notte, in mezzo i boschi,, in mezzo a quei solitari luoghi sopra l'onde delle sue dure et amare lagrime al lume della luna, la seguente sera vedrebbe ricca piaggia, ricco riposo, perché le navi giunte a piaggia posano. Onde Dante, in persona di Ciacco, Con la forza di tal, che teste piaggia, pensando forse di doverla a Madonna Laura mandare, la cui piaggia è luogo ov'ella dimorava, era fatta ricca da lei, overamente dice dure onde alludendo al fiume della Durenza, sopra 'l quale forse allora la presente Canzone scrisse, doveva esser.
Scevrar, separare.
Uscir pianto, e sì fatti, si pin con la particella de come esce de gli occhi dì.
Favola di Endimione.
Dante.
Duranza fiume: ma il Petrarca dice Druenza, e non Durenza.
Nella presente elegantissima, et artificiosissima Canzone, il Poeta fa un discorso, qual fusse lo stato suo prima che di Madonna Laura s'innamorasse, a quello che fu poi, e per esprimere la sua amorosa doglia, et alcuni effetti durante tal amore, seguiti tra loro, finge esser in diverse e varie forme trasformato, proponendo in questa prima stanza tutto quello che nelle seguenti vuol dire, quasi in questa forma dicendo, Perché cantando si disacerba, cioè si matura, il dolore, pigliando la similitudine da frutti, che maturando si disacerbano, Canterò come io vissi in libertade, e sciolto dagli amorosi lacci, mentre Amor s'ebbe a sdegno nel mio albergo, cioè si degnò d'esser in me, nel dolce tempo della prima etade, che la quale vide nascere, et ancor vide quasi esser in erba, cioè un poco eradicata la fiera amorosa voglia, che poi, per mio male et gravissimo danno crebbe, e fece quel processo, che 'n tutta la presente opera veggiamo. Poi dice seguirò sì come troppo altamente di non avermi al suo amoroso giogo sottomesso gli increbbe, e quello che di ciò m'avvenne, Benché 'l mio duro scempio, benché 'l mio duro strazio sia scritto altrove talmente, che mille pene ne son già stanche, per lo lungo scrivere che di quello ho fatto, e quasi in ogni valle rimbombi e risuoni 'l suon de mie' gravi, de' miei lunghi sospiri, pigliando la similitudine dagli accenti, che, i quali, acquistan fede, fanno prova, quanto la mia vita sia penosa, e grave. E se qui, e se a questo, ch'io vo dire, la memoria non m'aita, come suol fare, tanto ch'io me ne possa ricordare, scusilla i martiri, da' quali ella è tormentata la scusi, et un pensiero, che in essa memoria della cosa amata, il quale mi dà solo angoscia e noia, talmente che ad ogni altro pensiero che 'n lei vuole entrare fa voltar le spalle, fa ch'ella lo disprezza, di quel solo angoscioso pensiero contentandosi; et mi face obliar, et mi fa dimenticar, a forza me stesso: perché quel tale pensiero, Tien di me quel dentro, tien di me l'anima, la qual è la parte migliore, et io solamente tengo la scorza, cioè il corpo, il qual, essendo scorza dell'anima, era la parte men buona di lui.
Avendo il Poeta, nella precedente stanza, proposto tutto quello che nel proceder della Canzone vuol dire, ora in questa dà principio alla sua narrazione, quasi in questa forma dicendo che dal dì ch'Amor gli avea dato il primo assalto, per fin al tempo che di Madonna Laura s'innamorò, come vuol inferire, erano passati molti anni, et che già cangiava il giovanile aspetto, cioè quello aspetto quasi fanciullesco, che nell'età dell'adolescenza si suol mostrare in noi perché, sì come dicemmo in quel Sonetto, Per far una leggiadra sua vendetta, il Poeta fu più volte, prima che di Madonna Laura s'innamorasse, tentato d'amar altre Donne, avvenga che poca affezione in tali amori mettesse. Onde dice che pensier gelati aveano fatto d'intorno cuore quasi smalto adamantino. Il quale non lassava allentare, non lessava uscir fuori di quello, il duro et ostinato amoroso affetto; et che lagrima non gli bagnava ancora 'l petto, né rompea 'l sonno, quello che vedendo seguir in altri gli pareva cosa miracolosa, ma che ben conosceva allora, per l'esempio di lui stesso, esser vero quel proverbio, che la vita si debba lodar al fine, e 'l dì la sera, perché, mentre l'uomo è in vita, viene ad esser sottoposto ad infiniti casi di fortuna. E molte volte il dì nel suo principio si mostra in aspetto chiaro e sereno, che 'n picciol spazio si vede turbare, et essere da pioggia, e tempestosi venti oppresso, perché dice che sentendo amore, del qual egli ragiona, non essergli fino allora passato oltre la gonna percossa di sua strale, prese in sua scorta una possente donna, prese in suo favore Madonna Laura, verso la quale, per farsela benevola e amica, poco il valse giammai, o vale, cosa ch'egli sappia fare. E i due, cioè amore et ella, lo trasformano in quello ch'egli era allora, facendo d'uom vivo e vero un Lauro verde, il qual per fredda stagione mai non perde foglia. Et in sententia dice che 'l suo amoroso affetto e Madonna Laura, al cui nome allude, lo trasformarono in lei. Ma come questo possa seguire è da sapere, che 'n due modi diciamo l'anima dividersi dal corpo, l'uno quando si muore, l'altro è quando l'uomo è tanto con l'animo intento a qualche oggetto, ch'altro non vede, né ode, né ad altro può pensare, perché essendo l'anima, solo da quale i nostri sentimenti son vivificati, in esso oggetto occupata, noi restiamo quasi come fossimo privati di quella, in forma d'un immobile peso. Et allor possiamo dire non esser più noi, ma nell'oggetto de l'anima nostra trasformati. Onde, avendo il Poeta volto tutto l'animo a Madonna Laura, la quale era il suo oggetto, per questa ragione dice essersi in Lauro trasformato. Onde, nel terzo cap. del triompho d'amore: E so in qual guisa l'amante ne l'amaro si trasforma.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, la sua trasformazione in lauro, che nella precedente abbiamo veduto, distinguendo come i capelli in fronde, e i piedi in radici, le braccia in rami furon trasformati. Onde ancora Ovidio in
frondes crines, in ramos brachia crescunt, per modo tam velox pigris radicibus haeret
. Com'ogni membro a l'anima risponde, come ogni membro alla sua anima si rende simile, et conforme, perché quando avea l'anima d'uomo, avea capelli, braccia et piedi, le quali membra tale anima rispondevano, ma avendo allora anima di lauro, avea frondi, rami e radici, membra ch'a tale anima ancora esse conforme erano. E questo dice non esser avvenuto sopra l'onde di Peneo, fiume di Tessaglia, dove in tale arbore Dafne fu trasformata, ma sopra l'onore d'un più altiero fiume, intendendo di quelle del Rodano, per lo fiume dinotando il luogo. Ma dice che non meno di questo essersi trasformato il lauro l'agghiaccia et spaventa, l'essere poi coperto di bianche piume, l'esser divenuto pallido e smunto, allora che 'l suo sperare giacque fulminato, alludendo alla favola di Cigno, Re di Liguri, mutato nell'uccello del suo nome, poi che giunto al Po per ritrovar il temerario Phetonte, suo parente, che fulminato da Giove v'era dentro caduto, iratamente di Giove si dolea, recitata da Ovidio, nel 2. libro de
Metamorpho
. Ma in che modo il suo sperare, a similitudine di Phetonte, fosse fulminato, è da intendere, sì come ancora di sotto più chiaramente dirà, che 'l Poeta, mosso dal suo troppo sfrenato amoroso desiderio, si propose voler un dì richieder Madonna Laura di quel che più da lei desiderava, la qual cosa solamente era ch'ella fosse verso di lui della vista de' suoi dolci occhi più graziosa e benigna di quello ch'era, come vedemmo in Madonna lassa il velo o per sole o per ombra, ove del velo, che la vista di quelli toglieva, dice, Quel che più desiava in voi m'è tolto, et in quella Canzone, Gentil mia donna i' veggio certo 'l fin de' miei pianti, che non altronde il cor doglioso chiama, vien da' begli occhi al fin dolce tremanti ultima speme de' cortesi amanti; ma più chiaramente in quel Sonetto, Donna, che lieta col principio nostro, fatto in morte di lei, ove dice: E sentì che ver te il mio cor in terra tal fu, qual ora è 'n cielo, e mai non volsi altro da te, che 'l Sol degli occhi tuoi sperando poterne l'effetto conseguire. Essendosi adunque per questo alla presenza di lei condotto, e forse avendone timidamente, come si debba credere, qualche interrotta parola cominciato a formare, ella di sua presunzione subitamente si turbò, e, con volto acceso di sdegno e d'ira, quel suo troppo temerario et ardito sperare fulminò. Ma egli poi ricercando, cioè investigando qual altra via per venir al suo disegno potesse tenere, e nessuna trovandone, come di tal cosa disperato, andava pingendo, e convertissi in Cigno, pigliando 'l suono di quello per lo suo dolce e soave canto de l'opere che di amor dolendosi componeva, e 'l colore, che del Cigno è bianco, per la pallidezza, così per gli amorosi affanni, divenuto.
Nella presente stanza, essendosi il Poeta trasformato in Cigno, com'abbiamo nella precedente veduto, dice ch'egli andava lungo l'amate (per rispetto di Madonna Laura) rive, intendendo di quelle della Sorga, o del Colon, che, cioè fra le quali rive dice che, volendo parlare, per esser fatto Cogno, cantava sempre imitando Ovidio, ove dice:
Quique d conabar dicere, versus erat
; chiamando del suo languir mercede, con estrania, con nuova voce, per esser fatto Cigno, ma che non seppe mai in sì soavi tempre, in sì dolci accenti, gli amorosi guai risonare, che potesse l'aspro e feroce e crudele cor di Madonna Laura umiliare. E qual fosse a sentire, cioè a provar il suo dolore, dice che lo dinota la ricordanza di quello, perché solamente a ricordarsene il cuore, ma che molto più il cuore la ricordanza di quello, che e per innanzi, che seguì poi, e che della sua dolce et acerba nemica Madonna Laura e bisogno ch'egli dica, et in sentenzia dice, che il cuore molto più il ricordarsi di quello, che dopo la sua trasformazione in Cigno Madonna Laura fece di lui, di che per disacerbar il dolore, bisognò che dica che non gli cuoce il ricordarsi de gli amorosi guai ch'allora provò, ben che 'l ricordarsi di questo c'ha da dire sia tale ch'avanzi ogni parlare, tanto vuol inferire che fosse lo strazio che di lui fece poi, come nel procedere udemo che dirà. Onde dice che Madonna Laura, la qual fura gli animi col mirare, gli aperse con quello il petto e persegli il cuor con mano, dicendo che di ciò non dovesse far parola. La qual cosa altro non significa, se non ch'essendo egli alla presenza di lei, per volerla pur ancora pregare, et ella conoscendolo dentro nel concetto ch'a questo era disposto, col mostrarse in vista turbata, assai bene gli fece intendere che non dovesse parlare. Onde poi un'altra volta, rivedendola egli sola in altro abito, cioè non più turbata, ma baldanzosa et allegra, come quella la qual non credeva ch'egli dovesse aver di più richiederla, avendogliel già per due volte con la vista turbata negato, et egli da l'amoroso appetito spronato, vedendosi la commodità, e pensando che quantunque ella gliel'avesse con la vista turbata negato, di non farle però, richiedendola, dispiacere, non conoscendo bene qual fosse dentro l'animo di lei, deliberò che cosa dovesse seguire, volerle aprir il desiderio suo, quello che per lo troppo timore non ave a ancora ardito di fare, quantunque timidamente e con paura lo facesse. E così cominciò a pregarla, onde ella, nella sua usata figura, cioè turbata e verso di lui irata tornando, gli rimase per lo terrore, che da tal turbata vista prese in forma d'uno immobile sasso, per la qual cosa esclama al suo umano e visivo senso, quasi riprendendolo, che per gli atti esteriori di lei si fosse tanto ingannato che non avesse saputo conoscer l'interno suo volere, alludendo in questo luogo alla favola di Bato pastore, da Mercurio in un sasso trasformato, recitata da Ovidio, nel 2. libro del
Metamorphosis
.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, lo sdegno di Madonna Laura, per le parole della qual verso di lui iratamente dette, dice che dello spavento tremava, e parevagli nessuna altra vita esser tanto miserabile quanto quella, nella qual allora si vedeva esser condotto. Onde, per minor male, prega Amore che lo torni a fare lagrimare, come prima sole a fare. Et ultimamente, essendosi pur alquanto spettato, et avendo scacciato da sé il timore, et da Madonna Laura, benché più in potestà della morte che della vita partito, non potendosi col tacere, et meno col gridare, per essergli dal timore interdette, gridò con carta e con inchiostro, cioè scrisse Madonna Laura come Biblis a Cauno, la cui favola vedremo nella seguente Stanza seguitare dicendo ch'egli non era di se stesso, la qual cosa vedremo in quel Sonetto, Mille fiate, o dolce mia guerriera, e che s'egli moriva il danno sarebbe di lei, della quale egli era, essendosi in lei, come di sopra veduto abbiamo, trasformato. et che quasi infiniti luoghi de l'opera questo medesimo viaggio ave a voluto significare.
Il Poeta, nella presente stanza, seguita il proposito delle due precedenti, cioè a dire dello sdegno che Madonna Laura seco ave a, e come per lo continuo pianto si trasformò in fonte. Onde dice ch'egli si credeva alla presenza di lei, et mediante i suoi umilissimi preghi, d'ingegno ch'era, farsi della dolce vista di lei degno, et che questa speranza l'ava fatto ardito, e datogli animo di doverla pregare, ma ch'egli s'era da poi avveduto che l'umiltà talor spegne 'l disdegno, talor l'infiamma, et fallo crescere, dov'abbiamo ad intendere che quasi sempre suo svenire, ch'essendo una persona generosa, e gentile d'alcuna cosa, purché giusta, et onesta sia, et in sua facoltà di poterla fare, con umiltà pregata, posto che egli abbia col pregatore qualsivoglia gravissimo sdegno leggermente deponendo ogni ingiuria, gliela concederà, ma se di cosa ingiusta, e non onesta, la ricercherà, non gliela conceda, ma, per sentirsi raddoppiar l'ingiuria, farà cagione d'infiammarle lo sdegno più che prima non era. Avea dunque il Poeta, come di sopra nella 3. Stanza abbiamo veduto la prima volta, o voluto pregar Madonna Laura, della qual cosa ella s'era gravemente sdegnata, ma egli immaginandosi con umile e belle parole poteva placare, et ultimamente ancora disporla a far la voglia sua mise tal cosa in esperientia; il che fu cagione di farla più gravemente sdegnare: come quella che veniva ricercata di cosa che premeva 'l suo onore, perché quando ella se gli fosse mostrata tanto benevola, e graziosa quanto ch'egli desiderava, avrebbe dato leggermente da sopportar alle persone di quelle cose, che non erano. Onde nel 2. Capitolo del triompho di morte, Perché a salvar te e me null'altra via era nostra giovinetta fama, né per sferza è però madre men pia. Adunque, seguendo effetto contrario a quello ch'egli si credea, che se di cosa onesta l'avesse ricercata deponendo 'l primo sdegno, gliel'avrebbe conceduta. E questo dice averlo saputo lunga stagione, lungo tempo da poi vestito di tenebre, avendo perduto per suo difetto la vista di lei, ch'era 'l suo lume talmente che per lo dolore datosi al continuo piangere. accasando il fuggitivo raggio, cioè dolendosi del fugace lume, che dal bel viso do lei usciva, che per lo sdegno conceduto, se li nascondeva, finge, per la gran copia delle lacrime, essersi trasformato in fonte, alludendo, come di sopra abbiamo detto, alla favola di Biblis, figliola di Mileto, la quale non potendo il suo disonesto appetito col fratello Cauno conseguire, fu per lo lungo pianto, come recita Ovidio nel 9. del
Metamorphoseos
, in fonte trasformata.
Dimostra il Poeta, nella presente Stanza, ch'essendo Madonna Laura stata un tempo per lo sdegno concepito contra di lui, del quale abbiamo nelle precedenti detto, che non gli aveva fatto per un segno di benevolentia che, mossa a pietà di lui, si volse degnar di mirarlo, e conoscendo per lo suo mesto aspetto, che la pena, la qual dello sdegno di lei egli avea partito, andava di parti col peccato, che 'n richiederla aver commesso, benignamente lo riducesse nel primo stato della grazia sua, a similitudine di quello che usa di far Iddio col peccatore, ma che pretendendo egli pur ancora poi al desiderato fine, et tornato di nuovo a ripregarla, ella con l'usato sdegno lo convertì in felice et ignuda voce, a dinotare per la pietra felice, la qual rossa, et che fa fuoco, il suo ostinato amoroso errore, la vergogna ch'ebbe di lei, per le parole verso di lui iratamente dette, et il suo amoroso incendio, la ignuda voce per dimostrar che altro non era di lui rimaso, che 'l suo continuamente querelarsi d'amore, alludendo alla favola d'Echo, narrata da Ovidio nel terzo del
Metamorphoseos
, ove dice,
Vox tantum atque ossa supersunt, e più oltre, Vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram
.
Essendo il Poeta infelice trasformato, et altro che la sola voce a similitudine d'Echo, come ne la precedente stanza abbiamo veduto, non essendogli rimaso, ora in questa tal trasformazione e favola seguitando, dice che molti anni da poi piangendo il suo temerario e troppo sfrenato ardire con Madonna Laura usato, avea col doglioso et errante spirto solitarie e deserte spelonche cercato, volendo inferire che per essersi Madonna Laura sdegnata seco, egli era molto tempo dipoi per luoghi deserti e solitari errando andato. Et ancor poi ponendo fine a questo suo male, esso sporto tornò nelle membra sue terrene, ma che crede fosse per maggior dolor di lui, perché un poi ancora la sua amorosa caccia seguitando, mostra aver trovato un dì Madonna Laura, che in una fonte ignuda, quando 'l Sole ardea più forte, si stava, e ch'egli, come colui che d'altra vista non rimaneva soddisfatto, stesse a mirarla, di ch'ella ebbe vergogna, e che per farne vendetta, o veramente per celarse, gli sparse l'acqua nel viso. Onde, a similitudine d'Ateo, alla cui favola allude, fu in cervo trasformato, dove abbiamo da notare che, sì come vegliamo negli altri luoghi della presente Canzone, il Poeta tocca alcuni effetti tra lui e Madonna Laura seguiti. Così ancor in questo luogo, sotto mirabile finzione, narra di quello di quando fu trovata da lui che piangeva, come in quel Sonetto, Non fur mai Giove e Cesare sì mossi, e nei quattro a quello seguenti abbiamo veduto, del qual pianto, come cosa ch'egli se l'ava al cuore scritta, e com'egli stesso in essi Sonetti afferma non poterselo dimenticare, abbiamo veduto che n'ha fatto ancora mentione nella 5. Stanza della Canzone, In quella parte dove amor mi sprona. Adunque per la fonte intenderemo il corpo di lei, ch'allora era 'l fonte delle sue lagrime. Onde nella 4. Stanza di quella Canzone, Qual più diversa e nuova, di se stesso parlando, Che son fonte di lagrime e soggiorno, per lei, la sua anima, delle cui passioni le lagrime erano generate nel fonte, dentro al qual ella si stava. Et questa divisione, da una interiore ad una esteriore Laura, veggiamo che la fa ancora in altri luoghi, come in quel Sonetto, Il mio avversario, in cui veder solete, ove dello specchio dolendosi dice, Per consiglio di lui Donna m'avete scacciato del mio dolce albergo fuora, misero esilio, avenga ch'io non fora d'abitar degno, ove voi sola siete; et in quell'altro, Laura celeste, che 'n quel verde lauro Spira, ov'amor ferì nel fianco Apollo; et in quella Canzone, Gentil mia donna i' veggio, ove, di se stesso parlando, dice: Aprasi la prigione ov'io son chiuso, intendendo per se stesso l'anima, e la prigione per lo corpo, dentro al quale essa anima era chiusa. Era ignuda perché, mediante le lagrime e'l lamento, face a noto e manifesto di fuori quali e quanti fossero dentro l'amare sue passioni. Onde in quel Sonetto, Così potess'io ben chiuder in versi, degli occhi di lei, e di se stesso parlando, dice: di fuori e dentro mi vedete ignudo, ben che 'n lamenti il duol non si riversi. Ma ella che 'l suo dolore riversava in lamenti e lagrime, tanto maggiormente era agli occhi del Poeta ignuda, Quando 'l Sol più forte arde a, cioè quando egli del bel viso di lei, inteso per lo suo Sole, era più arso et infiammato. Onde in quel Sonetto, Quando mi vien innanzi 'l tempo e 'l loco, quel Sol, che sola agli occhi miei risplende, coi vaghi raggi ancor indi mi scalda, a vespro tal, qual era oggi per tempo, e così di lontan m'alluma e 'ncende; et in quello, Laura gentil, che rasserena i poggi, pur d'esso suo sol parlando, lo chiederei a scampar non arme, anzi ali, ma perir mi da 'l ciel per questa luce, che da lunge mi struggo, e d'appresso ardo, ond'ella ebbe vergogna d'esser da lui veduta piangere, overamente ch'egli la cagion del suo pianto conoscesse. Onde, per farne vendetta, o per celarse, gli sparse con le mani l'acqua nel viso, perché , ponendosi ella le mani davanti agli occhi, fu cagione ch'egli per lo dolore ch'ebbe di vedersi della vista di quelli privare, spargesse le lagrime per lo viso, come ancor in quel Sonetto, Mia ventura et amor m'avean sì adorno, ove dice, per far almen di quella man vendetta, che de gli occhi mi trae lagrime tante; et in quell'altro, O cambretta, che già fosti un porto, o letticiuol, che requie eri, e conforto, in tanti affanni, di che dogliose urne ti bagna amor con quelle mani eburnee, solo ver me crude gli a sì gran torto. Per l'essersi di selva in selva in cervo trasformato, stando sempre nella Metaphora della favola, dinota la sua selvatica vita, che per tal dolore d'uno in un altro solitario, e selvatico luogo, come fanno le fiere andando, usava tenere. Et ancor de' miei can fugo lo storno. Et ancora de' miei mordaci et pungenti mesti pensieri fuggo la moltitudine. L'opinione d'ogn'altro è che il Poeta con effetto trovasse un dì Madonna Laura che 'n fonte si lavava, accomodandone il principio di quella Canzone, Chiare, fresche e dolci acque, ove le belle membra, pose colei, ch'a me sola par Donna. Ma di coloro, che di questo Poeta non fanno altra professione, non mi meraviglio ma di quelli che mai non freon altro che studiarlo, et che quasi pubblicamente l'hanno letto, et leggono, et stupisco.
Ha il Poeta, nelle precedenti Stanze, dimostrato essersi in diverse e varie forme trasformato, per significare diversi casi, et accidenti che in mar Madonna Laura gli erano avvenuti, come nel suo luogo abbiamo di ciascuno di quelli particolarmente veduto. Ora, in questa ultima, altro in sententia non vuol significare se non che per tante et diverse forme cangiare, non però poté giammai trasformarsi in forma, ch'egli come fece Giove, trasformato in nube, et pioggia d'oro, di Danaes figliola d'Acrisio Re d'Argo, potesse Madonna Laura il desiderato effetto conseguire. Ma ben dice esser stato fiamma, e non come Giove che 'n tal forma conseguì l'amor d'Esopida, la cui favola tocca Ovidio nel 6. del
Metamorpho
. Onde dice:
Et Esopida luserit ignis
. Ma fu fiamma accesa d'un bello et amoroso sguardo. E fu l'uccel, che, pioggia, che sale più per aere, intendendo de l'aquila. E non perché egli rapisse Madonna Laura, come Giove in tal forma fece Ganimede, la cui favola recita Ovidio nel 6. del
Metamorpho
, ma alzando 'l nome di lei, ch'egli ne' suoi detti onora.
Avere a sdegno invece di sdegnare.
Il corpo è scorza dell'anima.
Ver è verso, usa il Poeta.
Allentare.
Come ci trasformiamo.
Ogni membro come alla sua anima si rende conforme.
Favola del Cigno.
Sorga è Colon.
Per inanzi, che seguì poi.
L'aura col mirar turava gli animi.
Favola di Bato pastore.
Riedi, torni.
Favola di Biblis.
Vestir di tenebre.
Perché il Petrarca così spesso usasse faggio, lo ricerca sottilmente Giulio Camillo.
L'anima da Dio fatta gentile.
Quello ch'usa di far Dio col peccatore.
Favola di Echo.
Favola di Atheone.
Il corpo è prigione dell'anima.
Opinion di alcuni.
Favola di Giove trasformato in pioggia d'oro e in fuoco.
Nella presente moral Canzone, il Poeta tre cose volse in sententia significare, la prima di che età, la seconda in che luogo egli e Madonna Laura erano, quando di lei si innamorò, la terza quanta difficoltà gli fosse il potersi da tal amor liberare. Onde, in questa prima Stanza, dice il Poeta aver voluto significare di che egli era, quando a principio andò ad abitare, overamente che per qualche giorno s'andò a riportare a Valclusa, dove poi di Madonna Laura s'innamorò, et per questi tre dì aver voluto significare le tre prime età dell'uomo, cioè l'infanzia, la puerizia, et l'adolescenza, le quali, insieme con tutte l'altre, Aristotile, seguitando l'opinione d'alcuni Poeti, parte per lo numero settenario, a ciascuna delle tre già dette dando sette anni, che fanno il numero di 21. Poi, due settennari ne pone alla gioventù, ch'arrivano al numero del 35, due alla virilità, ch'aggiungono a 49. Et ultimamente il resto, ch'a la vecchiezza contribuisce, parte in settennari, ch'aggiungono a' 60 anni, al qual tempo vuol che termini la vita umana, e se più si vive, tutto alla decrepita, che non è altro che fastidio, e stento da lui applicato. Né egli solo è che, l' età abbia voluto per li prigioni significare, ch'ancora Horatio, nella 6. Ode del 3. libro, ove dice:
Damnosa quid non imminuit dies, per quei medesimi l'intese
; et S. Augu. nel 4. cap. del 3. libro
De trinitate
, figura l'età del mondo per li sei giorni che Iddio consumò a far l'opera sua, dove, parlando della perfezione di questo sesto numero, dice:
Cuius perfectionem nobis sancta scriptura commendat in eo maxime, quod Deus sex diebus perfecit opera sua, et sesto die factus est homo ad imaginem Dei, et sexta aetate generis humani filius Dei venir, et factus est filius hominis, ut non reformaret ad imaginem Dei. Et quippe nunc aetas agitur, sive milleni anni singulis distribuantur aetatibus, sive in divinis literis menorabiles, atque insignes quasi articulos temporum vestigemus, ut prima aetas inveniatur ab Adam usque ad Noe. Inde, secunda usque ad Abraham, Et deinceps sicut Mat. Evang. distinxit, ab Abraham usque ad David, a David usque trasmigrationem in Babyloniam, Atque inde usque ad virginis partum
, dice adunque il poeta che tre dì anzi, cioè tre età prima, intendi ch'egli entrasse in quel bel bosco, era creata anima in parte, cioè in luogo, da por sua cura in cose altiere e nove, in cose altiere e rare, intendendo de l'anima di lui, la qual tre età prima ch'egli entrasse in quel bosco, era stata creata in cielo da Dio, perché essendo egli, quando entrò in esso bosco, e che di Madonna Laura si innamorò, come nella vita di lui abbiamo dimostrato, al fine della adolescenza et al principio della gioventù, tre età innanzi inteso per le prime tre, delle quali abbiamo di sopra detto, prima ch'egli nascesse la sua anima veniva ad esser stata creata in cielo da Dio, essendo l'anima razionale, secondo l'opinione di Platone e di molti altri Philosophi, e', come ancora la religione chiamava, tiene in quel punto creata da Dio, e nella Donna infusa, che 'n lei è generata, mediante il seme de l'huomo, la materia del corpo.
E perché tutte sono d'una medesima perfezione e di natura divina create, sono se stesse, come della sua dice 'l Poeta, da por sua cura in cose altiere e nove, et dispregiar di quel ch'a molti è in pregio, intendendo degli onori e delle ricchezze del mondo, che non solamente da molti ma de tutti par che oggi sieno apreggiati. Questa ancor dubbia del fatal suo corso, questa ancor dubbi di quello che di lei dovesse essere, e quello che seguir ne dovesse, per non aversi ancora proposto, come vuol inferire, un fine, essendo ancora (come dice) pargoletta, semplice et incauta, ma sciolta e libera da potersi propor qual fine piaceva a lei sola; e fra se stessa sopra ciò pensando, entrò di primavera in un bel bosco, di primavera rispetto alla sua età: perché essendo, com'abbiamo detto, al fine della adolescenza, allora cominciava a fiorire, et alla stagione, onde ancora in quella Canzone, Tacer non posso e temo non adopre, ch'era de l'anno, et di mia etate Aprile, in un bel bosco, rispetto al bello e solitario paese, nel quale Valclusa dov'egli andò ad abitare, a Cabrieres, donde Madonna Laura era, co' vicini luoghi son posti, e dev'egli de l'amor di lei, come nella seguente Stanza vedremo, fu preso. E ch'egli intenda il bosco per solitudine, lo veggiamo in molti altri luoghi de l'opera, come in quella Canzone, Standomi un giorno solo alla finestra, ove dice: In un boschetto nuovo i rami santi fiorian d'un lauro giovanetto e schietto; et in quell'altra, Chiare, fresche, e dolci acque, ove alla Canzone parlando dice, Se tu avessi ornamenti quant'hai voglia, potresti arditamente uscir del bosco e gire in fra la gente; et in fine di quell'altra, Se 'l pensier che mi strugge. O poverella mia come sei roza. Credo che tel conosci, rimanti in questi boschi, et in fine di quella, Non ha tanti animali il mar fra l'onde; Canzon nata di notte in mezzo i boschi, e generalmente di tutti gli altri, nella terza Stanza di quella, Mai non vo più cantar com'io solea, dicendo, I' mi fido in colui che 'l mondo regge, e che' seguaci suoi nel bosco alberga.
Ha il Poeta, nella precedente stanza, dimostrato che, quando entrò in quel bosco, egli era al fine della sua adolescenza et al principio della gioventù. Ora, nella presente, mostra in che età allora Madonna Laura era, quando in quel bosco trovandola, fu allacciato e preso del suo amore, onde dice che 'l giorno avanti ch'egli in quel bosco entrasse, v'era nato un tenero fiore, adunque Madonna Laura, che per questo tenero fior è intesa, essendo fino allora cresciuta solamente in erba, veniva ad esser ancora ne l'età della pueritia, che va inanzi a quella dell'adolescenza, al fine de la quale (come detto abbiamo) il Poeta era, quantunque ancora lei fosse presso al fine d'essa pueritia, come nella sua origine fu dimostrato, et era tenera, perché pur allora nel suo delicato viso, inteso propriamente per lo tenero fiore, come ancor in quel Sonetto, Amor et io sì pien di meraviglia, abbiamo veduto, cominciano le sue bellezze a fiorire. E la radice e la persona, fuori de la quale esso tenero fiore usciva, era in parte nata, in parte cresciuta, per medesimamente la sua tenera età dinotare. Onde ancor nella v. Stanza di quella Canzone, in quella parte dov'amor mi sprona, e quella dolce leggiadretta scorza che ricopri a le pargolette membra, dov'egli alberga l'anima gentile. Che, il qual fiore anima sciolta non poeta pressare, perché ogni uomo, come vuol inferire, dalle sue bellezze e leggiadri modi, che sono le nuove forme de laccioli, rimaneva allacciato e preso, et il piacer che 'n quelli veder si pigliava, precipitava al corso, faceva strabocchevolmente correr le persone a farsi da quelli allacciare, che perché sì come altrove la libertà è da esser appreggiata molte ivi, cioè in quel luogo, per farsi servo d'una tanto eccellente cosa, era in pregio il perderla.
Di sopra, nelle due precedenti stanze, abbiamo veduto come il Poeta, essendo ancora dubbio del suo corso fatale, era andato nella solitudine del paese di Valclusa dove ha trovato Madonna Laura negli amorosi lacci, de la qual ogni uomo precipitosamente correva per farsi pigliare. Ora, in questa, tacitamente accenna il suo fatal corso essere stato ch'ancora egli de l'amor di lei dovesse esser (come mostra che fu) preso, acciocché per le sue lodi scrivere, si dovesse a poeti e filosofi studi. Onde ancora nella prima stanza di quella Canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, a tal proposito dice, Nella bella prigione, ond'ora è sciolta, Poco era stato ancor l'alma gentile, Al tempo che di lei prima m'accorsi, Onde subito corsi (ch'era de l'anno e di mia etate Aprile), A coglier fiori in quei parti d'intorno, Sperando agli occhi piacer sì adorno, Domandala adunque, quasi con accento di dolore, Capo, pregio, per esser (come vuol inferire) cosa pregiata, e cara, Dolce per lo piacer che 'n vederla pigliava, Alto per la sua eccellentia, Faticoso, essendo difficile impresa il volerlo conseguire, come fino allora egli vi s'era invano affaticato, Che tosto mi volgesti al verde bosco, Questo intende, non per quel medesimo che di sopra abbiamo veduto, ma per la selva amorosa, della quale dicemmo in quella Canzone, A qualunque animale alberga in terra, E a la quale, secondo la Virgiliana opinione, sono volti et inviati tutti coloro ch'a le cose Veneree si lassano da l'appetito o in atto o con l'animo trasportare, come di se stesso, mediante le bellezze di Madonna Laura, vuol il Poeta inferire. Il qual bosco è usato di sviarne, e di trarne fuori della dritta via dietro alle vane speranze, A mezzo 'l corso della vita, Intendendo sotto questa finzione quel medesimo che 'ntese Pithagora nella lettera Y figurando per quella tutta la vita umana, perché questa lettera ha nel principio una sola linea finché giunga alla forca, dove si divide in due, l'una segue a drittura alla destra, l'altra torce a sinistra. Il proceder per la sola linea vuol tanto il Filosofo che sia di tutti gli uomini fino agli anni discreti, perché fino allora vaghiamo per le tenebre de l'ignorantia, né è da attribuire a perfetta virtù, né ad intero vitio alcuno nostro operare, per esser scusabile ignorantia senza vera elettione. Ma, giunti a questo passo, che dinota noi esser alla nostra perfetta età pervenuti, et che mediante la ragione discerniamo la virtù dal vitto, se per la destra linea pigliamo il cammino, siamo da quella a l'habito della virtù, nel qual consiste la nostra felicità, condotti; s'a la sinistra torciamo da lei siamo a l'habito del vitio, nel qual è riposta ogni nostra miseria, guidati, onde 'l Poeta medesimo in quella Canzone, I' vo pensando, e nel pensier m'assale, Come che il perder fece accorto, e saggio vo ripensando ov'io lassai il viaggio Dalla man destra, ch'al buon porto aggiugne. Dice dunque questo bosco esser usato disviarne a mezzo il corso, perché sono più coloro che, giunti a quel passo, lassandosi, come ciechi, vincere dalle terrene dolcezze, torcono a sinistra, che quelli che, seguendo la ragione, tendono a destra per la dritta, et buona. Onde, essendosi ancor egli volto per la via del bosco, ben che ancora non fosse ne l'habito incorso, dice aver fatto tutti i rimedi possibili a fare per ritrarne l'animo, provati i versi, cioè le parole, le pietre E sughi di erbe nuove, et sughi d'erbe rare, in che sogliono le virtù contenersi, ma che nulla, come dirà nella seguente Stanza, gli era giovato, quasi imitando Ovidio, dove in persona d'Apolline dice:
Hei mihi quod nullis amor est medicabilis herbis, Nec prosunt domino, quae prosunt omnibus artes
.
Avendo il Poeta, nella precedente stanza, dimostrato esser da l'amor di Madonna Laura a l'amorosa selva stato volto, et aver fatto tutti i rimedi per voler da quella l'animo ritrare, ora in questa mostra esser del tutto fuori di speranza di poterlo, se non per morte, liberare come quello ch'avendo torto a sinistra, già gli parea vizioso habito esser incorso. Onde dice ora vedere, che la carce, che 'l suo corpo serà prima sciolto da quel nodo. Onde, cioè per lo quale il pregio d'essa carne è maggiore, intendendo di quel legame che 'l corpo ha con l'anima, per lo qual solamente esso corpo vien ad esser apprezzato. Et in sententia dice che 'l suo corpo serà prima sciolto da l'anima, et in terra, come vuol inferire, risoluto, ch'alcun rimedi sia che saldi le sue amorose piaghe, le quali egli prese in quel bosco inteso, per quel medesimo che nella prima Stanza abbiamo detto, Folto di spine, ripieno di nocivi impedimenti, A dinotar da quante dannose cagioni l'uomo è nella vita voluptuosa ritenuto, quando una volta vi s'è lessato incorrere, Onde dice ben aver tal parte in lui che n'esce zoppo, dove sì gran corso v'era entrato, che significa quanto legger cosa fia ad incorrere nel vitio, e quanto difficile a volersene poi ritrarre, Onde Virgilio:
Facilis descensus Averni, Sed revocare gradum superasque evadere ad auras huc opus, hic labor est
.
Volgendo il Poeta l'animo dalle oscurità del bosco liberare, come nella precedente Stanza dimostrato, seguita ora in questa il narrare quanto difficil cosa gli fosse il tornar indietro per la via mal tenuta da lui. Et, per non esser sufficiente per se stesso senza 'l divino aiuto, ricorre a quello, e veramente è tanto la nostra mente cieca, quando tutta l'abbiamo nella voluptà involta, che mai non potremmo per noi medesimi dalle tenebre della ignorantia liberarla, se non fossimo dal datore della illuminante gratia pietosamente soccorsi. Assimiglia questa misera vita, nella quale egli si trova essere, ad un bosco, perché, sì come 'l bosco è pieno d'impedimenti, che impediscono chi ne vuol uscire, così questa vita è piena d'infiniti vitij, che impediscono chi da quella infelice vuol passare.
Seguita il Poeta, nella presente stanza, ne' suoi preghi verso Iddio, dicendo che voglia guardar il suo misero stato, per mezzo le nuove, le rare, vaghezze che nel considerar le parti singolari di Madonna Laura erano nate in lui, le quali vaghezze, lo continuo stimolo che gli davano, dice che interrompendo, ch'abbreviando 'l corso di sua vita, l'avevano fatto abitatore d'ombroso, cioè tenebroso bosco, a dinotare la sua cieca mente, dietro le vane dolcezze terrene sviata. Onde ancora Dante, nel principio della sua prima cantica, Mi ritrovai per una selva oscura, pregando Iddio, che gli voglia render la sua errante consorte anima libera, sciolta da gli amorosi lacci, ne' quali di sopra abbiamo veduto con quanto impeto volontariamente corse. Perciò, che se libera da quelli la può veder in miglior parte, intendendo seco in cielo il pregio, l'onore, sarà suo, volendo inferire ch'egli per se stesso non è sufficiente a poterlo fare.
Conclude il Poeta, nella presente ultima stanza, che queste sono in parte le sue nuove questioni, cioè se pregio, se valore, alcuno di ragione vive più in lui, overamente, se quella in tutto è cosa, cioè da lui divisa, o se l'anima è sciolta da lacci delle umane passioni, o ritenuta da quelle nell'oscurità del bosco.
Horatio nelle Odi.
Anima quando è creata da Dio.
Pargoletta, picciola fanciulla.
Fior tenero, inteso per la pueritia di Madonna Laura.
Valclusa.
Selva amorosa secondo Virgilio e Ovidio.
Vita voluptuosa. Virgilio.
Gratia illuminante.
Dante.
Seguita il Poeta, nel presente Sonetto, il suo lamento, esclamando alla sua cameretta, et al suo letticiuolo, ch'era in quella ove già la notte soleva posare e qualche conforto pigliar de' suoi amorosi affanni, che 'l giorno sofferto avea, mostrando che allora tutto per lo contrario seguiva. Urne propriamente appresso degl'antichi erano quei vasi, ne' quali riponevano le ceneri de' corpi morti, ma per certa similitudine, il Poeta, in questo luogo, l'intende per li suoi occhi, perché erano ricettacolo delle sue dolorose lagrime, delle quali amore, cioè Madonna Laura con l'Eburne, cioè come avorio bianche, e delicate mani bagnava esso letticiuolo. Et erano verso di lui tanto crudeli, perché tra la sua vista, et i begli occhi di lei spesse volte s'interponevano. Onde ancor in quel Sonetto, Mia ventura et amor m'avean sì adorno, per far almen di quella man vendetta, che de gli occhi mi trae lagrime tante. Et quell'altro, Orso e non furon mai fiumi né stagni, e d'una bianca man anco mi doglio, ch'è stata sempre accorta a farmi noia, e contra gli occhi miei, s'è fatta scoglio, il suo secreto, la cameretta, e il suo riposo, il letticiuolo, cerca per suo rifugio l'inimico e odioso volgo, quello ch' in altri luoghi ha detto fuggire per discacciar da lui gli amorosi pensieri che lo consumano.
Urne, quelle che erano appresso gli antichi.
Eburne deriva da ebur, voce latina, che è quanto appresso noi avorio.
Mostra il Poeta, nel presente sonetto, desiderar di potersi vendicar del distruggimento, che gli veniva dal guardar, et dal nascondersi da lui, che Madonna Laura alcuna volta faceva, la qual cosa dice che egli era cagione di mai non poter la notte posare, essendogli ella sul cuore, a similitudine d'un Leon che rugge, soggiungendo che l'anima, cui, la quale, morte caccia, cioè suol cacciare del suo albergo, intendendo del cuore, per esser, come molti vogliono, l'albergo, et sedia di lei, si parte da lui et sciolta dal nodo della carne o, vogliamo dire, del corpo, se ne va pur a lei, cioè a Madonna Laura, che del suo troppo temerario ardire la minaccia. E dice meravigliarsi s'alcuna volta quando, mentre essa sua anima le parla, e piagne, et poi l'abbraccia, se vero è ch'ella l'ascolte, non le rompe 'l sonno.
Duolsi il Poeta, nel presente Sonetto, dell'asprezza, selvatichezza, et crudeltà di Madonna Laura verso di lui usata, et del sempre pianger ch'egli faceva, mostrando nondimeno avere speranza d'ultimamente poterla umiliare. Onde dice che se essa asprezza, selvatichezza e crudeltà di lei durava più gran tempo, ch'avrebbero di lui poco onorata spoglia, cioè poco onorata vittoria, volendo inferire che per lo soverchio affanno egli se ne morrebbe, di che a lei poco onore, e meno utile ne seguirebbe. E questo perché d'ogni tempo e nel continuo piangere ch'egli facea, s'andava consumando. E ben dice aver onde, cioè cagione per la quale della sua rea ventura, di Madonna Laura e d'amore egli s'abbia da dolere, mostrando solo una speranza esser quella che lo tien in vita, la quale per ricordarsi d'avere veduto un poco umore di liquida e molle acqua, la qual sopra un duro marmo, o altra salda pietra, per continua prova battendo, averla ultimamente consumata e vinta. Onde Ovidio, nel primo de
arte Quid magia est durum faxo, quid mollius unda? Dura tamen molli faxa cavantur aqua
. E non esser si duro e rigido cuore, che lagrimando, pregando, amando, talora non si venga a smovere, et a mostrar qualche segno d'umiltà, né si fredda voglia che non si venga a scaldare, ad imitazione di S.Augustinus contra de' Manichei, ove dice:
Nihil tam durum acque ferreum, quod non amoris igne vincatur
. Onde vuol inferire ch'ancora egli batterà tanto con le sue lagrime il duro et ostinato cuor di Madonna Laura, che spera di poterlo umiliare, e muoverlo a pietà di lui.
Ovidio.
Agostino.
Mostra l'innamorato et appassionato nostro Poeta, nel presente Sonetto, esser per la sua amorosa fiamma alla morte vicino, e quantunque sia in facoltà di Madonna Laura, dal cui candido e bel viso tal fiamma, intesa per lo suo ardente amoroso desiderio, veniva con una doppia colonna di pietà e d'amore di poterlo dal colpo mortal difendere, nondimeno per conoscer nella vista di lei, ella non esser disposta a volerlo fare, esserne fuori di speranza. E di questo dice non incolpandone lei, essendo, come vuol inferire, la sua natura pietosa, ma la sua rea e crudele ventura, che lo permette. Onde, ancor in questo Sonetto, Lasso ch'i' ardo et altri non me 'l crede, se non fosse mai stella i' pur devrei al fonte di pietà trovar mercede.
Mia ventura si ha da intender rea, o a prendere ventura per disavventura.
Narra il Poeta, nel presente sonetto, la misera condizione del suo infelice stato, nel qual si trova esser per amor condotto, con la durezza e crudeltà di Madonna Laura verso di lui usata, perché del suo adamantino cuore dice non poterne levar, né cosa trarre ch'egli desideri, somigliando 'l resto di lei, per tal sua durezza et ancora per la bianchezza, ad un vivo e candido marmo. E nondimeno conchiude che, per disdegno e crudeltà che ella mostri, non però gli torrà mai lo sperare e dolce sospirare che fa per lei. Il Reno è fiume che nasce negli Elvezzi, e perché corre tra popoli Germani posti a Settentrione, quasi ogn'anno il verbo agghiaccia talmente che alcuna volta, per lo spazio di tre mesi, vi passano sopra le carrette cariche.
Reno fiume, sua natura.
Seguitando il Poeta nelle sue querele, esclama contra l'invidia, chiamandola nemica di virtù, perché ogni vizio è nemico e contrario a quella. E, dolendosi di lei, le domanda per qual sentier, cioè per qual via, ella sia così tacitamente nel bel petto di Madonna Laura entrata, e con quali arti il muta, perché prima era, come vuol inferire, usata di mostrarsegli umana e piacevole, allora sé gli mostrava superba e disdegnosa, come nel precedente Sonetto ha similitudine dimostrato, tanto che ella era tutta verso di lui da quello ch'esser sole a mutata. Nondimeno, conchiude il medesimo che ha fatto in quello, cioè che pur tutto ciò ch'ella sappia fare, non farà ch'egli non l'ami e che non speri in lei, perché Amor di tanto l'affida, cioè l'assicura, di quanto ella col suo turbato e disdegnoso volto spaventa.
Affidare, assicurare.
Per quello che per l'ultima Stanza della presente Canzone giudicar possiamo, il Poeta la fece per volersi appresso di Madonna Laura scusar d'alcune parole che di lui egl'erano state referte, la sustantia delle quali era ch'egli aveva detto d'amar un'altra donna più che non amava lei, della qual cosa, come di sopra in più Sonetti abbiamo veduto, ella n'era seco forte sdegnata. Onde, in questa prima Stanza, facile per se stessa, la sua scusa cominciando, in sententia dice che s'egli il disse mai, che venga in odio a lei, dal cui amore la sua vita e morte dipendeva, che i suoi giorni sian pochi et infelici, e l'anima serva di vil signoria, che 'l cielo gli sia contrario, e sia dal suo lato paura e gelosia, et ella sempre verso di lui più feroce, e per maggior tormento ancor più bella.
Per la dechiaration della presente Stanza, per se stessa, diremo che l'aurate quadrella d'amore inducono a dover amare, e l'impiombate ad odiare. Adunque il Poeta dice che s'egli disse ch'amore spenda tutte l'aurate sue quadrella in lui, acciò ch'egli, come vuol inferire, abbia ancora ad amar Madonna Laura più veementemente di quel che fa, e spenda tutte l'impiombate in lei perché ella l'abbia sommamente ad odiare, e che s'egli disse ch'ogni cosa gli sia contraria, e Madonna Laura ogni hor più fella e dispettosa. La cieca faccela intende per la luce del bel viso di lei verso di lui turbato et oscura, con la qual dice, che s'egli il disse, così com'ella invia dritto a morte, si stia pur come suole, né si mostri mai verso di lui in atto, od in favella più dolce o pietosa di quel ch'allora faceva.
Seguitando il Poeta, nella presente stanza, le sue escusatione, e nelle cose che, s'egli il disse mai, si va augurando, dice che s'egli 'l disse, che trovi quest'aspra e breve via della presente vita piena di quelle cose, delle quali egli vorrebbe trovar meno, e del fiero amoroso ardore, che lo tira fuori della dritta via della ragione, cresca tanto in lei quanto 'l fiero ghiaccio, quanto la crudele gelata voglia in Madonna Laura che mai non possa veder sol chiaro nella Luna sorella d'esso Sole, come vedremo in quel Sonetto, Il figliol di Latona avea già nove, né Donna, né Donzella, ma solamente terribile et oscura procella simile a quella, della qual Faraone col suo esercito, nel proseguir il popolo ebreo fu sommerso nel mar Rosso, come nell'Esodo è contenuto e nella Bibbia al decimo quarto Cap. si legge.
Soggiugne il Poeta, nella presente Stanza, che s'egli il disse, che la pietà con quanti sospiri egli fece mai con la cortesia insieme, sia morta per lui, et il dir di Madonna Laura che sì dolce s'udia quando egli a tanta dolcezza si rendè vinto, s'inaspri e facciasi verso di lui duro, e crudele egli torrebbe adorare lei, la qual egli torrebbe adorare dal dì che lassò la mammella, il presente per lo passato pigliando, finché l'anima si svella, cioè si divida da lui, e la quale forse solo in fosca, in oscura cella torrebbe adorar, quello che 'n palese per esser, come vuol inferire, idolatria, non ardirebbe fare. Il resto va in questo modo ordinato: S'il dissi io spiaccia quella chi torrei adorar dal dì che lasciai la mammella, finché si svella l'anima da me, forse in fosca cella chiuso il farei.
Ha il Poeta, nelle precedenti canzoni, in sua scusa, detto quelle ree sententie, nelle quali vorrebbe incorrere, quando colpevol fosse d'aver detto quanto al principio della Canzone dicemmo, ora, nella presente stanza, di quello che vorrebbe seguisse , non avendolo egli detto, come vuol inferire che non avea, cioè che Madonna Laura lo reggesse ancora col governo della sua natural pietà, com'al principio del suo amor reggeva, né altra fosse verso di lui, che 'n tal principio era, biasimando non lei, alla qual biasimo non vuol pare, ma chi presto dimenticava tanta fede quanto la sua verso di lei, come vuol inferire, era stata.
Dice il Poeta, in somma, ch'egli non lo disse giammai, e per cosa del mondo non lo potrebbe dire, onde mostra desiderar che la verità sia conosciuta, con pregar amore che, se Madonna Laura ne domanda, ch'egli il qual fa ogni cosa di lui ne debba dire quel che debitamente egli è tenuto a dirne, e ch'egli, quando ne fosse domandato, direbbe tre, quattro, e sei volte, per più efficacemente dire: Beato chi, dovendo languire, si mori pria. Cioè, beato colui il quale, dovendo languire, si morì prima che languisse, per esser, come vuol inferire, molto meglio morir, che languire, imitando Virgilio nell'Eneide, ove dice: O tesque quaterque beati.
Tocca il Poeta, nella presente ultima stanza, per similitudine di se stesso, l'esempio del Patriarca Giacobbe, il quale, come si legge nel
Genesis
, contenuto nella Bibbia al 24 Cap., servì Labam sette anni, per aver la sua diletta e formosa Rachel, e non per Lia, sua sorella deforme e sozza, la qual dopo 'l suo servire de sette anni fu data in luogo di Rachel per inganno. Onde il Poeta ancor gli dice aver servito amando per Rachel, cioè per Madonna Laura, e non per Lia, e non per quell'altra donna, della quale, come nella prima Stanza dicemmo, era stato detto, ch'egli diceva d'amar più che non amava lei: Girmen con ella in sul carro d'Elia. Elia, secondo che si legge nel quarto libro del Re contenuto nella Bibbia, fu sommo vero profeta fra 'l popolo Ebreo, nel tempo che regnava Ioram, il qual Elia, venendo un giorno con Eliseo da Gerico al fiume Giordano, poiché quello ebbero passato, scese dal cielo un carro di fuoco con i cavalli, similmente di fuoco, nel qual salse Elia, e da quello fu portato in alto, né fu poi veduto. Sarebbe adunque contento il nostro Poeta, quando 'l ne rapella, quando partiamo di questa vita, d'andar con Madonna Laura sul carro d'Elia, cioè nel fuoco, tanto vuol inferire esser smisurato l'amore che le porta.
Proprietà delle saette di amore.
Ghiaccio fiera qui che significa. L'Esodo Bibbia.
Svella, divida, diparta.
Tosto, quel che i Latini dicono cito, usò sempre di dire il Petrarca et i buoni scrittori, e non mai presto.
Virgilio nel primo dell'Eneide.
Giacobbe Patriarca. Labam.
Rachel. Lia.
Elia. Eliseo.
Essendo Madonna Laura, per la cagione che nella precedente Canzone abbiamo veduto, contra il Poeta sdegnata, ora, nella presente, esso Poeta si duole che da lei gli sia negato il cibo della vista de' suoi begli occhi, non potendo egli come dimostrar senza quello vivere, e d'amore, ch'a tal termine l'abbia condotto che 'n quella sua quasi canuta etade lo faccia a modo d'insensato andar in volando gli sguardi di quelli da' quali, in un medesimo tempo, mostra d'esser nutrito et arso. Pur ultimamente conchiude esser sì dolce ogni suo tormento, che egli è disposto più che mai di voler nell'amorosa impresa perseverare. Onde, nella presente prima stanza, dice che egli si vedeva che, essendo giunto in quella matura età, di dover passar il tempo senza aver ad usare nell'amorosa pratica, altro studio e novi ingegni, più di quello che negli anni addietro usato avea, ma poi che non impetra da Madonna Laura l'usata aita della dolce vista de' suoi begli occhi, della qual egli si vivea, ch'Amor vede bene a quello che l'ha ridotto, segnandogli tal arte; che 'n quella matura e grave età lo fa divenir ladro del bello e leggiadro lume degli occhi di lei, senz'al quale, quando mai non l'avesse veduto, egli non vivrebbe in tanti affanni che vive. Onde, dice, non sapere s'egli s'ha da sdegnar d'aver pur allora ad imparare tal arte, mostrando desiderar in più tosto averla imparata ne' primi anni ch'egli s'innamorò, per esser men vergogna il fallir in gioventù.
Narra il Poeta, nella presente stanza, come nel principio del suo amore i begli occhi di Madonna Laura gli furon per sì fatto modo cortesi in sostentarlo, ch'egli si visse in guisa d'uomo, che non il soccorso delle proprie ricchezze ma il gelato, cioè secreto soccorso che per accidente gli vien di fuori, l'aita come quello il quale vuol inferire che da' begli occhi, della cui vista egli era aiutato, perché di quelli si vivea, veniva a lui talmente, che né loro né altre offese, perché graziosamente gli erano conceduti. E che ora, essendo lor venuto ingiurioso et importuno, egli è nella condizione del poverello, il qual, cacciato dalla fame, condiscende egli stesso alcuna volta a far cosa che, quando era in miglior stato, avrebbe biasimato altri che tal cosa avesser fatto. Onde si dice la necessità non aver legge. Però conclude che se l'invidia gli ha chiuso le mani di pietà, cioè se l'invidia fa che Madonna Laura non ha pietà di lui, che l'amorosa fama, la qual ha di pascersi della vista de' begli occhi, e 'l non poter alteramente fare, lo debba della sua importunità scusare.
Seguitando il Poeta, nella presente stanza, il proposito della precedente, dice aver cercato infinite vie per veder alcuna altra cosa che la vista di Madonna Laura lo potesse un giorno solamente tener vivo, ma invano, perché l'anima, non trovando ove potersi in altro luogo posare, torna pur all'angeliche faville de' begli occhi, et io dice che son di cera, et il mio corpo, il quale all'amoroso fuoco che da essi begli occhi mi viene, è di cera, torno a rivederli. Et a similitudine dell'uccello, che 'n quel luogo ove men si dubita, è più tosto colto, così io dove Madonna Laura si guarda meno, e dove dal mio vederla credo esser più sicuro, l'involo or uno et or un altro sguardo, de' quali insieme com'ha di sopra detto, mi nutro et ardo, vivo e medesimamente ancora mi consumo.
Strano e novo cibo è veramente il pascersi della morte, come 'l Poeta, nella precedente stanza, di se stesso ha dimostrato, et nella presente afferma, perché della morte si muore, ma il viver della morte non solamente è cosa strana ma soprannaturale, et il viver in fiamme mirabil Salamandra, perché, quantunque la Salamandra sia di natura frigidissima, se le fiamme fossero un poco possenti, ella s'arderebbe, e non vivrebbe, com'egli faceva, ma ch'egli viva non è miracolo, volendolo amore, non essendo gli amanti ad alcuna legge natural astretti. Onde in quel Sonetto, I' mi rivolgo indietro a ciascun passo, in persona d'Amore, non ti rimembra che questo è privilegio de' gli amanti, sciolti da tutte qualitati humane. Felice agnello alla penosa mandra, felice e giovanetto amante alla penosa corte d'amore, mi giacqui, mi posai, un tempo, et ora all'estremo della vita et fortuna et amore famme, cioè mi fanno, per ciascun di loro come suole fare, tenendomi pur come vuol inferire, in continui tormenti, come sono usi di tenermi. Onde s'accorge per l'esempio di lui, e di variar delle stagioni, che non si può in un felice stato lungamente durar. Per la qual cosa dice che, s'egli si procaccia al curto vivere quindi et quindi alimenti, quindi et quindi viste di lei, di che egli si vive, se si ricca Donna (potendo solamente della sua vista nutrir altrui) vol dir, che sia furto s'altri vive del suo, che cioè, talmente ch'ella non senta, che non le sia d'alcun costo, deve esser contenta, deve contentarsi ch'altri ne viva.
Afferma pur ancora il Poeta, nella presente stanza, viver et esser sempre, dal dì che vide la prima volta i begli occhi di Madonna Laura, della vista di quelli vissuto, e seronli (sic.) cangiar vita, perché lo levarono, come vuol inferire, dalla corte, et tiraronlo (sic.) in quella solitudine di Valclusa e filosofare. Onde, nella prima Stanza di quella Canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, nella bella prigione, ond'ora e sciolta poco era stato ancor l'alma gentile, al tempo che di lei prima m'accorsi. Onde subito corsi (ch'era dell'anno et di mia etate Aprile) a coglier fiori in quei prati d'intorno, sperando agli occhi suoi piacer sì adorno, e costumi, perché da poi furon di lui tutti altri di quello che fino allora erano stati. Onde nella quinta Stanza di quella Canzone, Gentil mia Donna i' veggio, perch'io veggio (e mi spiace) che natural mia dote a me non vale, non mi fa degno d'un si caro sguardo, sforzomi d'esser tale qual all'alta speranza si conface, et al fuoco gentil, ond'io tutt'ardo, e per dimostrar che sia possibil ch'egli si viva della vista di quelli, domanda Chi è quello che, per cercar da tutti lidi terra et mare, possa saper tutte l'umane tempre, tutte l'umane qualità, perché dice Ecco l'un vive d'odore la su 'l gran fiume, intendendo di quegli uomini mostruosi ch'a quel Sonetto, Si come eterna vita è veder Dio, dicemmo esser secondo Plinio a riva del fiume Gange, Io qui queto i miei frali, et famelici spirti di fuoco, e lume, Cose (come vuol inferire) che paiono impossibili, et nondimeno si vedono pur seguire. Ma, volgendosi ad amore, dice volerli ben dire, che l'esser sì parco, l'essersi in se stesso ritenuto, et avaro, come vuol inferire, ch'egli verso di lui, del suo soccorso si mostrava esser nel farlo morire, si disconvien a signore, perché i signori di natura dovrebbero esser larghi e magnanimi. Onde dice ch'egli il quale ha lo strale e l'arco, per la qual cosa viene ad aver non solamente signoria, ma poter ancora, debba farlo, non pur bramando la vita (sic.) de' begli occhi a poco a poco, ma la sua mano, mediante esso strale, et arco, ad un tratto morire, perché una bella morte, come amando vuol inferire, che sarebbe la sua, onora tutta la vita, onde ancor in quel Sonetto, Amor che nel pensier mio vive e regna , che bel fin fa chi ben amando muore.
Fa il Poeta, nella presente Stanza, comparazione della fiamma del fuoco al suo interno amoroso ardore, perché sì come quella, stando in se stessa ristretta et occulta, arde sempre con più forza, e se pur vien a crescere non può più star celata, ma si mostra a chi la vuol vedere, similmente dice ch'Amor vide bene quando egli del suo interno ardore arse sì tacitamente. Ma, essendo poi cresciuto, e non potendolo più celare, va per disfogarlo, noiando (sic.) de' suoi gridi tutti quelli che li odono, di che a se medesimo non ch'ad altri rincresce, esclamando al mondo, a' suoi vani pensieri, alla sua forte e crudele ventura, ch'a tanto misero passo l'adducono, et a quella vaga luce degli occhi di Madonna Laura, di che gli nacque al cuore quella tenace speranza, con la quale ella, mediante la forza d'Amore, cioè del suo amoroso affetto, l'annoda e preme talmente, che non può sciogliere. Onde la colpa dice esser di lor due, ma di lui solo, e non d'alcun altro, la pena.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, il lessato proposito della precedente, come di ben' amare egli porta tormento, e del peccato di Madonna Laura e d'amore, de' quali, come in fine di quella ha dimostrato, era la colpa del suo male, chiede perdono. Ma più drittamente estimando, dice pur del suo, perché, quando al principio si scontrò nella luce de' begli occhi di lei, dovea torcer in altra parte i suoi. E, come fece Ulisse per non udir il canto delle Sirene, così egli per non udir il suono delle dolci parole di lei dovea chiuder gli orecchi, avvenga ch'egli non si penta ancora che 'l suo cuore, per la memoria che gli n'è rimasa, trabocchi di tal dolcezza, a dinotare quanta forza abbia l'appetito più che la ragione in lui, ma ch'egli aspetta pur che l'ultimo colpo, che l'ultimo strale, che, il quale, gli diede 'l primo amoroso colpo, scocchi, cioè tragga, desiderando, per uscir di stento, per tale strale perire, dicendo che sarà un atto pietoso, non essendo esso colpo o strale disposto a far altro di lui, che quello che gli soglia fare, e perché bella morte fa colui che di doglia esce morendo.
Nella presente ultima stanza, il Poeta, alla Canzone parlando, mostra esser disposto più che mai al seguitar dell'amorosa impresa, riprendendo se stesso de' lamenti, che nelle precedenti ha fatto, tanto dice esser dolce la sua sorte, pianto, sospiri e morte, perché, sì come dicemmo in quel Sonetto, Dolci ire, dolci sdegni, dolci paci, tutto quello, che dalla cosa amata viene, all'amante è dolce. Et al lettore delle sue presenti rime, che al mondo non ha bene, che pareggi ne sia d'agguagliar al suo male. Onde ancor in quel Sonetto, Fiera stella se 'l cielo ha forza in noi, pur mi consola che languir per lei meglio è che gioir d'altra, etc.
A dietro, per il passato.
Impetrare, qui nel suo comune significato, ottenere.
Faville angeliche.
Nutrico, nutrisco. Usa la lingua toscana.
Salamandra di natura frigidissima.
Agnello felice, mandar penosa.
Conface, si conviene, è conforme.
Gange fiume.
Ventura, forze.
Ulisse, quello che fece per non udir il canto delle Sirene.
La presente Canzone il Poeta mostra averla fatta nel tempo della primavera, nella qual simile stagione a principio di Madonna Laura s'era innamorato, et nella qual si sentiva da gli amorosi pensieri tutto commuovere, avvenga che dell'amor di lei, perché ella non avea pietà di lui, mostra esser disperato. Onde, nella presente prima Stanza, quasi in quella forma, dice Che là verso l'aurora, quando che sì dolce l'aura, sì dolce il vento al tempo nuovo della primavera suol movere per li prati i fiori, e che gli uccelletti sogliono cominciar versi loro, ch'egli sente da Madonna Laura, in forza della quale sono tutti i suoi amorosi pensieri, quelli dentro all'anima sì dolcemente muovere, che gli convien tornar alle sue note, per li suoi dolorosi e lagrimosi accenti intese, perché in tale stagione ritrovandosi ne' petti degl'amanti l'amorose fiamme, come quasi tutte l'altre cose si vedono rinnovare, sono invitati, anzi costretti, dalla passione a doversi oltre all'usato dolore. Onde in quella Canzone, Qual più diversa, e nuova, di se stesso parlando, così gli occhi miei piangon d'ogni tempo, ma più nel tempo che Madonna vidi.
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, desiderar di poter temprar i suoi amorosi sospiri in sì soavi accenti ch'addolcissero verso di lui Madonna Laura. E com'ella, in mostrarsegli ritrosa, fa forza e torto a lui, così quelli in addolcirla e, come ragionevolmente vuol inferire, che 'l suo amor richiedeva, facesser ragione e dritto a lei. Onde in quella Canzone, Poi che per mio destino, questo medesimo volendo significare, dice: Mostrami almen ch'io dica Amor in guisa, che se mai percote gli orecchi della dolce mia nemica non mia, ma di pietà la faccia amica. Ma questo, per averne egli fatto tutte le prove, mostra esser impossibile che debba in alcun modo seguire.
Infinite lagrime versi, e mesti accenti mostra il Poeta, nella presente stanza, aver sparso per Madonna Laura umiliare, ma dice ch'ella si sta pur pertinace e dura com'aspra alpe alla dolce aura, la qual spirando può ben muover frondi e fiori, ma nulla dice che può se in contro ha maggior forza, s'ella scontra cose che stian più salde, com'essa aspra alpe, a similitudine di Madonna Laura, contra i suoi umili prieghi stava.
Mostra il Poeta che in altri tempi, come in versi et in prosa si legge, e che da lui fu sul primo aprir della primavera provato, che fu quando di Madonna Laura s'innamorò, Amor solea per forza vincer uomini e Dei, ma ch'allora né esso amore, né i suoi preghi, né 'l pianto, né i preghi di lui stesso potevan far che Madonna Laura traesse la sua anima, o di vita, o di martire.
Conforta il Poeta, nella presente Stanza, l'anima a dover fare ogni suo sforzo per veder di placar Madonna Laura, atteso i versi non solamente esser possenti far il gielo di fiori adorno, come usandoli nell'arte maga è tenuto che si possa fare, ma in por note, mia in loro detti, incantar gli aspidi, far ogn'altra cosa, che impossibile sia tenuta, possibil, come vuol inferire a fare.
Per meglio l'anima confortar all'impresa, che nella precedente abbiamo veduto, il Poeta ora, in questa, dice che per esser allora il tempo della primavera, nel qual amore in tutte le cose suol (come di sopra dicemmo) destrarsi, non può esser che Madonna Laura ancora lei non si venga in qualche modo, un poco a risentire; ma che se pur la loro ria fortuna sarà di più forza che le notti loro, che lagrimando, e cantando andranno col bue zoppo cacciando l'aura, luogo tolto da una Canzone d'Arnaldo Daniello Provenzale, cioè andranno cacciando 'l vento, al nome però di lei alludendo, volendo inferire che vano sarà il loro di lei sperare, nondimeno che saranno sforzati a seguitar l'impresa.
Narra il Poeta, nella presente ultima Stanza, alcune cose vane et impossibili a fare, per dimostrar la sua simile impresa nel voler il suo amoroso desiderio, che in più luoghi abbiamo già veduto, in l'amor di Madonna Laura conseguire.
Quando fu fatta la presente Canzone.
Orecchi et orecchie si dice toscanamente.
Accampare, qui armare e mettere in punto.
Arnaldo Daniello provenzale.
Ha il Poeta di sopra in più luoghi dimostrato quanto Madonna Laura fosse verso di lui sdegnata. Ora, nel presente Sonetto, dimostra che, per esser nella gratia sua tornato, il pianger, che pria per tal sdegno egli faceva, se si sia rivoltato in canto, esser tutto pieno di nova e buona speranza, onde dice che di Madonna Laura, la qual intende per quel vivo sole, non cela più gli occhi suoi in celeste lume di quel di lei, la cui dolce forza e santo costume rivela, cioè manifesta onesto e casto amore, come ancora in quel Sonetto, Le stelle, e 'l cielo, et gli elementi a prova, ove dice: L'aere percosso da' lor dolci rai s'infiamma d'honestate, et tal diventa che 'l dir nostro e 'l pensier vince l'assai (sic.). Onde, cioè de' quali occhi dice che per accorciargli la vita suole, cioè soleva tra tal fiume di lagrime, che niente lo poteva dalla morte scampare, sì profondo et di sì larga et abbondante vena era 'l pianger suo, e si lunge la riva, e sì lunge alla forma da poterlo quetare, ch'a pena col pensiero, non che in atto, vi poteva aggiunger, ma che pietà, la qual per far ch'egli viva ancora, rasserena 'l tempo, rasserena lo stato suo, asciuga 'l pianto et mandagli non lauro o palma, che trionfo e vittoria significa, ma tranquilla oliva, cioè tranquilla e dolce pace.
Accorciare, abbreviare.
Palma e lauro, quello che significa.
Nel precedente Sonetto il Poeta, per esser Madonna Laura tornata seco in buona, ha detto com' il suo pianger, che prima, quando ella era sdegnata, faceva, averlo rivolto in cantare. Ora, in questo, perch'ella era forse tornata in lite, com'a tutte l'ore suol esser degli amanti il costume, mostra aver tornato a convertir il cantar in pianto, et , nondimeno, come quello che già per lunga esperientia di tali accidenti esperto, avvenga che dica di piangere, mostra di non volersene però in alcun modo più attestare, ma che 'l pianger, e 'l cantar gli sia d'una medesima dolcezza, et così ancora i dolci et fieri modi da lei tenuti; perché, essendo i sensi suoi vaghi di cose alte, egli intese alta cagione de gli effetti da lui narrati, la qual era Madonna Laura, e non agli effetti propri. Onde conchiude (sic.), che cosa possa seguire, ch'egli pensa di non poter esser mai altramente che felice, sì dolce è del mio amaro la radice, cioè sì dolce è d'ogni mio tormento la cagione, onde di sopra, et in fine della precedente Canzone. E me stesso riprendo di tai lamenti, sì dolce è mia sorte, pianto, sospiri, e morte. L'arme sue contra gli sdegni di Madonna Laura erano l'umiltà, onde in quel Sonetto, L'aura celeste che 'n quel verde lauro, l'alma, che d'humiltate, et non d'altr'arme, et come dimostra in quell'altra, Gieri quando talor meco s'adira. Ma ora dice che queste sue armi non spezza punta di sdegni perché, essendogli (com'ha detto) la mansuetudine e durezza et gli atti fieri e humili di lei d'una medesima dolcezza, non è bisogno che di tal armi egli n'usi più.
Gravare.
Nel presente Sonetto, facile per se stesso, il Poeta dimostra la ragione esser del tutto morta in lui, e guidato da' sensi, andar vagando d'uno in un altro amoroso desiderio con dir ancora gli oggetti, da' quali a tutte l'ore il suo cor s'invesca e resta allacciato e preso, e l'anno, la stagione, il dì e l'ora che di Madonna Laura s'era a principio innamorato. Onde dice esser spronato dalla voglia, guidato e scorto d'amore, trasportato dall'usanza et rea consuetudine, lusingato e riconfortato dalla speranza, la qual porge la man destra al suo, per l'amorose passioni, già stanco cuore, a dinotar che solamente con l'aiuto di tal vana speranza egli si reggeva, per la qual cosa dice che 'l misero la prende, non accorgendosi della loro scorta disleale e cieca, la qual ha detto esser Amore, e che i sensi regnano, onde ha detto che piacer lo tira o che la ragione è morta per esser trasportato dall'usanza. E de l'un vago desiderio risorge l'altro, essendo spronato dalla voglia a doverne l'amorosa impresa perseverare.
Risorge, esce e nasce.
Ha il Poeta, nel precedente Sonetto, dimostrato quanto la ragione fosse spenta in lui, e com'era nelle forze dell'appetito. Ora, in questo (come quello ch'ancor non era nel vitioso habito caduto) mostra non esser tanto fuori però di sé che non conosca che procede male, ma che dalle lusinghe de' sensi nelle bellezze di Madonna Laura abbagliato si lassa vincere, dimostrando esser già al 20. anno del suo amore pervenuto, et quanto che potessero, e che effetti da noi poterli dire seguivano ogni volta, quando da lunge e quando da presso gli occhi di Madonna Laura giravano in lui. I messi d'Amore sono gli sguardi e pensier amorosi, onde in quel Sonetto, La guancia che fu già piangendo stanca, d'essi messi d'Amor parlando. Con l'altro richiudete da man manca, la strada a' messi suoi, ch'indi passato etc. Et in quell'altro, Ben sapev'io, che natural consiglio, ad esso amor parlando, i' fuggia le tue mani, e per cammino agitandomi i venti, e 'l cielo, e l'onde m'andava sconosciuto e pellegrino, quand'ecco i tuoi ministri, etc.
Scampare.
Avampare, esser pieno di vampa, ardere.
Duolsi nel presente Sonetto il Poeta del suo amoroso affetto che, oltre ad ogni sua voglia nel veder Madonna Laura, lo face a uscire de gli honesti termini, e per esser in forza dell'apetito, non possa usar della ragione, com'in altri tempi soleva, onde dice ch'egli a Madonna Laura, la quale era quella che la monarchia del suo cuore teneva, assai più che non soleva importuno, et soggiugne, Mai saggio nocchiero non guardò da scoglio nave carca di pretiose merci, quanto io guardo. La mia debile barca, cioè la mia debile vita, delle percosse del duro, cioè del disdegnoso, orgoglio di lei. Ma hora la pioggia delle mie lagrime et i fieri venti de' miei infiniti sospiri, che notte e verbo nel mio horribil mare, che nel mare della mia travagliata mente inducono ignorantia e pena, l'hanno spinta ove, cioè in stato nel quale, già dall'onde delle mie amare lagrime vinta, disarmata di vele, privata d'aiuto, e di governo, e di ragione, non porta altro che noie altrui, intendendo di quelli che l'odono lamentare, come ancor di sopra nella 6. Stanza di quella Canzone, Ben mi crede a passar mio tempo homai, ove dice, Hor de' miei gridi a me medesimo incresce, Che vo noiando prossimi e lontani, E doglie a me stesso, stando sempre nella metafora della barca.
Barca intesa per la vita.
Il presente Sonetto è quasi della medesima sententia del precedente, nel quale habbiamo veduto i Poeta essersi doluto della importunità, che contra sua voglia e trasportato dal desiderio, con Madonna Laura usava, come fa anco in questo, onde con amor parlando dice che conosce il suo fallire, ma esser alla conditione di colui c'ha 'l fuoco in seno, al quale, per lo dolore, manca la ragione, come debba far a liberarsene, perché ancora in lui mostra quella esser vinta da simile martire, havendo l'amoroso fuoco nel cuore, e che prima, per non farla turbare, era usato tal desiderio raffrenare, ma che alhora, havendogli esso Amore tolto di mano il freno, e l'anima essendo fatta per disperatione ardita, non poteva altramente fare. Adunque, conchiude amore esser cagione del suo fallire, ma più i celesti e rari doni di Madonna Laura, havuti, come vuol inferire, dalla natura, i quali erano di lei le singolari bellezze. Onde dice ch'almeno lo debba far sentire, cioè intendere a lei, e far ch'ella perdoni a se stessa le colpe di lui, essendone ella, mediante essi suoi rari doni, stata prima cagione, ad imitatione di Plinio, nella prefattione del primo libro E d'Ausonio Gallo, ove dice
Inque meis culpis tu tibi da veniam
.
Frenare et affrenare usa il Petrarca.
Plinio, Ausonio Gallo.
Drizzando il Poeta, nel presente Sonetto, il parlare a Madonna Laura, dice quanto nel precedente egli havea pregato amore, e che di nuovo il pregava, ch'appresso di lei lo devesse del suo fallo scusare, il qual medesimamente afferma, ma che lei la qual è di sì alto e divino ingegno pietosamente, senza più disdegnarsi, debba considerare che egli non può altramente fare, e che la sua ingordità, la qual è sì grande di vederla procede solamente dalle bellezze di lei, tanto grandi et eccellenti vuol inferire che siedo, onde quel medesimo, che 'n fin' del precedente ha detto, in questo medesimamente ha voluto significare, cioè ch'ella debba le colpe lui a se stessa perdonare. E chiama la sua dolce pena, perché da lei la sua amorosa pena procedeva, et era dolce, perché, sì come dicemmo in quel Sonetto, Dolci ire, e dolci sdegni, e dolci paci, tutto quello che dalla cosa amata vien appresso dell'amante è sempre dolce, e per la medesima ragione ancora ogni amaro, pur che da lei gli venga, lo diletta.
Sego senza lav.
Habbiamo di sopra in più luoghi veduto i prieghi fatti dal Poeta a Dio, per potersi dal suo amoroso giogo liberare, e ne' due precedenti Sonetti quanto ha pregato e ripregato Amore, che voglia tenere con Madonna Laura la sua ragione, onde hora, nella presente Canzone, di non esser dal cielo stato esaudito amaramente si duole, e mostra di nuovo, per lo mezo d'esso amore, desiar con Madonna Laura, disciolto da ogni timore, poter il parlare, per farle qualche dolce suo detto piacer, avvenga che mostri accorgersi, tal suo desiderio esser vano, e la colpa del suo penare esser di lui stesso, per non haver saputo rimediar a principi. Onde, nella presente prima Stanza, dice non saper in qual parte egli s'habbia più da piegar la speranza per potersi, come vuol inferir, de gl'amorosi lacci sciogliere, essendo quella stata più volte già tradita, cioè inganata. Perché, se non è chi l'ascolti con pietà, domanda quello che giova di spargersi spessi preghi, com'egli fa, al cielo, volendo inferire esser di nessun giovamento. Ma che s'aviene che non se li neghi di finire ancora inanzi al suo fine della vita quelle meschine voci, che dolendosi egli mandava fuori, non gravi al suo signor amore perch'egli lo ripieghi di dir Dreze raison es qui ie ciance d'Amori, libero un dì tra l'herba e fiori, cioè dritto e ragione è ch'egli si stia sedendo libero un dì tra l'erba e fiori. Et in sententia vorrebbe non fosse grave ad amore, quantunque egli lo ripiegasse, ch'avendolo, come abbiamo veduto ne' due precedenti Sonetti, pregato, e poi ancora tornato a pregare, ch'apresso di Madonna Laura tenendolo la sua ragione, le dicesse che fosse dritto e raggione, che libero dal timor , egli un dì con lei sedendo, tra gli atti che dimostrarle, e le parole che dirle intendeva, si stesse desiderando e sperando, come nella seguente stanza vedremo, con tao suoi atti e parole poterle piacere. E questa similitudine dall'herba e fiori, a gli atti e le parole, veggiamo esser stata da lui in quel Sonetto, Quando 'l pianeta che distingue l'hore. Onde ancora nel primo Ca. del trionfo d'amore, Quel che 'n sì signorile e si superba vista vien prima, e Cesar che in Egitto Cleopatra legò tra fiori e l'herba. Ma il Poeta volse in questo ultimo verso della Stanza imitar il primo d'una Canzone d'Arnaldo Daniello provenzale, il quale dice in questa forma Drez e raison es que ie ciane d'Amor, cioè Dritto e ragione, è ch'io canti d'amore. Ma perché non quadrava bene al suo proposito, cercò solamente quanto poté d'imitarlo, e non disse il verso intero, come veggiamo che fa in fine dell'altre Stanze, quello del principio d'alcun'altre de' moderni del suo tempo, come l'ultimo della sequente, quello del principio d'una di Guido Cavalcanti, e l'ultimo della terza, quello del principio d'una di Dante, e l'ultimo della quarta, quella del principio d'una di messer Cino da Pistoia, e l'ultimo della quinta, quello del principio d'una di lui stesso, la qual di sopra veduto abbiamo, per voler significare quali fossero quelle che più gli piacevano, avvenga che in sententia habbia espresso quel medesimo, che Arnaldo volse dire, perché ancora nel cantare s'usano gli atti e le parole. Ma in quello che gli parve mancare, supplì poi, come vedremo, nel primo verso della seguente Stanza.
Nella presente Stanza il Poeta, seguitando il proposito della precedente, dice esser ben ragione ch'egli debba cantare, per haver sì lungo tempo sospirato, perché mai non incomincia sì per tempo a cantare, ch'egli possa adeguar i tanti suoi dolori, col riso per essergli quelli, come vuol inferire, di molto maggior numero, mostrando desiderare che qualche detto di lui cantando, piaccia agli occhi santi di Madonna Laura, intendendo ed gli occhi interiori, perché l'anima intellettiva, la qual è divina, ha tre occhi, cioè tre proprietà, Mente, Ragione et Intelletto. La mente è l'occhi, la ragione lo sguardo, l'intelletto il vedere, dicendo che quando questo seguisse egli si terrebbe sopra tutti gli altri amanti beato, ma più beato ancora quando egli dirà, senza mentire, di voler dir per esserne di Madonna Laura pregato
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, facile per se stessa, accorgersi di quanti troppo alti e vani pensieri, che di sopra gli habbiamo veduto fare, come si diffida ch'a Madonna Laura debba piacer mai cosa ch'egli sappia cantar né dire: quello che nella precedente ha mostrato desiderare. Onde dice, quasi in questa forma, Vaghi pensieri, i quai così passo passo, cioè a poco a poco, m'havete scorto, m'havete condotto, a ragionar tant'altro, a parlar di tanto alto desiderio, quanto è il mio, che nella precedente Stanza ho dimostrato haver, di poter far piacer a Madonna Laura qualche mio dolce detto, Vedete ch'ella ha il cuore sì forte smalto, cioè tanto duro, ch'io per me con alcun mio detto non lo passo. Ella non degna di mirar sì basso ch'abbia cura di nostre parole, perché il ciel vuol ch'ella ne curi. Al qual cielo io son pur lasso già di contrastare, per la qual cosa, così com'induro et inaspro nel cuore, così voglio esser a parlarle.
Confessa il Poeta, nella presente Stanza, che la cagione del suo pianto e lamento non procede dalle stelle, che l'habbiano così destinato, come in più luoghi l'imputa, né dalle cose belle, come le bellezze di Madonna Laura erano, se 'l suo veder de l'intelletto era da esse mortali bellezze di lei abbagliato. Ma chi dì e notte l'affanna dice starsi seco, intendendo di Madonna Laura per la memoria che di lei gli era rimasa, da poi che la sua dolce vista e 'l bel soave sguardo lo fe' grave e pensoso dell'andare che fu, come vuol inferire, dal dì ch'esso soave sguardo fu da lui la prima volta veduto.
Nella presente ultima Stanza il Poeta conchiude egli stesso esser del suo amoroso tormento cagione, dicendo che tutte le cose delle quali il mondo è adorno e bello, come delle bellezze di Madonna Laura, vuol inferire ch'allora erano uscite buone di mano di Dio, imitando quel luogo del
Genesis
ove dice
Vidit Deus cuncta, quad fecerat, et erano valse bona
. Ma egli, il qual è abbagliato da quel bello, che per via de gli esteriori sentimenti se li mostra intorno, com'era il veder et udir lei. Onde in quel Sonetto, Datemi pace o duri miei pensieri, Non basta ben ch'amo, fortuna e morte mi fanno guerra intorno e 'n su le porte senza trovarmi dentro altri guerrieri? Non discerne con l'intelletto sì addentro, volendo inferire ch'esse bellezze non sono state create da Dio perché lo debbano metter in mal uso, e solamente farne partecipi questi lascivi sensi, ma acciò che mediante quelli le dobbiamo considerar con l'animo, e conoscer per tal mezo la sua potenza, e sapientia infinita. Onde in quella Canzone, Quel antico mio dolce empio signore, per le cose mortali Che son scala al fattor chi ben l'estiva, E se pur egli ritorna alcuna volta Al vero splendor, cioè mediante la ragione a conoscere il vero, che l'occhio de l'intelletto non può star fermo in quella, così dice haverlo fatto infermo, per la sua propria colpa non haver saputo usare del suo libero arbitrio, lassandosi da l'appetito e vano amoroso desiderio trasportare. E non quel giorno, che nel tempo della sua prima e giovenil etade, si volse in ver l'angelica beltate di lei, come da lui fu detto nella 4. Stanza di quella Canzone, Verdi panni sanguigni oscuri e persi, dicendo, Ma l'ora e 'l giorno ch' i' le luci apersi, Nel bel nero e nel bianco Che mi scacciar di là dov'amor corse, Novella d'esta vita che m'addoglia Furon radice.
Adequare, agaugliare.
Oimè beato, forma di dir o me felicem.
Contrastare.
Inasprire.
Appannare, nascondere il vedere.
In ver, quanto verso
Libero Arbitrio.
Narra il Poeta, nel presente sonetto, a Madonna Laura tutte quelle cagioni, per le quali egli si distruggeva amandola, le quali ragionevolmente la deveano muovere ad avere mercede e compassione di lui, dicendo che, se per quelle tai cagioni egli struggendosi veniva a mancare, il peccato sarebbe di lei, in facultà de la quale, come vuol inferire, era 'l poterli agevolmente provedere, e non li provedeva, ma che il danno sarebbe solamente di lui. Né giudichiamo esser di bisogno che in altra esposizione ci stendiamo, per esser il Sonetto da se stesso facile e chiaro.
Esta, invece di questa, usò alcuna volta il Poeta.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, alcune cose impossibili, altre vane, et altre dannose, le simili imprese, che 'n seguir Madonna Laura già venti anni si trova avere speso. E beato in sogno dice, per non esser in quello alcuna vera beatitudine ma solamente illusioni et errori, pur lagrime e sospiri, e dolor merci, pur lagrime sospiri e dolor compro, e conseguentemente ad uno, in tale stella in tal punto fatale, dice aver preso l'esca, che fu di lei l'amoroso sguardo. Onde ancor in quel Sonetto, Amor fra l'erbe una leggiadra rete, l'esca fu 'l seme ch'egli sparge, e miete dolce et acerbo, ch'io pavento e bramo, e l'amo, inteso per lo desiderio dal qual egli nel suo amor fu ritenuto.
Mercare, comprare.
Per sommamente Madonna Laura lodare, il poeta, nel presente Sonetto invita tutti coloro de veder quanto natura e 'l cielo posson oprar fra noi mortali, ad andar a veder lei, la qual dice che non solamente agli occhi di lui, ma a tutto il cieco mondo, è un sole; et che debbeno andar tosto, perché morte fura prima i migliori, de' quali, essendo ella al regno de gli Dei aspettata, era, come vuol inferire, la ottima; e perché ancora ogni cosa bella che sia mortale dura poco, soggiungendo che, s'arrivano a tempo, vedranno ogni virtù e bellezza essere giunta et congiunta in lei, e giudicheranno le rime fatte da lui nelle sue lodi, rispetto all'eccellenza di lei, esser mute e sorde, e l'ingegno dal suo troppo lume e splendor offeso, perché a pieno e quanto bisognerebbe non n'ha saputo dire; ma che tardando per lo dolor di non averla veduta avranno sempre poi da piangere.
Fura, ruba.
Seguitando il Poeta, nel presente sonetto, le lodi della sua eccellente Laura, dichiara ch'ogni donna, la qual pretende alla gloriosa et lodevole fama, debba andare fissamente a guardar negli occhi di lei, perché da quelli imparerà tutte le cose, per le quali in fama si sale. Ma l'infinita lor bellezza, che per esser dono dato dalla natura, non s'acquista per ventura et non per arte, come l'altre sue eccellenti parti da lui narrate, e ch'a lei attribuisce s'acquistano, le quali sono in che forma si consegue onore, come s'ama Dio, com'è giunta la leggiadria con l'onestà, qual'è la dritta via d'andare al cielo, e 'l parlar ornato, e 'l bel tacer al tempo, et ultimamente i santi e alti onorati costumi da non poterli in carte, per la troppa loro eccellenza, aprire.
Aguagliare è verbo molto vano nella lingua toscana.
Per lo presente Sonetto, tre cose vuol il Poeta in sententia significare, de le quali la prima si è che le bellezze di Madonna Laura fossero senza pari alcuno, la seconda da esser stato fortunatissimo per aver preso ad amar lei, sopra tutte l'altre donne virtuosa e bella; et ultimamente che tal amore non lo induca ad alcuna lascivia, come quello degli altri amanti suol fare, ma che la venustà di lei l'indrizzava alla via del cielo, talmente che di devervi col suo mezo pervenire egli n'andava già superbo et altiero, intendendo per quel ch'ogni uom desia, e ch'egli, rispetto al sommo bene, prezzava poco degli onori del mondo, et de' beni di fortuna, avidamente senza dubbio da tutto 'l mondo desiderati.
Loda il Poeta, nel presente Sonetto, sotto figura de l'arbore del lauro, delle cui foglie gl'Imperadori, et i Poeti ne sono onoratissimamente coronati, et ch'a lui, in questa breve sua mortal vita, aveva per lagrimosi mesti, et allegri accidenti, tanti di dogliosi et lieti fatta la generosità de l'animo di Madonna Laura che solo a l'onore riprenda, e che tutte le altre cose, com'è gentilezza di sangue, perle, e rubini, et oro care et apprezzate tra noi, insieme con l'alte et sole bellezze abbia in dispregio, se non quanto esse bellezze le sono ornamento al suo bel tesoro di castità per esser cosa rarissima, che la castità con la bellezza scontri, come in quel Sonetto, Due gran nemiche insieme erano aggiunte, et in altri luoghi, con approvate autorità vedremo.
Arbore nel genere della femmina, come usano i Latini.
Cale quanto cura, far stima.
Seguita pur ancora il Poeta, nel presente Sonetto, le lodi di Madonna Laura, la quale sopra tutte l'altre Donne, che mai furon virtuose e belle, propone, somigliandola ad una stella, ne la qual dice che vidi due begli occhi, che erano i leggiadri nidi d'Amore, presso a quali il suo cuore sprezza, e tien a vile ogn'altra vista, et che a lei non si debba pareggiare la Greca et famosa Elena, non Lucrezia Romana, la qual col ferro aprì il suo casto et disdegnoso petto, cioè fece manifesto qual fosse, dentro il suo castissimo animo, insieme concepito sdegno, non Isifile, figliola di Toante e regina dell'isola di Lemnos, non Argia, figliola d'Adastro Re degli Argivi, e donna di Polinice, soggiungendo Madonna Laura esser gloria grande alla natura, per aver tanto eccellente cosa creato, et a lui sommo diletto. E domandando dice: Ma che? Ma a che far viene? Perché vien tardo, cioè pena a venire, et subito va via? Onde ancor a tal proposito in quel Sonetto, O dolci sguardi, o pargolette accorte, subito acciò ch'ogni mio ben disperga e m'allontane, or fa cavalli, or navi Fortuna, ch'al mio mal sempre è si presta.
Parreggi, metti al pari.
Il Poeta, nel presente Sonetto, mostra dubitare di non esser creduto che in Madonna Laura fossero tante eccellenti parti, quante da lui ne' precedenti le sono attribuite, onde invita tutti coloro che non credono a vederle andar a vedere, perché quando l'avrà vedute spera faranno giudicio che 'l cantar di quelle, per lo suo (come vuol inferire) incolto e basso stile, non sia cosa da lui, ma sia da stancar Athene, Arpino, Mantova e Smirna, intendendo per tali patrie gli uomini eccellenti che furon di quelle, cioè Demostene, Marco Tullio, Virgilio, Omero, et l'una et l'altra lira, Pindaro e Orazio, l'uno greco et l'altro latino Poeta lirico; e non contento di questo, per maggior laude ancora darle, dice che lingua mortale non può giungere al sommo del suo divino stato, che Amore la spinge e tira, la muove e regge, non per elezione, non per voglia di lei, ma per destino, per esser ella in dever amar destinata.
Demostene, Marco Tullio, Virgilio, Omero.
Descrive il Poeta, nel presente sonetto, il leggiadro modo et l'alta bellezza, che vide esser in Madonna Laura quando a principio s'innamorò di lei. Onde dice che non fu meraviglia se subito arse del suo amore, et che, se ben allora non era tale qual in tal principio la vide per esser, come vuol inferire, dal tempo un poco oppressa, che sì come per allentar, per levar la corda d'arco, la piaga ch'una volta ha fatto mediante lo strale non sana similmente la sua amorosa piaga fattagli da Madonna Laura in tal principe, per mezzo del suo amoroso sguardo, avvenga che lenti in lei la bellezza, non può sanare, essendogli, come vuol inferire, nella memoria rimaso quanto leggiadra e bella in esso principio l'avea veduta.
Piaga fatta, perché l'arco si cessi di saettare, non si sana.
Seguita il Poeta, nel presente Sonetto, in dir di quello, che nel precedente avea, delle bellezze di Madonna Laura lessato, drizzando 'l parlar a Sennuccio suo amico. Onde dice ch'egli non vide giammai levarsi il Sol sì bello, quando il ciel, cioè l'aere, fosse più scarco di nebbia. Né vide l'arco celeste dopo pioggia variarsi in tanti colori in quanti vide fiammeggiando trasformarsi il viso di Madonna Laura, al qual nessuna cosa, per la sua somma eccellenza, come vuol inferire, si può agguagliare, nel dì che prese l'incarco amoroso, attribuendo il fiammeggiar al Sole, e 'l trasformar al celeste arco, e seguita in dir di quello che vide ne' begli occhi di lei, il che per se stesso si rende facile e chiaro.
Parco quanto scarso, voce latina.
Il presente Sonetto, per quanto drittamente ne per giudicare, fu fatto dal Poeta essendo stato un dì a Gabrieres a visitare, come spesse volte solea, Madonna Laura, e devendosi per venire in Italia a Parma di Valclusa, e da lei tosto partire, di che non sapendo ella ancora cosa alcuna, mostra da lei graziosamente e tutta ridente et
allegra esser stato ricevuto, ma inteso poi della partita, la qual doveva fare, come quella, che molto cordialmente l'amava, che 'l riso si convertisse in dolore, onde tutta pallida e smorta divenisse, e che questo impallidir di lei s'offrisse con tanta maiestatis per via de gli occhi al cuor di lui, ch'esso cuore si fece incontro all'impallidir di lei mezzo 'l viso di lui, perché avendo egli, per l'impallidir di lei, conosciuto il dolore ch'ella di tal partita avea, non pote fare, ch'egli ancora di tanto pietoso et amorevol atto non risentisse. Onde pallido e smorto similmente diviene, talmente ch'ella potè veder il cor di lui per la medesima forma, ch'egli qual di lei avea prima veduto, assimigliando questo modo di l'un l'altro vedere a quello che 'n paradiso gli spirti eletti e l'anime beate fra se stessi si veggono, soggiungendo che solo da lui, il qual in altro luogo che 'n lei non affissa gli occhi, fu conosciuto, quel suo pietoso pensiero, a rispetto del qual ogni angelica vista et humil atto d'amorosa donna reputa che sarebbe uno sdegno, il qual d'altezza d'animo, e non da humilità, suol nascere, e narra come, abbassando gli occhi, ella diceva quello che tacendo a lui pareva che propriamente in atto dicesse. Onde Ovidio nel j de arte,
Sepe tacens vultus verba loquentis habet.
Valclusa.
Scerse da scerno, scernere, vide.
Ovidio.
Nel precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta esser stato a visitar Madonna Laura et averle fatto intendere della partita, la qual da lei per venir in Italia doveva fare. Ora, il presente mostra esser stato fatto da lui essendo in via, e non molto di Gabrieres, donde passando è da credere che da lei avesse preso l'ultima licenza. Parla adunque a l'aura, che verso Gabrieres spirava, la qual dice che circondava e muoveva le bionde e crespe chiome di lei, et era mossa da loro, perché, sì come innamorata di quelle, era apinta dal desiderio a dover andar a trovarle, e sparge, e poi raccoglie e rincrespa quel dolce oro, per esser aurate chiome inteso. Ma egli per la immaginazione, la qual continuamente avea di lei, et che sempre gliele pareva aver presente, s'assimiglia quei timidi animali che spesse volte falsamente immaginandosi del suo inimico adombrando inciampono. E dovendo abbandonar quell'aere piglia licenza da le dicendo ch'ella si debba col vivo raggio, che da' begli occhi di Madonna Laura usciva, rimanere, et così ancora al corrente et chiaro gorgo di Colon, lungo il quale chi da quella viene in Italia va per alquanto spazio, domandando per qual cagione egli non può con esso fiume cangiar viaggio, perché il fiume correva verso Madonna Laura et egli sempre più se n'allontanava.
Gabrieres.
Colon gorgo.
Fu il presente Sonetto, per quanto giudicar possiamo, fatto dal poeta nel medesimo viaggio che di sopra abbiamo veduto, ove mostra aver continuamente presenti quei dolci colli vicini a Gabrieres, su' quali alcuna volta con Madonna Laura diportandosi era stato, et aver addosso, cioè nel cuore, ogni ora quel caro peso, quel dolce pensiero di lei, il qual nel suo partire gli era d'amore stato commesso, mostrando aver ammirazione che allontanandosi egli dal suo amoroso giogo, dal quale, come in più luoghi abbiamo già veduto, s'era (come dice) più volte indarno scosso, che col pensiero sempre vi s'approssimo più facendo comparazione da due feriti d'amoroso strale, al cervo ferito d'avvelenato ferro, perché, a similitudine di quello, quanto più forte fugge, tanto più della sua amorosa piaga si duole, imitando Virgilio nel IIIJ de l'Eneide, ove dice:
Qualis coniecta cerva sagitta,
Quam procul incauta nemor inter a cressia fixit Pastor agens telis.
Come, invece di come fu, usate due sole volte dal Petrarca.
Nel precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta esser partito da Valclusa per venire in Italia. Ora, il presente fu fatto da lui discendendo giù per il fiume Po, sul quale, per quanto giudicar possiamo, s'era a Torino imbarcato; parla adunque ad esso fiume, dicendo ch'egli fe', né può ben portar la scorza, cioè il corpo di lui, ch'era scorza dello spirito, ossia dell'anima, ma che lo spirito non teme né la sua, né l'altrui forza, intendendo la sua forza, perché da occidente, dove avea lassata Madonna Laura, correva portandone il suo corpo verso oriente; e l'altrui forza intende per quella da remi, o di quelli che vogano, e del vento che la vela gonfiando piangeva la barca. Il qual spirto dice che senz'alternar poggia con orza, senza ora a poggia et ora ad orza andare, sforzando 'l tutto se ne va battendo l'ali, dritto per l'aure seconde, cioè per l'aure proprie al suo desiderio, verso l'aurea fronde, cioè verso Madonna Laura. Lo domanda Re degli altri fiumi, intendendo però degli Italici, essendo quello degli altri il maggiore, onde ancora Virgilio,
Fluviorum rex Eridanus,
e che incontra il Sole, quando ne porta il giorno, per correr, come abbiamo detto, da Occidente ad Oriente. Tu te ne vai col mio mortal, cioè col mio corpo, sul corno, essendo egli sopra un ramo d'esso fiume; perché i rami di quello, che 'n molti luoghi ne fa ancor, dagli abitatori del Po sono domandati corni. E Virgilio, nel 4. delle Georgiche, disse:
Et gemina auratas Taurino corna vult Eridanus.
L'altro, cioè lo spirito, coperto d'amorose piume, pieno d'amoroso desiderio, se ne torna indietro a Madonna Laura, suo dolce soggiorno, suo dolce e quieto riposo.
Turino.
Alternare.
Virgilio.
Mortale, detto sostantivamente.
Virgilio.
Il presente Sonetto fu fatto dal Poeta, per quanto giudicar possiamo, al fine del suo viaggio, che di sopra abbiamo veduto, e giunto che fu a Parma, nel qual narra il grave e pensoso aspetto col mesto et oscuro habito che Madonna Laura aveva quel dì che partì da lei. Onde ancora, per li tristi auguri, sogni, e pensieri ch'alora gli veniamo, mostra della salute di lei temere, dicendo com'ella avea deposto l'usata leggiadria, le perle, le ghirlande, e gli allegri panni insieme col riso, e 'l canto, e 'l dolce umano parlare, e così in dubbio aver lassata. E che allora da tristi auguri, e sogni, e negri et oscuri pensieri era assalito, desiderando che fosser invano, e passassero senz'alcuno reo effetto partorire.
Parma.
Umilmente, è detto alcuna volta invece d'umilmente, e non senza vaghezza.
Nel fine del precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta per li tristi auguri, oscuri sogni, e pensieri che di Madonna Laura gli venivano, della morte di lei dubitare. Il simile fa ancora in questo, mostrando ch'ella gli sia venuta nel sonno, e di tal sua morte gli abbia fatto a sapere. Onde, quasi in questa forma, dice: Madonna solea con quella dolce angelica sua vista lontana, quantunque ella lontana fosse, consolarme in sonno. Ora mi spaventa e mi contrista. Né di duolo, onde dice che lo contrista, né di tema, onde dice che lo spaventa, non mi posso aitare, che cioè perché parme, mi par, vedere spesso nel suo volto vera pietà, mista con grave dolore, quello ch'ella, come vuol inferire, avea di lui, essendo senza di lei rimaso. Onde nel secondo Cap. del trionfo di morte in persona di lei, Che in tutto quel mio passo er 'io più lieta, Che qual d'esilio al al dolce albergo riede, Se non che mi strignea sol di te pietà. Et udir cose, intendendo di quelle ch'ella gli diceva, onde, cioè delle quali, il cor acquista, il cor piglia, et ritien fede, et credenza, ch'elle siano vere, che, perché si disarme, si privi di gioia. Onde ha detto né di duolo, né di tema potersi aitare, narrando le cose ch'ella gli dica, et ch'egli dice ch'udiva dire, le quali erano quasi in questa forma: Non ti sovien, non ti ricordi di quella ultima sera, che io, essendoti nel sonno venuta, lassai i tuoi occhi molli e lagrimosi per lo dolore, che d'esser da me lontano avevi, e sforzata dal tempo che m'era statuito, e terminato da poter star teco, me n'andai e partimmi da te? O allora, per la brevità del tempo, overamente per la pietà ch'i' ebbi di te, non tel potei, né tel volli, per non accrescerti la doglia, dire. Ora per cosa esperta, per cosa esperimentata e vera, ti dico: Non aspettar di vedermi mai più in terra. Perché, essendo ella all'altra vita passata, come vuol inferire, era cosa sperimentata e vera, per l'esempio d'infiniti altri che vi son passati, ch'egli non la dovea mai più di qua vedere.
Contristare quanto attristare.
Sovenire, ricordarsi.
Esperte, esperimentata.
Esclama il Poeta, nel presente Sonetto, a l'infelice visione, per la quale nel precedente abbiamo veduto essergli da Madonna Laura la propria morte di lei stata significata, domandando se gli è pur vero ch'ella, la qual solea far contenta la sua vita in pene, onde in quel Sonetto, I' mi vivea di mia sorte contento, Mille piacer non vaglion un tormento, et in buone speranze, sia inanzi tempo spenta, per aver detto l'alma luce, cioè morta, com'è che sì gran romore, che sì gran caso, non suoni, et non si manifesti per altri messi, overamente ch'egli ancora di nuovo non lo senta et intenda per lei stessa, mostrando pur giovargli ancor la speranza, la qual ha di poter il suo bel viso vedere. Et, nondimeno, prega il suo ultimo giorno della vita, che quando sia pur vero che l'anima di lei sia del suo bello albergo del corpo uscita fuori, che non voglia tardar a levarlo di terra, per poterla, come vuol inferire, a l'altra vita seguitare.
Spenta, estinta.
Per la visione, che ne' due precedenti Sonetti abbiamo veduto, il Poeta aver avuto della morte di Madonna Laura sospetto, non avendone egli ancora alcuna fermezza a ragione, ora, in questo mostra esser in dubbio del suo stato, e temere e sperare e, come quello che molto ne desiderava la certezza, domanda se sarà mai che 'l bel viso di lei renda le prime et usate luci ai suoi occhi, o che per tal morte li condanni al sempiterno piangere. E che, per prendere esso bel viso, morendo ella, il cielo a lui debitore, cioè ch'ella vada a quel tanto alto cielo che debitamente le si conviene, e la sua bellezza merita che, essendo in tanta felicità, non curi quello che si sia degli occhi di lui qua giù in terra, de' quali esso bel viso è il loro sole, perché solo da quello, come vuol inferire, pigliavano la luce. E non veggiamo altrui, non veggiamo altro ch'esso bel viso, perché l'altre cose vol inferire che gli erano oscure e tenebrose, o veramente (che più mi piace) perché tutte l'altre cose che vede egli la figura a lei. Onde ancora, nella prima Stanza di quella Canzone, In quella parte, dov'amor mi sprona, Dico che perch'io miri, Mille cose diverse intendo e fiso, Sol una Donna veggio e 'l suo bel viso; e nella 6. Stanza, E così meco stassi, Ch'altra non veggio mai, né veder bramo, né il nome d'altra ne' sospir miei chiamo, Et in tal paura et in sì perpetua guerra dice ch'egli si vive, a similitudine di colui che per via dubbiosa teme di fallare et erra la buona e dritta via; perch'egli ancora, senza Madonna Laura ch'era la sua fida e buona scorta, teme d'errare et erra, come vuol inferire, la dritta via della virtù.
Incarco; incarco peso.
Debito, devuto.
Per lo presente Sonetto si comprende il Poeta esser ancora in dubbio della morte di Madonna Laura, e che mostri di temere, per esser le bellezze nociute a molte, ch'essendo Madonna Laura sopra tutte l'altre Donne bella et pudica, acciò che a lei le bellezze non abbiano a nuocere, Iddio la voglia torre alla terra, e farne una stella in cielo, come di Calisto fece, alla cui favola allude, overamente, per più esaltarla, un sole. Onde dice che, se questo è, la sua vita, i suoi corti riposi, et i lunghi amorosi affanni erano giunti al fine, esclamando a tal dura et aspra dipartita, domandandola per qual cagione l'avea fatto da' suoi danni lontano, i quali intende per li di sopra narrati, cioè per li corti riposi e lunghi affanni; soggiungendo che la sua breve favola, cioè breve historia, che fino allora avea di lei scritta, era già compiuta, et il suo tempo a mezzo gli anni, intendendo di quel di lei fornito, essendo ella morta, come dimostrato abbiamo nell'origine di lei, quasi a mezzo del corso suo vitale, e reputando la sua, senza lei, esser non più vita, ma fastidiosa e rincrescevol morte.
Puntellare.
Favola di Calisto.
Compita, qui se avesse avuto effetto.
Per similitudine della Nave condotto nel procelloso mare volse il Poeta, nel presente Sonetto, significare il dubbio e periglioso stato di lui, nel quale, com'abbiamo di sopra veduto, per lo sospetto che della morte di Madonna Laura avea, si trovava essere, disperandosi, senza lei poter al porto di salute pervenire. Onde per essa nave colma d'oblio intende la sua vita o anima colma e piena d'ignorantia, la qual passa per l'aspro mare delle passioni et umane perturbazioni, a mezza notte il verno infra Scilla e Cariddi, a dinotare esso suo dubbio e periglioso stato, perché Scilla et Cariddi sono due scogli nel mar Siciliano, nelle cui concavità richiudendosi, i venti fanno poi in mare alcune rivolte nelle quali le navi sumergono. Siede al governo, siede al timone, il suo signore e nimico amore, cioè l'appetito, del quale essa nave vien ad esser governata; a ciascun remo, a ciascun vano proposito per eseguirlo, un pronto e rio pensiero, che la tempesta delle perturbazioni, dalla quale la nave, per l'anima intesa, viene ad essere agitata et il miserabil fine di vederla nel vitioso habito somergere par che non curi, a dinotar la cieca sua ignorantia, la vela. Cioè la mente è rotta e disviata da 'n vento, da un errore eterno, fermo e permanente in lui, di sospiri, di speranze et di van desio. Le sarte, cioè le forze e virtù de l'animo d'errore attorto et insieme composto con ignorantia, sono bagnate e rallentate, cioè fatte deboli et inferme da vane lagrime et inutili sdegni. I suoi usati segni sono i begli occhi di lei, i quali allora, per esserne egli lontano, gli si celavano, e da' quali era prima per via di salute scorto. L'arte e la ragione, che per rimediare al danno dovrebbe usare, è morta, è sommersa ne l'onde delle sue passioni. E così del porto di salute mostra cominciarsi a disperare.
Scilla e Cariddi
Governo, posto per timone.
La presente moral Canzone, per quanto giudicar possiamo, fu fatta dal Poeta l'anno del Signore MCCCXL, della sua età XLIIII, del suo amor XXI, essendo nei giorni santi e desideroso di emendar le sue colpe, come già in più luoghi abbiamo veduto in simil giorni essersi a questo voluto disporre; nella quale narra come da tre contrari pensieri era combattuto, de' quali il primo alla vera virtù, il secondo alla fama e vana gloria del mondo, il terzo alla amorosa impresa l'indrizzava, e, com'essendo in dubbio a qual devesse credere, avenga che conoscesse il migliore, s'atteneva, come incontinente, al peggiore. Onde, nella presente prima Stanza, come d'esse colpe sue dolente, dice aver cangiato il lagrimar, che per le passioni amorose, come vuol inferire, solea fare, in quello ch'allora, per tali sue colpe, faceva, perché vedendosi al giorno estremo della vita approssimare, avea chiesto infinite volte a Dio quelle ali, quelle forze e le virtù, con le quali il nostro intelletto da questo terrestre carcere del corpo si leva e sale al cielo. Onde in quel Sonetto, Io son sì stanco sotto 'l fascio antico, Qual gratia, qual amore, o qual destino Mi darà pene in guisa di colomba, Che mi riposi, e lievimi da terra. Ma fino a quei dice che prego, od altra cosa ch'egli faccia, non gli giova a dinotare che non leggermente si può il divino aiuto impetrare, come da lui nella settima Stanza di quella Canzone, Nel dolce tempo della prima etade, fu dimostrato dicendo; Et se contra suo stile ella sostiene D'esser molto pregata, in lui si specchia, E tal perch'al peccar più si pavente, Che non ben si ripente De l'una mal chi da l'altro s'apparecchia. E così dice convenir che sia, che chi, come di lui vuol inferire, ch'a poco si passò ne l'habito cadere, è degna cosa ch'n quello mal suo grado si giaccia. Nondimeno, pur ancora nella divina clementia mostra confidarsi, ma per esser da l'amor di Madonna Laura spronato, e forse a l'estremo della vita, si dubita molto di non potersene a tempo liberare, come per esempio sapeva in altri esser avvenuto.
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, che 'l primo de' tre pensieri, de' quali nella precedente abbiamo detto, ch'egli era combattuto, confortando alla vera virtù, et a lassar la vanità del mondo, parli con la propria mente, e dice che, pur agogni, cioè pur fantastichi, o frenetichi?, onde ancora nel iij.Cap. del trionfo d'amore, Ecco quei che le carte empiono di sogni Lancilotto, Tristano e altri erranti. Onde convien che 'l vulgo erranti agogni, perché agognare propriamente in Toscana lingua, avvenga che ha più poco in uso, diciamo esser quello di colui il quale, fra se stesso pensando, fa alcuni movimenti appropriati al pensiero, nel qual si trova essere, o che va brontolando, borbottando, o mormorando, e nascer per corrotto vocabolo da quello che per non vero significato diciamo augurare, cioè desiderare. Onde diremo: io t'ho sempre augurato bene, et tu m'hai augurato male? E di quel Dante nel VI Cap. de l'Inferno, Qual è quel cane ch'abbiando agogna; e nel XXVI di quel Prato, non ch'latri t'agogna, perché colui che va in tal modo fantasticando, o desidera bene a sé, o bene o male ad altri. Onde soccorso attendi, volendo inferire, che s'ella attende d'esser soccorsa dalle cose frali del mondo, alle quali seguitar è data, ch'attende male, riprendendola che sì miseramente lassar passar il prezioso tempo, confortandola a dovere ormai lassar le vanità, il cui piacere non può conducer l'uomo alla vera felicità, né mai lo lassa dalla sua miseria respirare, domandando che s'ella è già gran tempo fastidita e lassa di quel falso e fuggitivo dolce, che 'l mondo traditore può a quelli che lo seguono dare, per qual cagione ella ripone pur ancora in lui la sua speranza, essendo d'ogni fermezza e pace privato. Onde ancora in quel Sonetto, Lasso ben so che dolorose prede di noi fa quella, ch'a null'huom perdona, E che rapidamente n'abbandona il mondo, e picciol tempo ne tien fede. Adunque dice: Mentre che 'l corpo è vivo, mentre che 'l corpo è ancora con l'anima unito, ch'ella ha mediante il suo libero arbitrio, il freno de' suoi pensieri in balia, quello che non avverrà poi, come vuol inferire, che da quella sarà diviso. Onde dice che lo debba stringere ora che lo può fare, perché, sì come ella fa avendolo egli in fine della precedente Stanza detto, il tardar è dubbioso, perché colui che non fa quando può, rade volte fa poi quando vuole, onde è scritto in San giovanni al XII.Cap.:
Ambulate dum luce habetis, ut non tenebrae vos comprehendant.
Et Ovidio:
Tolle moras, semper nocuit differire paratis
. Et il cominciar a stringerlo, ormai non fia per tempo, non sarà troppo a buona ora, essendo ella già dal tempo, come vuol inferire, et da molti anni oppressa.
Seguita pur ancora il Poeta, nella presente stanza, il parlar del primo pensiero con la sua mente, che nella precedente ha lassato, dicendo ch'ella sa ben quanta dolcezza porse già agli occhi suoi la vista di Madonna Laura, che per lor bene vorrebbe ch'ella fosse ancora a nascer, perché, non avendola veduta, vuol inferire che non sarebbero nello stato infelice che sono incorsi, ricordandole del primo dì che de l'amor di lei furon presi, che forse da altro non sarebbero potuti essere, dicendo che l'ardir di quello, in aspettando di poter un dì le loro voglie contentare, il qual per la salute loro non venne mai, durò molti anni, ch'ella si debba ora sollevar a più beata speranza, mirando 'l cielo adorno et immortale, che 'ntorno sopra di lei si volge e gira, considerando che dove qua giù sol un movere d'occhio, un ragionar, un canto, acqueta nostra vaghezza sì lieta del suo male, se questo caduco e frale è tanto, quanto fia quell'eterno et infinito piacere, volendo inferire che sarà tanto grande da non poterlo pur solamente immaginare, intendendo per lo male qua giù nella nostra vaghezza, il movere d'occhio, il ragionar, il cantar della cosa amata, perché, mediante tali oggetti, l'amante di lei s'accende. Onde ancora nella terza Stanza di quella Canzone, Qual più diversa e nova, a tal proposito, di se stessa parlando, dice: Ma incauto dolente corro sempre al mio male, etc.
Ha il poeta, nelle due precedenti Stanze, dimostrato come 'l primo e ragionevol suo pensiero l'indrizzava alla via del cielo. Ora, nella presente, mostra come il secondo pensiero contra di quello gli premeva 'l cuore di desiderio, e pascevano di speranza di deversi per fama esaltare, quantunque egli, per conoscer tal desiderio e speranza esser vanità, vorrebbe lassarla et abbracciar la vera gloria. Onde dice che da l'altra parte, e contra tal ragionevole pensiero, un altro dolce et agro sedendosi dentro a l'anima, preme con faticoso e dilettevol salma, con faticoso e dilettevol peso, il cuore di desiderio. E dice esser dolce per lo diletto che d'esser lodato si piglia, agro, essendo tal gloria alla salute dannosa, preme 'l cuore di desiderio, con faticosa salma, non potendosi la buona fama senza gran sudore e lunghe vigilie conseguire. Et è dilettevol per lo piacer ch'n conquistarla s'usa pigliare, senza il quale sarebbe impossibile poter al peso soffrire, e passelo di speranza, senza la qual nessuna cosa si condurrebbe mai a perfezione, che, il quale pensiero, solo per fama gloriosa et alma conseguire: Non sente quand'io aghiaccio, o quand'io flagro, Non sente quand'io alla fredda stagion gelo, et alla calda ardo, e se io, per le fatiche, pallido e magro divengo; tanto vuol inferire esser a tal desiderio e speranza della fama volto, e s'egli po' alcuna volta uccider tal pensiero, deliberandosi di non volerlo più seguitare, rinascei, dice, più forte e più veemente che prima non era, per la qual cosa soggiugne che dalla sua infanzia, fino a quell'ora, era venuto sempre seco crescendo, e temea che da un medesimo sepolcro dovessero esser insieme ultimamente chiusi, per aver, come vuol inferire, poca speranza di poterlo fare, se non per morte rimuovere. Ma poi che l'alma sarà ignuda delle membra, cioè poi ch'io sarò mirto, questo desiderio non può più andar con essa anima, a dinotare che tanto può quella mondana gloria solamente giovar all'uomo, quanto dura la vita, e, finita quella, tutto esser fumo al vento, come mostra che la sua morte sarà quando ben il latino, e 'l greco idioma parli, o scriva di lui. Onde dice ch'egli vorrebbe abbracciar il vero, cioè vorrebbe darsi alla vera virtù, lassando l'ombre, lassando le vanità. Onde egli stesso, in quella Canzone, Una Donna più bella assai del Sole, in persona d'essa fama, I' per me sono un'ombra, perché paventa e teme adunar sempre quel ch'un'ora sgombra metter sempre insieme, e quello accumulare, che in brevissimo spazio, rispetto a l'eternità, trapassa, come della mondana gloria ultimamente intervien a l'uomo.
Introduce il Poeta, nella presente Stanza, il terzo pensiero, il quale è la voglia che egli ha di seguitar la sua amorosa impresa. Questa dice che par ch'aduggi, cioè par ch'ammorbi, o ammorzi quanti altri pensieri e voglie nascono appresso di lui, perché uggia, come dicemmo in quel Sonetto, Se col cieco desir, che 'l cuor distrugge, è ombra che nuoce, come questo volere, per esser in lui il maggiore di tutti gli altri, vuol inferire, che ad ogni altro noceva. E parte dice che fuggiva 'l tempo nel qual, di Madonna Laura scrivendo, dimenticava se stesso, et esser dal lume de' suoi begli occhi con tal freno ritenuto che per liberarsi da quello non gli val usar alcuno ingegno o forza, per la qual cosa domanda Che giova adunque, perché tutta spalme, cioè perché tutta racconci la mia barchetta, la mia frale vita, o anima, poi che fra gli scogli, poi che fra gli impedimenti e, ritenuta ancora da tai due nodi e da tai vani pensieri, come quello della gloria del mondo, e quello dell'amorosa impresa, sono ancora oppressa, pregando Iddio che lo voglia da quelli sciorre, come da tutti gli altri, che 'n diversi modi sogliono il mondo legare, l'avea disciolto, domandandogli per qual cagione ormai egli non togli dal suo volto quella vergogna ch'egli di lassar di seguitar la fama, per darsi alla virtute, avea. Onde, ancora, nella quinta Stanza della predetta Canzone a tal proposito, Ratto inchinai la fronte vergognosa, sentendo nuovo dentro maggior fuoco. E nella sesta Stanza, Ruppesi in tanto di vergogna il nodo, etc. E della vergogna che di Madonna Laura avea, lassando di volerla più amare, perché dice parergli, a guisa d'uom che sogna, aver la morte innanzi agli occhi, che gli par di deversi ne l'habito del vizio, dove sta la morte dell'anima, cadere, de la qual si vorrebbe difendere, ma non ha l'arme della virtù da poterlo fare.
Assai ottimamente mostra il Poeta, nella presente Stanza, conoscer l'error suo ma, come colui che per lunga operazione già quasi ne l'habito incorso, mostra esser da l'appetito sforzato a dovervi per dentro ancor perseverare. Onde dice che vede quello che fa e che 'l vero non l'inganna, imitando Ovidio, nel 7. del Metamorfosis, ove dice:
Quid faciam video, nec me ignorantia veri decapiti, sed amor;
ma perché non lo mette in opera e mal conosciuto da lui, che non val solamente conoscer il bene, ma bisogna saperne a tempo usare quello ch'egli, come vuol inferire, non sapeva, per esser, come abbiamo detto, da l'appetito sforzato, il qual non lassa seguir la strada del vero onore a chi troppo 'l crede, cioè a chi troppo si lassa da quello verso 'l reo habito trasportare. Onde dice sentirsi ad or ad or venir al cuor un leggiadro, aspro e severo sdegno, il qual gli fa dimostrar ne' volto, ov'altri il può vedere, il desiderio ch'egli ha di potersene dal suo amoroso error liberare, perché amar con tanta fede cosa mortale, quanto per debito solamente si conviene a Dio, come vuol inferire, che da lui Madonna Laura amata era, più si disdice a chi brama più pregio, meno si conviene a chi brama per onore. E questo dice richiamar ad alta voce la ragione che dietro a' sensi è disviata; ma quantunque ella odi chiamare, e pensi a lui voler tornare in mal costume, cioè in reo habito, la spinge oltre, la fa da lui fuggire. E dipinge, e mostra pur agli occhi Madonna Laura, la qual nacque solamente per farlo morire, perché a lui troppo, onde tanto l'amava, et a se stessa, che tanto cara si teneva, ella era piaciuta.
Seguitando il Poeta, nella presente Stanza, il proposito della precedente, dice non sapere quando egli nacque, che spazio di tempo gli costituisse 'l cielo a dover soffrir l'aspra guerra delle sue amorose passioni, la quale egli seppe sì bene contra di se stesso ordire, né poter, per lo corporeo velo, per l'ombra del corpo, che impedisce l'anime, il suo ultimo giorno della vita antivedere; ma ch'egli si vede ben di fuori variare il pelo, divenir canuto, e dentro cangiarsi ogni usato desiderio, le quali cose denotano l'uomo esser non lunge dal fine. Onde dice ch'ora ch'egli si crede vicino, o non molto lunge al tempo del partire dalla presente vita, ch'egli, a similitudine di colui ch'è fatto accorto dal perdere, cioè a similitudine di colui ch'a sue spese ha imparato, per lo tempo che dietro a' sensi et alle vanità avea perduto, va ripensando ove lassò 'l viaggio della man destra, Ch'a buon porto aggiunge, ch'a buon fine conduce. La qual cosa quello che significhi dimostrammo per la lettera Y di Pitagora, nella terza Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, E da l'un lato punge Vergogna e duol, ch'egli ha del suo lungo errore, che indietro per la sua dritta via, da lui mal tenuta, lo fa tornare. Da l'altro non l'assolve, libera un piacere sì forte, sì possente, per usanza, per lunga consuetudine, che n'ardisce patteggiar con la morte, cioè n'ardisce convenirsi con la morte di voler ancora dopo di lei vivere, per l'opinione che vedemmo nella quinta Stanza di quella Canzone, Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina, esser stata di Platone che non subito che l'anima si divide dal corpo è libera dalle passioni humane, delle quali il piacere n'è una, intendendo del piacer ch'egli di pensar alle bellezze di Madonna Laura avea, tanto che da questi due contrari e forti pensieri era, com'ancora di sopra ha dimostrato, continuamente combattuto.
Nella presente ultima Stanza, il Poeta, parlando alla Canzone, le dice com'egli si trova nel dubbioso stato che nelle precedenti ha dimostrato, dicendo: Canzon, qui sono, cioè a questo termine sono giunto, e che della paura ha il cuor molto più freddo che gelata neve, sentendosi senza alcun dubbio perire, e pur solamente di se stesso, senza mai effetto producete, deliberando, cioè cercando di dispormi, come vuol inferire, al bene, ho volto al subbio gran parte della mia breve tela, ho consumato al mondo gran parte della mia breve vita. Né mai peso dice esser stato si grave, quanto quello ch'egli nel suo dubbio stato sostiene, Che con la morte a lato, perché con la morte vicina, quando che egli, come vuol inferire, dovrebbe per lunghe operazioni aver fatto habito nella virtù, pur allora cerca nuovo consiglio del suo vivere, e vede 'l miglior et attiensi al peggiore, come Medea in Ovidio:
Video meliora proboque, deteriora sequor.
Quando il Petrarca fece la presente Canzone.
Che cade potendo tenersi in piedi, è indegno di aiuto.
Agognare è desiderare.
Balia, volontà, potere.
San Giovanni. Ovidio.
Per tempo, a buon'ora.
In aspettando invece di dire in aspettare, modo usato alcuna volta dal Petrarca.
Agro, qui amaro.
Flagrare, ardere.
Paventare.
Aduggiare, metaforicamente distruggere.
Calme; par che s'intenda caldi me, e tuttavia il Petrarca lo vi aggiunge.
Spalmare.
Ovidio nel 7. delle Trasformazioni.
Mal costume, invece di reo costume.
Velo corporeo.
Lettera pitagorica.
Subbio, quel legno dove si avvolge la tela.
Ovidio.
Fu la presente Canzone, come ne par intendere, fatta dal Poeta nel medesimo tempo che della precedente abbiamo, ne la qual fa un breve discorso dal principio al fin del suo amore, e come avendo lungamente in quello vaneggiato, perseverato, ultimamente s'era del suo errore riconosciuto, e cerca la via del cielo. Onde, nella presente Stanza, dice ch'egli corse fuggendo un dispietato lume, che dal ciel di Venere in fin qua giù l'arde a, Alla dolce ombra delle belle e verdi grondi, intendendo di quelle del lauro. La qual cosa altro non significa, se non che potendosi egli dalle Veneree fiamme difendere, per esser a quelle, come vuol inferire, destinato. Onde nel primo Cap. del trionfo d'amore, in persona de l'ombra di se stesso parlando, Gran tempo è ch'io pensava vederti qui fra noi, che da' primi anni Tal pregio di te tua vista dava, s'elesse Madonna Laura, al cui nome allude, per sua donna, in quella stagione della primavera ch'egli circonscrive.
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, che 'l mondo non vedesse mai simili bellezze, come quelle ch'egli nel principio del suo amore in Madonna Laura vide, le quali intende per li rami, e per li frondi del lauro, stando sempre nella metafora, talmente che temendo egli de l'ardente lume, che nella precedente ha dimostrato, dice: Non volsi al mio refugio ombra di poggi, non volsi al mio soccorso l'aiuto divino. Onde in quel Sonetto, Per far una leggiadra sua vendetta, ovvero al Poggio faticoso et alto Ritrarmi accortamente dallo strazio, Dal qual oggi vorrebbe, e non può aitarme. Ma della pianta più gradita in cielo, rispetto alla favola di Dafne, ma di Madonna Laura rispetto al nome di lei. Onde nella 2. Stanza di quella Canzone, Chi è fermato di menar sua vita, L'aura soave, a cui governo è vela, Commisi entrando a l'amorosa vita, E sperando venire a miglior porto.
Non avendo il Poeta voluto al suo refugio, per difendersi da l'ardente lume, che solamente la ombra del Lauro, come ha nella precedente Stanza dimostrato, ora, nella presente, mostra da quello, per Madonna Laura inteso, esser stato difeso. Onde più volte vago de' bei rami, per la qual cosa più volte desideroso di bellezze vedere, dice da poi esser andato per selve, e per poggi, per piani, et per monti, e giammai aver ritrovato tronco né frondi, corpo né bellezze, tanto dal superno lume del Sole onorare, ch'a tempo non cangiasser qualitate, da questa del lauro in fuori, come vuol inferire, perché quasi tutte l'altre piante veggiamo esser da l'autunno di frondi spogliate, e dalla primavera rivestite. Onde vuol inferire che similmente tutte l'altre bellezze erano dal tempo consumate, se non quelle di Madonna Laura, per la memoria ch'era sempre in lui di quello che l'avea veduta esser nel tempo che di lei s'era innamorato. Onde in quel Sonetto, Erano i capri d'oro a l'aura sparsi. E se non fosse or tale, Piaga per allentar d'arco non sana. Et in quello, Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella, Ch'indi per Lethe esser non può sbandita, Qual'io la vidi in su l'età fiorita.
Per non aver il Poeta trovato bellezze da poter a quelle di Madonna Laura agguagliare, come nella precedente Stanza ha dimostrato, però ora in questa dice Che d'ogni ora e d'ogni tempo seguendo, ove cioè quella via, nella quale s'udiva chiamar dal cielo, e scorto e guidato dal soave, o chiaro lume de' begli occhi di lei, tornò sempre devoto con la memoria alle sue bellezze, perché quelle, come vuol inferire, considerando, e sentiva, dice, dal cielo chiamare; onde in quella Canzone, Quell'antico mio empio signore, d'esse bellezze di lei in persona d'amor parlando, Che son scala al fattor chi ben le stima; e in quella, Gentil mia Donna i' veggio, Nel muover de' vostri occhi un dolce lume, che mi mostrava la via ch'al ciel conduce.
Ha il Poeta, nella precedente Stanza, dimostrato quanto egli fosse un tempo dato a dover l'amorosa impresa seguitare, ora, in questa, mostra ch'essendo tutte le cose create qua giù fra noi ultimamente dal tempo consumate, che s'ancora egli, dopo 'l voltar di molti anni, e giunto che fu alla sua perfetta età, nella qual cominciò ad esser dalla ragione illuminato, per liberarsi del suo amoroso giogo e por fine agli amorosi affanni, si dispose fuggir gl'innescati rami, cioè i tenaci amorosi pensieri, dice chieggio perdono a queste frondi, a queste verdi e fiorite bellezze di lei.
Nella presente Stanza, il Poeta dice tanto essergli a principio il dolce lume de' begli occhi di Madonna Laura piaciuto, ch'egli passò con diletto assai gran poggi, assai gran difficoltà, per poter gli amati rami appressare, per poter l'amate bellezze conseguire. Ma ora dice che la breve vita che gli resta, e il luogo, per esser da lei lontano, et il tempo, rispetto a' giorni sacri, ne' quali di sopra abbiamo dimostrato, ch'egli allora era, o veramente intende della sua quasi pressoché senile età, il mostra altra via d'andare al cielo, di quella che, per mezzo la bellezza di Madonna Laura, come vuol inferire, fino allora avea tenuto, come di sopra veduto abbiamo, e di far frutto, non pur fiori e frondi, e di far l'effetto e non più parole e finte dimostrazioni, come quelle che 'n più luoghi addietro abbiamo veduto, che, per volersi da tal vita liberare, egli ha usato.
Ha il Poeta, nella precedente Stanza, dimostrato come dalla breve vita, dal luogo, e dal tempo gli era mostrata altra via d'andare al cielo di quella che fino allora aveva tenuto. Ora, nella presente, tal proposito seguitando, dice che per esserne ben tempo, rispetto ai suoi molti anni, come vuol inferire, cerca altro amore, altre frondi, cioè altre bellezze, altro lume, et altri rami, et altri ornamenti, intendendo degli eterni e divini, e non più de' vani et mortali, Altro salir al cielo per altri poggi, altro affaticarsi alla virtù per altre difficoltà che 'n seguitar di Madonna Laura i vestigi, onde in quel Sonetto, Qual Donna attende a gloriosa fama, degli occhi di lei parlando, Come s'acquista honor, come Dio s'ama, com'è giunta onestà con leggiadria, ivi s'impara, et qual è dritta via di gir al ciel, che lei aspetta e brama.
Qua giù e la sua si dice molto leggiadramente.
Rifugio, soccorso.
Tronco e troncone usa il Petrarca.
Scorto, guidato.
Incominciare, e cominciare si usa.
Sentiero, cammino e strada.
IL FINE DEI SONETTI, E CANZONI
di M. Francesco Petrarca,
in vita di Madonna Laura.
Essendo ora, quanto alla interpretazione della prima parte dell'opera scritta dal Poeta in vita di Madonna Laura, pervenuto alla fine, non altramente l'animo respirar mi sento che far si sogliono coloro i quali, dopo molti vari et dubbi pelaghi solcati, con fecondo et prospero vento cominciano i desiderati lidi a discoprire. Perché, avendo io (secondo 'l mio giudicio) similmente del profondo et ampio mare d'eloquentia et di dottrina di tanto Poeta con la barchetta del mio debole ingegno gran parte delle più difficili et dubbiose onde trascorso, già con la vela piena del superno favore, nel mare delle sue amare lagrime entrando, mi veggio all'aspirata riva felicemente conducere. Assumeremo adunque la seconda parte dell'opera, scritta in morte di lei, la qual con mesto et flebil suono, ma con mirabili elegantia, in questa forma comincia.
S O N E T T I
E C A N Z O N I
Del Divino Poeta
M. F R A C E S C O P E T R A R C A
In Morte di Madonna Laura
Colla Espositione del Velutello
.
Abbiamo di sopra in più luoghi veduto, per alcune visioni, immaginazioni e sogni, la mente del nostro Poeta essere stata della morte di Madonna Laura indovina. Ora il presente Sonetto fatto da lui, avuto ch'ebbe di tal morte la certezza, della qual dolendosi mostra che gli torni alla memoria il bel viso, con l'altre parti di lei che degne erano di lode, e per le sue virtù esaltare, la fa d'imperio dignissima, quando che sì tardo non fosse fra noi in questa mortal vita discesa, ma fosse venuto, come vuol inferire, al tempo che le virtù erano premiate et apprezzate. E, volgendo a lei il parlare, dice che, quantunque ella sia morta, convenirgli però ancora di lei ardere, et in lei respirare, come quando ella viva soleva fare, onde nella terza Stanza di quella Canzone, Ben mi credea passar mio tempo ormai, della vista di lei parlando, E di ciò insieme mi nutrico et ardo, Benché di tutte l'altre sue disventure si doglia assai meno che d'esser privato di lei, ricordandole della speranza: di che, mediante le sue graziose parole, nell'ultimo partir che fece da lei, ella l'avea ripieno, ma che ora conosce essere state tutte parole al vento, ad imitazione di Statio, nel secondo dell'Achilleide, ove dice:
Irrita vento se rapiebant verba procellae.
Questa voce, ohimè, è detta senza appoggio di verbo alcuno.
Tardo qui è avverbio.
Statio.
Nella presente Canzone il Poeta, amaramente della morte di Madonna Laura dolendosi, si consiglia con Amore di quello ch'egli abbia da fare, essendo per tal morte d'ogni speranza e conforto privato, e dopo lungo lamento finge esser consigliato da lui a non dover di tal morte disperar ma, per parte di lei, a dover nello scrivere delle sue lodi perseverare. Onde, in questa prima stanza, mostra desiderar di morire, per andar a trovar lei in cielo, non avendo speranza di poterla più qua giù veder in terra, et duoli che per veder la morte di lei (quello che veder non avrebbe voluto) tardato. Onde in quel Sonetto, Laura che 'l verde Lauro e l'aureo crine, O vivo Giove manda prego 'l mio prima che 'l suo fine, Sì ch'io non veglia il gran pubblico danno etc.
Nella presente Stanza, seguitando il Poeta il suo lamento con Amore, del loro per la morte di Madonna Laura comune danno, mostra il suo dolore esser tanto fuori di misura grande da non poterlo esprimere, imitando Virgilio nel secondo dell'Eneide, ove dice:
Quis cladem illius noctis? Quis funera fando explicet? Aut possit lachrimis aequare labores?
Et che tal morte non meno a tutto 'l mondo che a se stesso sia stata dannosa, et non meno di lui abbia cagion di piangerla, chiamando orbo per non accorgersi d'aver perduto lei, la qual era, come disse nel Sonetto allegato nella precedente Stanza, il suo sole, ingrato per esser a non pianger la sconoscenza del beneficio da lei ricevuto, essendo ella (come dice) il suo bene.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, in dire in quanto danno sia stata la morte di Madonna Laura tutto 'l mondo, il qual di lei dice non esser stato degno, ma solamente il cielo, dove ella era ascesa. Ma egli senza di lei non ama la vita né se stesso, la richiama piangendo, e questo solo, di tanta sua speranza ch'avea riposto in lei, dice essergli avanzato, e che da questo solo è ancor qua giù in vita mantenuto. Onde, ad esso mondo parlando, dice: Caduta è la tua gloria, al qual intende che fosse Madonna Laura; E tu non vedi, onde nella precedente Stanza gli ha detto orbo; Né mentre ella visse qua giù, eri degno d'aver sua conoscenza, né da suoi santi piedi esser tocco, perché si bella cosa devea di sua presenza adornar il cielo, Ma io lasso, che senza lei né amo vita mortale né me stesso, la richiamo piangendo, Questo di cotanta speme m'avanza, E questo solo mi mantiene ancor qui.
Duolsi il Poeta, nella presente Stanza, che 'l bel viso di Madonna Laura, che delle bellezze del ciel soleva far fede qua giù fra noi, sia fatto terra. Ma l'anima, la quale è l'invisibile sua forma, dice esser in paradiso, disciolta di quel velo, libera di quel corpo che qui fece ombra, che qui fu ornamento al fiore de' suoi anni, per rivestirsene poi al dì dell'universal giudicio, come vuol inferire, un'altra volta. Allora, quando rivestita insieme con l'altre se ne sarà, la vedrem tanto più alma e bella farsi, quanto una sempiterna vale più ch'una mortale bellezza.
Due cose mostra il Poeta, nella presente Stanza, esser il sostegno della vita di lui, cioè la immagine di Madonna Laura, la qual più bella e più leggiadra che mai l'avesse veduta, gli torna innanzi per immaginazione, come là, come in quel luogo nel quale si sente più gradire, esser più grata et accetta; l'altra esser il suo chiaro bel nome. Ma quando poi gli torna a mente che l'immagine è falsa, et ella esser pur morta, dice: Amore sa com'io divento, e come spero, e come io sono d'ogni speranza fuori, veder colei, vedelo Madonna Laura, che, la quale, è or sì presso al vero, è or sì presso a Dio, in cui ogni verità risplende.
Volge il Poeta, nella presente Stanza, di parlar a quelle donne che di Madonna Laura erano state familiari, pregandole ch'elle vogliano aver pietà di lui, e non di lei, la qual era salita a tanta pace, quanta è quella della patria celeste, et avea lessato lui in guerra tale che s'altri, cioè che se Dio, o la natura gli serra longo tempo il cammin da seguitarla, gli vieta lungo tempo il naturalmente poter morire per andar da lei, come vuol inferir, ch'ella faceva, che quel solamente ch'amor parla seco la ritiene, ch'egli non recida 'l nodo, cioè non tagli quel legame che tien vinta l'anima col corpo et, in sententia, ch'egli non si dia la morte. Ma dice ch'esso amore ragiona dentro a lui, in cotali modo, cioè nella forma, che nella seguente Stanza vedremo.
Narra il Poeta, nella presente Stanza, quello che 'n fine della precedente ha detto, ch'amore confortandolo per parte di Madonna Laura gli ragionava, e la cosa perché egli non si dava la morte, e che 'n sententia è che della morte di lei egli non si debba rattristare, ma voglia nello scrivere delle sue lodi, come fatto avea fino allora, perseverare, se gli occhi di lei gli furon dolci, ne cioè cari, quasi in questa forma dicendo: Pon freno al gran dolore che ti trasporta, perché si perde per soverchie voglie il cielo, ove il tuo cuore aspira voler esser, e dove è Madonna Laura, che par morta altrui, et dove sorride seco di sue belle spoglie, intese per le sue belle membra, e sospira solamente di te, d'averti, come vuol inferire, qui lessato. E la sua fama, che per la tua lingua spira ancor in molte parti, prega che non estingua, anzi, se gli occhi suoi ti furon, mentre ch'ella visse, dolci o cari, tu rischiari la voce al suo nome.
Volendo il Poeta, nella presente Stanza, far fine alla Canzone, le dice che, sì come vedova e per la morte di Madonna Laura sconfortata, debba tutte le cose allegre e dilettevoli sfuggire, et solamente cercare seguir quelle che di dolore e pianto e danno gli soglion esser cagione.
Interrompere.
Di quà, in questo modo, in questa nostra età.
Pesa, grava.
Virgilio.
Tu nol vedi, quanto a dire tu non vedi questo.
Spene: pur si usa in desinenza.
Fare ombra, che in questo luogo significa.
Gradire, esser gradita.
Cotale e tale si usa egualmente.
Ne invece di E.
Per l'esser rotta l'alta colonna, il Poeta, nel presente Sonetto, intendiamo che volesse la morte del Signore Stefano Colonna il Giovane significare, la qual seguì non molto tempo dopo quella di Madonna Laura, e per lo verde lauro quella di lei. Duolsi adunque di questo suo doppio perduto tesoro, dicendo non esser cosa al mondo che di tal perdita lo possa più ristorare, e com'egli s'era al continuo pianger dato, essendo con sentimento del suo reo destino ch'a pianger avesse sempre, esclamando a questa nostra frale e mortal vita che paia tanto bella in vista, e che 'n sì brevissimo spazio ti tempo si perda poi tutto quello che 'n molti anni con gran pena e stento l'uomo tanto per acquistar s'è affaticato, come vuol inferire, ch'egli in acquistar e perder la familiarità d'esso Signore et l'amor di Madonna Laura fatto avea.
Bellissimi contrari.
Insurge, nel presente Sonetto, il Poeta contro la morte, mostrando quanto danno ella abbia fatto a tutto 'l mondo, in aver ogni sua forza contra di Madonna Laura usato, et nondimeno di lei, non averne altro che le ignude ossa conseguito, le quali dice che ella se le debba torre, e che la fama et il valor, che non muor mai, non è in sua forza che lo possa, come del corpo avea fatto, estinguere. E l'altro, cioè l'anima, se l'è preso et esserne quasi come d'un più bel sole ornati il cielo e sia 'l mondo sempre in memoria de' buoni, perché la fama in lui delle buone sante opere di lei, come vuol inferire, sempre sarà, la qual anima, come novo angelo in cielo prega, che 'n sua tanta vittoria d'aver il regno del cielo conseguito, il cuor di lei sia vinto da pietà di lui lassù, come la sua beltà già vinse in terra il cor di lui quaggiù.
Possa, potere.
Chiaritate, voce quasi pura latina, ma usata una sola volta e in desinenza dal Petrarca.
Seguita il Poeta, nel presente Sonetto, il suo lamento, dimostrando come l'ultimo giorno ch'egli tolse licentia, e che da Madonna Laura si partì, che 'n quell'ora il cuore gli si intepidì, e perde' suo natural calore, e ch'egli si sentiva a similitudine di colui che da una domestica et interna febbre debba esser assalito, la qual cosa giudica che fosse forse presago, cioè nuntito (sic) de' suoi tristi e negri giorni che per la morte di lei deviano seguire, non pensando egli che lieve, che leggermente, e si tosto venisse 'l fin de' suoi non integri, non perfetti beni, rispetto a lui, che della vista degli occhi di lei, intesi per li suoi beni, non s'era mai integralmente potuto saziare, i quali ora dice che son fatti chiari e felici in cielo dal lume del sommo Iddio, dal qual piove, cioè abbonda, salute e vita, e che in atto parea che dicessero a quelli di lui, qui miseri e mendichi per tal morte rimasi, che si rimanessero in pace, perché non più qua giuso in terra, ma rivedrenne altrove, ma sì ben lassù in ciel ci rivedremo.
Egri, infermi.
Il presente Sonetto è quasi della medesima sententia del precedente, nel quale il Poeta, amaramente dolendosi, si va immaginando che Madonna Laura, nell'ultimo partire ch'egli fece di lei, per alcuni fidi e pietosi sguardi ch'ella gli avea fatto, gli volesse la propria morte predire, ma ch'allora egli non seppe intender che cosa ella si volesse per quelli significare, e che si credeva, per lo tempo che n'avea a star lontano, perder solamente parte di lei e non tutto, cioè perderne la vista e non la speranza di poterla ancora rivedere, ma che già in cielo era ordinato il contrario, il che pareva essere scritto nella sua dolce, quanto all'umanità, amara vista, quanto al dolor che nell'aspetto mostrava avere, ma che per far poi in un subito più trista, più misera et infelice la sua vita, ch'egli allora non lo seppe vedere, perché piaga antiveduta assai men duole.
Infirme, invece d'inferme, ma usata solo in desinenza.
Antiveduta piaga duol meno.
Seguita pur il Poeta ancora, nel presente Sonetto, come ne' due precedenti ha fatto, il dir di quello che gli pareva che i dolci sguardi di Madonna Laura, nel suo ultimo partir che fece da lei, volessero significare, riprendendo se medesimo che, per esser in tutte l'altre cose d'intelletto veloce e pronto, in antiveder i suoi dolori fosse sì pigro e lento, soggiungendo come gli occhi di lei sfavillando parea ch'a suoi di lui, chiamandoli lumi amici, Che gran tempo foste di noi specchi, che gran tempo vi siete in noi specchiati, dicessero che 'l cielo li aspettava, e che a loro parrebbe per tempo, ma la natura, che li avea qui in terra astretti, dissolve a et annullava il nodo. E quello degli occhi di lui per far loro ira, ingiuria, e dispiacere, voleva che 'nvecchiasse, più lungamente vivesse, e non con quello di lei, come avrebbero desiderato si dissolvesse et annullasse.
Specchi.
Nel presente Sonetto, per se stesso chiaro, il Poeta narra come, vivendo, Madonna Laura gli residea nel cuore, e che, per esser lei a l'altra vita passata, egli ne riman quaggiù in terra morto, et ella lassù in ciel divina, e che, per tal partita, l'anima di lui, d'ogni suo ben privata, et amor, d'ogni sua luce ignudo, dovrebbero far per la pietà romper un duro et aspro sasso, se fosse chi manifestasse il lor dolore. Ma dice che piangon dentro ov'ogni orecchia è sorda, se non la sua, la qual ingombra, cioè ad un tanto dolore che nessuna altra cosa gli avanza che solamente il sospirar per tal dolore, non potendosi le passioni dell'animo da altri che dal possessor di quelle agevolmente conoscere, dimostrando, per l'esempio di lei, quanto questa nostra vita sia fugace e, per quello di lui, quanto fallace e cieca ogni voglia e speranza umana.
Diva.
Il presente Sonetto, per quanto giudicar possiamo, fu fatto dal Poeta nel suo ritorno da Padova a Valchiusa, essendo vicino a Gabrieres, donde per la sua più corta via bisognava che passasse. Mostra, adunque, ch'egli cominciava a sentire et riconoscer quella sua antica aura, che 'n quel luogo era usata spirare, et a veder quei dolci colli apparire ch'alla terra, come nella tavola veggiamo, soprastanno: l'erbe, de' quali per rispetto della morte di Madonna Laura dice esser vedove, l'acque torbide, e 'l nido, cioè l'abitazione in che ella soleva stare, vota et fredda di lei, ove egli col cuor vivo e morto, cioè allegro e mesto, dice: Volli giacere, volli fermo e permanente amando stare; ma che conosce aver servito a crudele e scarso signore, per tanto quanto ella visse, dice ch'egli arse del suo amoroso fuoco. et ora, essendo morto, va piangendo il suo d'esso fuoco sparso cenere, volendo inferire che né in vita, né in morte altro che tormento et pianto avea avuto per lei.
Volli nel passato, invece di volsi, è detto leggiadramente.
Abbiamo veduto il precedente Sonetto essere stato fatto dal Poeta nel suo giorno da Padova a Valclusa, essendo già vicino alla terra di Gabrieres. Ora il presente mostra averlo fatto giunto che fu all'abitazione, in che Madonna Laura vivendo soleva stare, ove non trovandola, mostra dolendosi di domandar se quello è il nido, nel quale ella, che per la sua sola virtù e bellezza alla Fenice somiglia, Mi fe' l'aurate e le purpuree penne, mise l'aurate e le purpuree chiome, Et che sotto le cui ali stando, nella metafora della Fenice che sotto 'l suo governo, tenne il suo cuore, del quale così morta ancora ne elice, cioè ne trae parole sospiri. E con esclamazione la chiama prima radice, prima origine del suo dolce male, come ancora nella quarta Stanza di quella Canzone, Verdi panni sanguigni, oscuri o persi, la qual contrarietà in più altri luoghi abbiamo veduto, che usa perché gli amorosi tormenti sono sempre con qualche dolcezza mitigati. Domandale ov'è il bel riso, dal qual venne quel lume che lo mantenne vivo e fiero ardendo. Et a se stesso rispondendo dice ch'allora era solo in terra e che ora è felice in cielo, et ha lassato qui lui misero et solo, talmente che pieno di dolore torna sempre a quel luogo consacrato per lei, essendo ella in quel luogo vissuta, et ultimamente morta et onorata da lui nel suo scriver di quello, Vedendo oscura notte intorno a colli, per esser privati del lume degli occhi di lei, che prima gli solea far giorno, e di su quai colli, salendo ella al cielo, prese l'ultimo volo, stando nella detta metafora, cioè l'ultimo salto, essendosene ella, come vuol inferire, di su quelli ultimamente salita al cielo.
Elice, verbo latino quanto trarre.
Ne' due precedenti Sonetti abbiamo veduto il Poeta esser tornato da Padova oltre all'Alpi, per voler esser a Valclusa, et aver a Gabrieres visitato l'abitazione che esser solea di Madonna Laura. Ora in questo fu fatto da lui essendo un dì nella Valle, e di quella tornando a Gabrieres, nella qual lamentandosi parla ad essa Valle, al fiume di Sorga, alle fiere, agli uccelli, che in essa valle erano usati stare, a' pesci raffrenati, e fra l'una e l'altra riva della Sorga contenuti, all'aere et ultimamente a quel sentiero de' colli, su per lo quale egli era usato, vivendo Madonna Laura a Gabrieres, andando per vederla a passare, ove dice che per usanza, e non per vederla ancora, è menato d'amore, e che nel loro conosce ben le forme usate, ma in lui no, per esser da sì lieta vita, di quando ella vivea, fatto, per la sua morte, albergo e ricettacol di doglia infinita: mostrando il luogo ove alcuna volta egli era usato di vederla, e come per quelle medesime orme, per le quali ella, la qual lasciando la sua bella spoglia, lassando il suo bello e formoso corpo in terra, nuda immacolata e pura, se n'è gita al cielo, come nel precedente ha medesimamente detto.
Riuscire.
Nel precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta esser da Valclusa partito, et in via per andar a Gabrieres. Ora il presente fu fatto da lui essendo giunto all'abitazione ove Madonna Laura vivendo solea stare, mostrando ricordarsi di tutte le sue virtù e bellezze, com'era la fronte, il ciglio insieme co' suoi begli occhi, il valore, la coscienza, la sapienza, il parlare, e l'aria del bel viso, con gli effetti ch'operar solevano in lui, domandolo; ove allora quelle erano, quasi amaramente piangendo e sospirando volesse dire, che mai più non era per vederle, mostrando di quanto bene, per la morte di lei, il mondo e gli occhi suoi, destinati al continuo piangere, fossero privati.
Ora, aura.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra di portar invidia alla terra, nella qual Madonna Laura era sepolta, perché ancora lui seco sepolto esser vorrebbe e, per la medesima ragione, al cielo, che con tanta avidità ha raccolto in sé lo spirito, e per altrui sì rado si disserra, e per altri sì rade volte s'apre, come per lui che desideroso era d'andar a trovar lei, vuol inferire che faceva; all'anime beate, ch'or hanno la sua dolce compagnia, la quale egli, con tanta brama, mentre ella visse, cercò d'avere; alla morte, la qual avendo spento lei, ch'era la sua vita, si stia ne' suoi begli occhi, e non chiama lui desideroso di morire per similmente, come desiderava, a che vuol inferire, poterli andar a rivedere.
Cupidamente, disiosamente.
Per lo presente Sonetto, il Poeta mostra essergli venuto in fastidio la vita, e che a questo suo navigar mondano tutte le cose gli nuochino (sic). Nuocongli le cose presenti, vedendosi per la morte di Madonna Laura esser condotto in miseria. Onde dice che vede al suo navigar i venti turbati, fortuna in porto, il suo nocchiero stanco, rotte arbore e sarte, et spenti i duo bei lumi che solea mirare. Nuocongli le passate, per la memoria de' felici successi di quando ella era in vita. Onde Dante, Nessun maggior dolore, Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria, per la qual cosa dice che 'l rimembrar l'accora, et gli torna avanti se 'l cor tristo ebbe mai alcun dolce. Nuocongli le future, vedendo per essa morte esser a tal suo navigar turbati et impediti i venti, cioè i proposti pensieri dei disegni, e fortuna nel porto di salute, al qual, mediante l'aiuto di lei, come in più luoghi ha dimostrato, sperava conducersi, e il suo nocchiero, inteso per lo suo animo già stanco, e rotte arbore e sarte, et venuto a meno in lui destrezza e forza. Onde ancor in quel Sonetto, Dicemi spesso il mio fidato speglio, l'animo stanco, e la cangiata scorza, e la scemata mia destrezza: forza, non ti nasconder più, tu sei pur veglio. Et oltre a questo, spenti i bei lumi, cioè morti i begli occhi di lei, ch'egli come sue fide scorte solea mirare, gli erano tutti i nunzi di futuro male, onde E l'aspettar m'accora.
Dante.
Accorare, uccidere, far morire il cuore.
Parla il Poeta, nel presente Sonetto, alla sua anima, la qual mostra esser tutta volta a ripeter fra se stessa le soavi parole, i dolci sguardi, et graziosi modi che già, in Madonna Laura vivendo, noti avea, dicendole che non voglia giunger legne a fuoco, e con quei tai pensieri rinnovellar l'amorose piaghe, massimamente essendo quelle cose, che n'erano cagione per la morte di lei, levare di terra e salire al cielo, et esser fuori di tempo e tardo il volerle più quaggiù in terra cercare, ma ch'ella debba ormai voltarsi a cosa più salda et certa, che guida buono e lodevole fine, et se qui in terra non è più cosa che piaccia loro, che debbano cercar il cielo, perché se la bellezza di lei essendo viva, e poi ancora così morta, devea lor tor pace, e tenerli sempre in continua guerra, che quella fu a principio mal veduta, e conseguita da loro.
Ancidere, invece di Uccidere, detto leggiadramente.
Ha il Poeta, nel precedente Sonetto, ammonito la sua anima che non debba più col pensar alle soavi parole, che di Madonna Laura alcuna volta avea vivendo udite, et a' suoi dolci sguardi, ch'avea veduti, giugner legne al fuoco, e rinovar l'antiche amorose piaghe. Ora in questo, parlando prima a quei tai pensieri, dice che gli diano pace, e che de' ben bastar ch'amore, fortuna, e morte gli facciano guerra di fuori intorno all'udito, privandolo di più non poter le sue dolcissime parole udire; et alle porte, cioè et agli occhi, privandoli di non più poter i suoi dolci et amorosi sguardi vedere, senza ch'egli si trovi ancora questi pensieri che gli fanno guerra dentro. Poi parla al cuore, al quale dice esser a lui solo disleale e nemico com'esser soleva, per le fiere scorte di questi tai nemici pensieri che va ricettando, et a Madonna Laura, et ad ogni esser sempre stato fedele, dicendo com' in lui Amore spiega, cioè apre i suoi segreti messaggi, intesi per quei tai secreti pensieri: così ancor fortuna ogni sua pompa e gloria, nella morte di lei conseguita, e more la memoria di quel corpo, del quale ella si morì, e che conveniva che rimuovesse l'avanzo di lui, abbreviando quel tempo che gli era dato di vivere; volendo inferire che per lo dolore, ch'egli di tal morte avea, se gli abbrevierebbe la vita. Et ultimamente dice che 'n lui i suoi vaghi pensieri s'armano d'errore, per li vani proponimenti ch'a suo modo, e come vorrebbe che fosse, egli alcuna volta faceva tanto, che lui solo d'ogni suo male, come ricettacolo di quello, ne 'ncolpo, perché vuol inferire che, se da lui non fossero recettati, la cagion di quelli mancherebbe.
Ricettare, dar ricotta, ricevere.
Avanzo, resto.
Ha il Poeta, nel precedente Sonetto, dimostrato la guerra che dal desiderio, che i suoi orecchi avevano d'udir l'usate soavi parole di Madonna Laura et agli occhi, quelli che di veder i suoi dolci sguardi, gli era fatta. Ora, in questo, parlando ad essi suoi orecchi, occhi, et ai suoi piedi, mostra loro, ch'essendo ella salita al cielo, non esser più in facoltà di loro, qua giù in terra, di poterla udire, vedere, né mandar a lei. Onde, non essendo egli stato di tal loro perdita cagione, domanda perché gli danno tanta guerra, volendo inferire che a torto gliela danno. Ma dice che debbano biasimar morte, che di terra l'ha levata, anzi, lodare Iddio che 'n cielo l'abbia assunta, il qual solo può far gli effetti da lui narrati e per se stessi chiari.
Contrari.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, ch'avendolo morte dell'angelica e serena vista di Madonna Laura, la qual esser solo rimedio contra i fastidi e suoi amorosi affanni, privato, ch'ora cerchi d'allentare, cioè di scemar la sua amorosa pena col parlar di quella, Domando la terra, sotto alla qual ella era sepolta, e che copriva 'l suo bel viso, dove ella lo lassava sconsolato e cieco, poi che l'amoroso e dolce lume degli occhi di lei più seco non era, imitando il Salmista, ove dice:
Et lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum,
volendo inferire che ella lo lassava in miserabile stato, e che da lei desiderava d'esser similmente ricoperto, per andar a riveder Madonna Laura in cielo, senza la qual il viver gli era noia, come questo medesimo ha in altri luoghi dimostrato.
Allentare, scemare.
Dimostra pur ancora il Poeta, nel presente Sonetto, ch'essendo della vista de' begli occhi di Madonna Laura privato, esser in uno smisurato dolore, e quasi in ultima disperazione condotto, per la qual cosa dice che s'amore non gli apporta nuovo consiglio di vivere di quello, il qual vuol inferire che di sopra in quella Canzone, Che debbo far, che mi consigli Amore, vedemmo che gli avea consigliato che gli converrà per forza cangiar vita, intendendo di darsi la morte, tanta dice esser la paura e 'l dolore che ange, cioè cruccia, la trista anima, perché il desiderio più che mai vive in lui. Ma essendo morta colei da chi tal desiderio nasceva, è rimasto senza alcuna speranza di poterlo più conseguire. Onde la sua stanca vita, ch'è nel frangente mare delle sue passioni senza governo, senza consiglio, e nella dubbia via dell'umane fragilità, senza fidata scorta, senza la luce de' begli occhi di lei, dalla qual soleva essere scorta per destro cammino, si sbigottisce e si sconforta, notte e giorno piangendo, diffidando senza quella poter al porto di salute pervenire. Et è condotta solamente dalla immagine guida, dall'immagine di lei, che nella memoria gli era rimasta, perché la vera immagine, cioè quella del corpo, era sotterra, anzi nel cielo, di quella dell'anima intendendo, donde del qual cielo, più chiara e più bella che mai nel suo cuor, per immaginazione, traluce, ma gli occhi no, essendogli contesa e tolta dal doloroso velo, dall'addolorato et afflitto corpo, che fa velo all'anima, il qual, di tal luce privandolo, gli fa sì per tempo cangiar pelo, cioè canuto e vecchio divenire.
Ange, cruccia o preme.
Il Poeta, nel presente Sonetto, mostra com'essendo per la morte di Madonna Laura vinto dalla passione, che, piangendo et amaramente di tal morire dolendosi, avea per usanza di salire spesse volte quei colli che passa chi da Valclusa a Gabrieres vuol andare per veder il dolce e dilettevol piano dov'essa terra di Gabrieres è posta, e dove Madonna Laura, vivendosi, soleva abitare, la qual cosa abbiamo nella origine di lei dimostrato. Dice adunque che, mirando di su quei tali per natura aspri colli, il dolce et dilettevol piano, ove era nata lei, la qual avendo sul fiorire et sul far frutto il suo cuor in mano, se n'era ita al cielo, avea pieno tutto quell'aere di sospiri, et avealo, col subito partire, a tal termine condotto, che gli occhi suoi, invano di lontano cercandola presso si sé vicino a loro, non lassavano luogo che fosse asciutto, cioè che dalle proprie lacrime non fosse bagnato, talmente che 'n quei monti, piagge, valli, fonti, e boschi non era cosa che non sapesse quanto la sua pena fosse acerba e dura.
Presso, col secondo caso.
Seguitando il Poeta nel dolersi della morte di Madonna Laura, mostra come i begli occhi e l'altre belle membra di lei, con quelle parti dalle quali solevano aver grazia, esser in poca polvere convertite, e com'egli vive pur ancora, di che si duole e sdegna, essendo senza il lume de' suoi splendidi occhi, ch'egli amò già tanto, rimaso in gran fortuna, in gran travaglio, e 'n disarmato legno, essendo egli privato di lei, ch'era il suo sostegno. Onde dice che fa qui fine al suo amoroso canto, per esser secca in lui quella vena dell'ingegno usato, che sì dolcemente lo facea cantare, e per la morte di lei, la sua cetera, per la sua sonora voce intesa, rivolta in tristo e doloroso pianto.
Polvere e polve, usati da buoni Toscani.
Ha il Poeta, nel precedente Sonetto, dimostrato com'essendo in lui, per la morte di Madonna Laura, secca quella dolce vena del suo ingegno usato che cantar lo facea, et in tristo pianto la sua cetera rivolta, che faceva fine al suo amoroso canto, ora, nel presente, quasi quel medesimo afferma, dicendo che s'egli avesse pensato che le voci dei suoi sospiri in rima da lui descritte, fossen sì care, cioè che dovessero esser di tanto costo, quanto era la morte di lei, ch'egli nel suo primo sospirare, quando a principio di lei cominciò a scrivere, l'avrebbe fatto più spesse in numero, cioè che n'avrebbe scritte più, e 'n stil più rare, et il stil più ornato et sonoro, perch'essendo ora morta colei che lo facea parlare, che de' suoi pensieri e soggetti si stava in cima, perché da lei tutti vagivano, non ha più sì dolce et accomodata lima, come che 'n quel tempo avea, che possa le sue aspre e fosche rime, limandole, far soavi e chiare, onde nella quarta Stanza di quella Canzone, Mia benigna fortuna, e 'l viver lieto, Già mi fu con desir sì dolce 'l pianto, Che condia di dolcezza ogni agro stile, et in sententia si pente non aver, vivendo Madonna Laura, più ornatamente e più altamente de' suoi amorosi sospiri scritto, non trovandosi più per l'amore di lei l'ingegno a ciò disposto, soggiungendo che 'n quel tempo il suo studio era solamente di sfogare scrivendo, o in altra forma, dell'ardenti, amorose passioni il cuore, e non d'acquistar fama, e che ora vorrebbe ben piacere, e mediante lo scriver di quelle divenir famoso, ma che quella altiera Madonna Laura, tacito, non potendo più dire, e già stanco di viver, all'altra vita lo chiama dopo sé. Onde ancor in quel Sonetto, Mai non fu in parte ove sì chiar vedessi, Ma tu ben nata, che dal ciel mi chiami etc.
Condire.
Il Poeta, nel presente Sonetto, mostra non aver mai nell'amor di Madonna Laura provato altro ch'amaritudine infinita, non essendo amore altro che solamente cosa amara, come ben dice saperlo chi n'ha fatto, come lui, con suo grande dolor la prova, e se pur, mentre ch'ella visse, ebbe da lei alcuna requie, che fu breve e rara. Ma ora, per esser morta, averlo tratto fuor d'ogni riposo, né gran prosperità di quel bel spirto sciolto, intendendo di quello di Madonna Laura, il quale allora era sciolto dal corpo, dice poter il suo avverso stato consolare. Quello, di che vedremo di sotto in quel Sonetto, spinse amor e dolor ov'ir non debba, disdirsi et essersi pentito d'aver detto, ma che solo dì e notte per la lingua lamentandosi disfoga, e per gli occhi lacrimando versa il dolore accolto, adunato nell'anima.
Requie, il medesimo che riposo
Accolto, da accolgere, raunato. (sic)
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, la Primavera, nella quale stagione egli allora era, mostrando come del ritorno di quella tutto 'l mondo si rallegrava, ma che per lui tornavano i più gravi sospiri, che Madonna Laura traesse dal suo cuore, del quale, passando ella di questa vita, se ne portò le chiavi seco in cielo, a dinotare che egli ad altro che a lei pensar non poteva. Zefiro è quel soave vento che dalle parti Occidentali in tal stagione suol venire. Garrire è il modo di cantare d'alcuni uccelli, come 'l Poeta mette in questo luogo di Progne, cioè della Rondinella, Giove s'allegra di mirar sua figlia, Giove si diletta di veder primavera, la quale è del mese di Aprile, dedicato a Venere, figlia di esso Giove.
Zefiro, qual vento sia.
Garrire.
La cagione perché vogliono i Poeti che 'l rossignuolo pianga è cosa notissima per la favola di Filomena. Ma ora, nel presente Sonetto, avendo il Poeta perduto Madonna Laura, per mostrar d'esser alla condizione di quello, finge che pianga per aver i suoi figliuoli o la sua cara consorte perduto. E, così com'egli tutta la notte essa Madonna Laura piangeva, così quello, il qual essendo del suo albergo vicino, l'accompagni nel pianto, et che gli rammenti la sua dura sorte, la qual è ch'egli non ha di chi si lagni, cioè di chi si doglia, altri che di se stesso, perché s'era assicurato, e tenda per fermo che 'n Madonna Laura non pote regnar morte, credendosi ch'ella fosse una divina Dea, e non umana donna. Onde, esclamando dice: O che lieve cosa è ingannar chi s'assecura, come vuol inferire, che avveniva allora a lui, il qual s'era di questo assicurato, e per tal esempio mostra conoscer che la sua fiera ventura vuole ch'egli vivendo e lacrimando impari a conoscere Come nulla quaggiù diletta e dura, cioè come nessuna cosa è quaggiù in terra che diletti e piaccia, la qual possa lungamente durare, per esser ogni diletto e piacer mondano fugace e leve.
Lagnare, quanto dolere.
Nel presente Sonetto, il Poeta mostra che, essendo morta Madonna Laura, non sia più cosa al mondo che questi due sentimenti, cioè il vedere e l'udire, si dilettino, che gli possa piacere, sì ben dice ch'ella, la qual agli occhi suoi fu sola lume, speglio il seppe seco seppellire, e d'ogni altra dilettazione privarlo, e che 'l vivere gli è sì gravosa e lunga noia, che chiama e brama 'l fine della vita, per lo gran desiderio d'andar in cielo a riveder Madonna Laura, la qual vivendo fu meglio non perfettamente vedere, perché quanto più certezza s'ha del valore della cosa amata e desiderata, e che non si può conseguire, tanto è l'amante di maggior passione, come dicemmo nella 6. Stanza di quella Canzone, Se 'l pensier che mi strugge, dove il Poeta a tal proposito dice: È più certezza averne fora 'l peggio. Onde in quel Sonetto, Conobbi quanto 'l ciel gli occhi m'aperse, mostra di tal cognizione averne avuta poca. Legni spalmati sono navi delle cose necessarie, e specialmente di pece e stoppa rinfrescati.
Speglio e specchio usa il Petrarca, ma speglio è più della desinenza.
Duolsi il Poeta, nel presente Sonetto, del tempo quando Madonna Laura vivea, che sia passato, mostrando ancora egli, per poterla andar a veder in cielo, desiderar di poter a l'altra vita passare. Onde dice esser passato il tempo nel quale dalla vista di lei pur qualche refrigerio del suo amoroso ardore pigliava, e similmente lei, della qual pianse e scrisse. E ben dice avergli lessato la penna con la quale scrisse, e 'l pianto, ma 'l refrigerio no, e così ancora esser passato 'l suo bel viso, il qual passando dice: M'ha fissi; cioè m'ha scolpito et impresso i suoi dolci e soavi occhi al cor che già fu mio, il qual seguendo lei che l'avea nel suo bel manto, cioè nel suo formoso corpo, avvolto, si partì da me, col quale, come vuol inferire, non degnò di voler più stare. Ond'ella se lo portò seco sotterra e 'n cielo, perché alla bellezza di esso formoso corpo, che sotterra era andato, et alla felicità de l'anima di lei, la quale era andata in cielo, sempre l'aveva molto, nel qual cielo ora dice che coronati d'alloro trionfa della invitta e sua costante ferma e stabile honestate, desiderando per morte por fine a' suoi dolorosi sospiri, per anco egli lassù da esser con lei col suo cuor poter andare.
Invicta, invincibile.
Sotterra, invece di sottoterra.
Molte volte avviene che la mente è presaga, cioè indovina così del male, come ancora del bene, la qual cosa fu dal nostro Poeta di sopra in quel Sonetto, L'ultimo lasso de' miei giorni allegri, dimostrato esser avvenuto a lui l'ultimo giorno che da Madonna Laura s'era partito. Ora, questo è quasi della medesima sententia, nella qual, parlando egli alla sua mente, la riprende de l'esser stata poco avveduta quel tal giorno, mentre ch'egli cercava di trar dalla vista di lei qualche conforto per meglio poter, nel tempo ch'egli ne doveva star lontano, gli amorosi affanni tollerare, non aver saputo, per le dimostrazioni di fuori, conoscer in lei che quello era l'ultimo giorno de' suoi dolci e felici anni, perché non la doveva mai più vedere, ricordando a l'anima la dolcezza che in quel punto dalla vista de' suoi begli occhi preso avevano, quando da lor partendo, com'a più fidi amici ch'egli avesse, lassò in guardia la più nobil salma, la più nobil soma de' suoi cari et amorosi pensieri e del suo core.
Requie, riposo.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra ch'allora, quando Madonna Laura passò di questa vita, era pressoché giunto quel tempo, al quale in quel Sonetto, Se la mia vita da l'aspro tormento, vedemmo ch'egli desiderava poter giugnere, cioè che Madonna Laura e lui fossero a l'età senile pervenuti, acciò che senz'alcun sospetto potesse narrare la lunga historia d'ogni suo amoroso tormento che nel passato tempo in amarla sofferto aveva. Ma che morte, come di tanto suo bene invidiosa, gli si era fatta all'incontro, com'armato nemico a mezza via, a mezzo il corso de l'età di lei, per non lassarla, come vuol inferire, a quel termine arrivare, essendo ella innanzi, benché breve tempo, che a tal termine venisse morta, come abbiamo ne l'origine di lei dimostrato.
Scontrare.
Incontrare.
Il presente Sonetto è della medesima sententia del precedente, nel qual il Poeta dimostra pur ancora che gli era quasi giunto quel tempo che senza sospetto avrebbe potuto a Madonna Laura tutti i suoi amorosi affanni narrare. Ma che morte, come invidiosa del suo bene, ne l'avea del tutto privato, dicendo ch'ormai era tempo da trovar di tanta guerra, che le sue amorose passioni gli facevano, pace o tregua, e che forse n'era in via di poterla trovare, se non che morte, la qual adegua tutte le nostre disuguaglianze, perché tanto a' savi, quanto a' matti, e tanto a' ricchi, quanto a' poveri, senz'alcuna differenza, ha costituito un medesimo fine, torse indietro i lieti passi, co' quali egli secondava vivendo quei di lei, onde detto, che n'era forse in via; perché Madonna Laura, la qual in quei tai passi lo scorse e fu sua guida, e ch'allora conveniva che la seguisse col pensiero, non potendola più con quei tai passi seguire, si morì, com'in sententia vuol inferire. Il resto è per se stesso, benché tutto ancora, facile e chiaro, onde altra esposizione non gli è necessaria.
Adeguare, agguagliare.
La medesima sententia de' due precedenti Sonetti è ancora di questo, nel quale il Poeta si loda d'amore, che mediante gli anni maturi di Madonna Laura, et di lui, gli aveva mostrato la forma, come senza sospetto avrebbe potuto narrarle l'antica soma de' suoi amorosi pensieri, e duolsi di morte che fra quella e tanto suo desiderio s'era interposta, significando questo per similitudine di colui che, essendo stato dalla tempesta del turbato mare lungamente combattuto, gli è mostrato il porto, dove pervenendo spera di por fine ad ogni sua molestia, et affanno ma, per essergli dal subito accidente negata, et impedita la forma di potervi aggiungere, resta di speranza d'ogni sua salute fuori.
Schiantare, rompere.
Il presente Madrigale (sic) è quasi della medesima sententia de' tre precedenti Sonetti, nel qual il Poeta si duol di morte e della vita di lui stesso: di morte per aver le sue speranze spento, le quali erano le medesime che in essi Sonetti abbiamo veduto, della vita che ancora contra sua voglia lo tenga quaggiù in terra, et non possa seguir Madonna Laura in cielo, per non volerlo essa vita conseguir. Nondimeno, dice ella essergli presente nel mezzo del cuore ogni ora, per la memoria che di lei, come vuol inferire, gli era rimasta, e qual fosse la sua afflitta e miserabile angosciosa vita, manifestamente su dal cielo, come vuol inferire, ella sel vedea.
Attendere, aspettare.
Volse il Poeta, nella presente Canzone, per sei visioni, le quali finge essergli venute, la virtù, le bellezze, la vita, et la morte di Madonna Laura significare. Onde, nella presente prima stanza, dice che, standosi egli un giorno solo alla fenestra, intendendo di quella della sua mente pensando, come ancora nella prima Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, ove della sua anima parlando dice: Sola pensando pargoletta e sciolta, onde, dalla qual fenestra, vedea tante e sì nuove, tante et rare cose, che nella considerazione di quelle era già quasi stanco, quando da man destra gli apparve fiera con fronte umana, cioè quando in visione et in umano aspetto gli apparve Madonna Laura, tanto bella da far ardere di sue bellezze Giove, e dice averla veduta da man destra, a dinotare ch'ella procedeva per la dritta via della virtù, et egli, che veniva ad esser alla finestra, torceva da quella. Era cacciata da due veltri, cioè da due cani, uno nero, uno bianco, per istar nella metaphora avendo detto fiera, ma intenda lui per lo giorno e per la notte, in tal forma significando il tempo, dal cui velocissimo corso ella era sì forte oppressa, che 'n picciol tempo la guidaro al passare della morte ove, chiusa in un sasso, fu da essa morte la sua molta bellezza vinta. Onde dice che la sua dura sorte lo fe' sospirare.
La seconda visione del Poeta, a la qual figura Madonna Laura nella presente Stanza, ora, nella presente Stanza, si è della nave con le sarte di seta e vela d'oro, tutta con testa d'avorio e d'ebano, intendendo per le sarte di seta il gentil legame che la vela d'oro, cioè la sua aurata chioma, teneva insieme per l'avorio, e l'ebano di che era contesta, il suo candido e sereno fronte, con le morate ciglia. Era il mar tranquillo, l'Aura, cioè il vento, soave, e l'aere sereno, a dinotar il pacifico e tranquillo stato di lei, e l'esser di ricca et onesta merce carca la sua virtù e pudicizia, ricca senza dubbio et onesta merce in tutte le donne, ma ricchissima, onestissima e rara nelle formose et belle. La repente tempesta orientale, che turbò l'aere e l'onde, significa la subita e violenta morte impedito il cammino del suo corso vitale, com'è alla nave quello d'andar a l'aspirato porto, quando in qualche scoglio percuote. Ma perché dica tempesta orientale è da sapere che noi troviamo che l'anno MCCCXLVIII, nel quale, secondo che 'l Poeta scrive in quel Sonetto, Tornami a mente, anzi v'è dentro quella, Madonna Laura morì, essere stato quasi in tutta Europa una pestilenza universale, la quale, sì come Giovanni Boccaccio da Certaldo, nel proemio del suo Decamerone, ancor afferma aveva avuto origine, et era prima venuta dalle parti orientali. Onde il Poeta medesimo, in una sua Egloga intitolata Laura occidens, dice in questa forma:
Pestifer hunc Eurus, hunc humidus irruit auster, ac stratis late arboribus mea gaudia laurum extirpavit.
Per la qual cosa, noi abbiamo opinione che in questo luogo il Poeta voglia significare ch'ella di tal infirmità perisse, massimamente dimostrando la sua morte esser stata repentina e violenta, com'ancor nel seguente Sonetto vedremo. E se fosse chi dicesse che questo non potesse essere, atteso che 'l Poeta, nel trionfo di morte, dice ch'ella nel suo morire fu da molte donne visitata, la qual cosa non avrebbe fatto, quando di tal infirmità fosse stata aggravata, essendo male che leggermente l'uno da l'altro si piglia, rispondo che fino a quel tempo la malizia di tal infirmità non era ancora stata intesa. Onde veggiamo che 'l Boccaccio, nel preallegato luogo, come cosa nuova allora solamente in Italia venuta, la pone, et ancora oggi in occidente sono alcuni luoghi dove gli oppressi di tal male sono, come de l'altre infirmità, senz'alcuna differenza da parenti e da amici, e così ancor da medici, visitati.
La terza visione del Poeta, alla qual figura Madonna Laura, ora, nella presente Stanza, si è del giovinetto e schietto Lauro fulminato, dicendo In un boschetto, cioè in un solitario e remoto luogo, intendendo di quello nel qual la terra di Gabrieres è posta, onde ancora nella prima Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, della sua anima parlando e questo medesimo luogo volendo significare. Questa ancor dubbia del fatal suo corso intrò di primavera in un bel bosco, et nella seconda Stanza, Era un tenero fior nato in quel bosco, e intenda il bosco per la solitudine, per più altri esempi nel medesimo luogo fu dimostrato, Nuovo, cioè raro, come in quel Sonetto, Questa Phenice de l'aurata piuma, ove dice Novo habito e bellezza unica e sola, et in quella Canzone, Qual più diversa e nuova cosa fu mai in qualche stranio clima, e che fosse bello e ameno, e in quel Sonetto, Se 'l sasso, ond'è più chiusa questa valle, ove dice: Degli occhi e 'l duol che tosto che s'aggiorna, per gran desio de' bei luoghi a lor tolti danno a me, pianto et a pie' lassi affanno, et in tutto quello lieti fiori e felici, e ben nate erbe, Fioriano i bei santi rami d'un lauro, fioriano i santi costumi di lei, al cui nome allude; onde ancor in quel Sonetto, Qual donna attende a gloriosa fama, Ivi 'l parlar, che nullo stile agguaglia, Et 'l bel tacer, e quei santi costumi Che ingegno umano non può spiegar in carte. E sono santi i rami del lauro, essendo quello ad Apolline dedicata, Giovenetto e schietto, alla tenere e pura età di lei alludendo, Che un de gli arbor parea di Paradiso, intendendo di quelli del giardino delle delizie, E di sua ombra, Et di sua norma, overamente tema, o soggetto, Uscian sì dolci accenti Di vari uccelli, stando nella metafora del boschetto e del lauro, ma intesi per le compagne di lei che 'l suo canto secondavano; onde ancora nella seguente Stanza, Ma ninfe e muse a quel tenor cantando, Et tanto altro diletto, che l'avea, dice, quasi diviso dal mondo tanto, vuol inferire, che i sentimenti gli erano da tal dolcezza e diletto legati, E Mirando l'io viso et essendo io con la mente tutto volto a lei, Quella felice pianta per esser il lauro, secondo Plinio fra i felici arbori numerato, fu percossa dal folgore, et subito svelto da radice, che medesimamente la violenta e oscura morte di lei significa. Onde dice la sua mirabili vita esser trista, che simil ombra, perché simil refrigerio non si acquista per alcun tempo mai.
La quarta visione e figura del Poeta si è della fontana, intesa da lui per l'eloquentia ch'in Madonna Laura era, onde in quel Sonetto, Vive faville uscian de' duo be' lumi, D'alta eloquentia sì soavi fiumi; et in quell'altro, Se l'onorata fronde che prescrive, di se stesso parlando, Cercate adunque fonte più tranquillo che 'l mio d'ogni licor sostiene inopia. La qual fontana dice che 'n quel medesimo bosco, nella precedente Stanza dimostrato, sorgea d'un sasso: questo per lo cuor di lei contra di lui indurito intende; onde in quel Sonetto, Giunto m'ha amor fra belle crude braccia, Nulla posso levar io per mio ingegno Del bel diamante, ond'ella ha il cuor sì duro. E nondimeno sparge soavemente mormorando acque fresche e dolci, cioè diceva, soavemente parlando, parole dilettevoli e piene di dolcezza. Il bel seggio intende per esso cuore, il quale è la sedia de l'anima. Onde in quella Canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, D'un bel diamante quadro e mai non scemo Vi si vedea in mezzo un seggio altero Ove sola sedea la bella donna, riposto dentro al corpo di lei, e conseguentemente fatto da quello ombroso e fosco, Al qual seggio non appressavano, non si potevano accostar pastori né bifolchi, a dinotare ch'ella non voleva gente rustica e rozza, Ma ninfe e muse, intese per compagne di lei, A quel tenor cantando, al proposito mosso da lei parlando, imitando Ovidio, nel 3. del Metamorphosis, ove dice:
Fons erat illimis nitidis argenteus undis, Quae neque pastores, neque peste monte capelle contigerant, aliudve pecus, quem nulla volueris nec ferra turbata, nec lapsus ad arbore ramus.
Ivi m'assisi, in quel luogo, fermai la mente, e quando di tal concerto e di tal vista, che pigliava più dolcezza, vide aprir lo suo speco, portarsene seco la fonte e 'l luogo, cioè l'eloquentia e 'l cuore, dal qual tal eloquentia nasceva, a dinotare che quando della vista di lei pigliava più dilettatione, allora ella si morì, della qual cosa dice ancor sentirne doglia, e sol della memoria si sgomenta et attrista.
La quinta visione del Poeta è della Phenice, la qual vedendo egli per la selva, cioè per quel medesimo bosco nelle precedenti Stanze dimostrato, vestita ambedue l'ape, ambedue le braccia di porpora, onde in quel Sonetto, Questa Phenice dell'aurata piuma, purpurea vesta d'un ceruleo lembo, sparso di rose i belli omeri vela, e 'l capo d'oro, per la sua aurata chioma inteso, dice che prima gli parve di veder forma celeste et immortale, finché giunse allo svelto alloro, di sopra nella terza Stanza dimostrato, et al fonte, che nella precedente veduto abbiamo, e questo quanto alla lettera. Ma moralmente finge ch'ella giunse alla cognizione che la poetica facultà era venuta meno, et ogni dotta eloquentia delle terrene dolcezze tolta via. Onde in quel Sonetto, La gola e 'l sonno, e l'oziose piume, Hanno del mondo ogni virtù sbandita, e più oltre, Che per cosa mirabile s'addita chi vuol far d'Elicona nascer fiume, perché, mirando ella le frondi del lauro sparse a terra, et il troncon di quello esser rotto, cioè perché mirando ella quelle opere, le quai dalla facoltà poetica sono prodotte, esser disprezzate, et essa propria facoltà del tutto estinta, e quel vivo umore d'eloquentia secco et asciutto, et, in sententia, vedendo ella il mondo esser rimaso senza alcuna virtù, quasi sdegnandosi di voler in tal miseria più vivere, volse in se stessa il becco, determinò del tutto voler morire, come ancor in quel Sonetto, Amor natura e la bella alma humile, ove dice: Ella sì schiva ch'abitar non degna più nella vita faticosa e vile. Onde di pietà, per vederla in tal modo finire, e d'amore, per vedersi di lei privare, dice che gli arse 'l cuore, et allora conobbe, fecesi certo, lei esser mortale.
La sesta et ultima visione è della leggiadra e bella Donna, la qual fra l'erbe e fiori andava pensosa, talmente che mai nol pensa che per la memoria del suo amor non arda e trema, per quell'ardore e timore che suol venir dal troppo amore, era in se stessa umile, ma superba contra amore, a dinotar la sua somma pudicizia. Et avea indosso sì candida gonna, et era coperta di sì candida pelle, sì texta e con le sue aurate chiome talmente composta, che parea fosse oro e neve insieme. Ma le parti supreme di tal gonna, che venivano ad esser quelle del volto, erano avvolte d'una nebbia oscura, a dinotar lo sdegno che d'esser in questa miserabil vita avea. Ma poi, a similitudine d'Euridice punta da l'angue nel tallone, non solamente si cura, ma lieta è contenta, come in fine della precedente Stanza abbiamo veduto, di questa vita per se stessa partire.
Nella presente ultima Stanza, il Poeta, parlando alla Canzone, dice ch'ella può ben dire che queste sei visioni gli hanno fatto un dolce desiderio di morire, per similmente ancor egli, come vuol inferire, di sì misera vita partirsi, et andar a trovar Madonna Laura, sua speranza lassù in cielo.
Chiusa, serrata.
Veltri, cani.
Hebano.
Repente, subita.
Madonna Laura morta di pestilenza.
Nuove, raro.
Uccelli, per che qui sono intesi.
Concento, armonia.
Il cuore è sedia de l'anima.
Svellere è proprio dell'arboreo, cioè cavar dalle radici.
Euridice.
Abbiamo, nella terza Stanza della precedente Canzone, veduto che per similitudine del lauro fulminato, e da radice svelto, il Poeta aver la morte di Madonna Laura figurato. Onde ora similmente, nel presente Sonetto, per lo cader della pianta quella medesima significa, et per l'altra ch'al cader di quella gli avvinse il cuore la memoria, che 'n quella gli era di lei rimaso, a dinotare che prima egli l'avea cantata viva, e che ora la cantava morta, come per li suoi terzetti chiaramente dimostra. Assimiglia adunque a quella pianta, che non per vecchiezza naturalmente cade, ma è quella che dal ferro, o dal vento vien ad esser per forza et violentemente svelta, et estirpata, per la ragione che nella 2. Stanza della precedente Canzone abbiamo detto, imitando Orazio, nel 4. Carmine, ove dice:
Ille mordaci velut icta ferro Pinus, autimpulsa cupressus curo percidit.
Al cader de la qual pianta dice aver veduto un'altra, che gli avvinse 'l cuore, facendolo suo proprio albergo, a similitudine di Phedera che serpe, cioè va ad onde, come 'l serpe su per tronco o muro attaccandosi, a dinotare che 'l suo amor verso di lei ancora così morta essere stato tenace e forte. E questa, com'abbiamo di sopra detto, intende per la memoria di lei, che nel cuore gli era rimasa, onde seguitando dice che quel vivo Lauro, per Madonna Laura inteso, ove, nel quale, gli altri pensieri e gli ardenti suoi sospiri solevano albergare, il vento de' quali non mossero mai fronde da bei rami, perché egli non seppe mai, come vuol inferire, tanto sospirare che potesse muoverla, né in tutto, né in parte, a far la voglia sua, essendo traslato al cielo, lassò radice, lassò immagine di lei in quel fido albergo, in quel cuor di lui, il quale m'ha detto ella se l'avea fatto proprio albergo, e nel quale è ancora, chi con gravi e mesti accenti egli chiama, come nelle presenti rime di questa seconda parte de l'opera veggiamo. Ma, essendo la viva immagine traslata al cielo, non è chi risponda, e quali fossero le radici lo vedremo nel seguente Sonetto. Calliope et Euterpe son due delle nove muse. Vogliono i Poeti che abiti in Parnaso, al fonte di Pegaso, e da' nomi loro pigliano ciascuna il suo significato, onde Calliope significa bon canto, Euterpe dilettatione. Adunque, il diletto che 'l Poeta di ben cantar avea, il scelse, diede, Madonna Laura così morta per soggetto.
Ferse, sclose.
Hotatio. Calliope. Euterpe.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, sotto figura del Lauro, come amore gli mise Madonna Laura in cuore, e come dal vomer di penna, le sue lodi scrivendo, e de' suoi sospiri, et da l'umore delle sue lagrime fu talmente adornata che ne salse l'onor, cioè la fama, fino al cielo. Onde per sé, com'egli vuol inferire, la volse quello che forse mai d'altre frondi, d'altre bellezze non curò. Vomero, propriamente, si è quello instrumento col quale, tirato da' buoi, il bifolco smuove la terra, onde il Poeta l'adduce in comparazione della penna con la qual di Madonna Laura scriveva, perché sì come il numero, smovendo e rinfrescando la terra intorno alle piante, l'adorna e rinverde, così ella dallo scrivere d'essa penna n'era adornata famosa e chiara, sempre nella metafora del lauro stando.
Vomere, quale instrumento si sia.
Volendo il Poeta, nella presente Canzone, le lodi di Madonna Laura descrivere, usa 'l stile servato da Virgilio nell'Eneide, il quale narra tutta la navigazione di Enea da poi che si partì di Sicilia, fino che lo conduce in Africa, dove fa poi che racconta a Didone tutta l'historia Troiana, fino a quando egli si partì da Troia, e da Troia la sua navigazione fino in Sicilia. Così il Poeta narra tutte le virtù e bellezze che in Madonna Laura avea notate, dal tempo ch'egli se n'innamorò. Poi introduce la fortuna di dir lei dal dì ch'ella nacque fino a quel tempo ch'egli innamorato se n'era. Onde, in questa prima Stanza, voltandosi al tempo andato, mostra senza l'aiuto d'amore non poter, con le mortali sue parole, agguagliare, pareggiare, l'Opere divine, cioè dir le lodi delle doti dell'anima di lei, la qual anima è divina e, rispetto alla parte umana, quel che alta humiltate raccolta in sé stessa cuopre, intendendo della bellezza di lei, la qual allora, essendo della terra coperta, essa terra avea quella in se stessa raccolta, et era per se medesima umile, ma alta e nobilitata da essa bellezza che se stessa raccolta avea. Onde ancor in quel Sonetto, Poi che la vista angelica e serena, E tu che cuopri, e guardi, et ha or teco, Felice terra, quel bel viso umano. Poi mostra come, quando a principio di lei s'innamorò, che la sua gentil anima era stata poco tempo nella prigione del corpo, a dinotar la tenera età nella quale era, et ancora quella di lui, essendo de l'anno e di sua etate, Aprile che significa, com'egli era nella sua florida gioventù entrato, di che nella sua vita dicemmo. E il simile era de l'anno, essendo seguito, come in più luoghi abbiamo veduto, il sesto d'Aprile, Onde subito corsi a coglier fiori, a pigliar soggetti da lei d'intorno a quei prati, dove seco a diletto riportandosi alcuna volta andava, e che ogni suo movimento et atto notava, e poi ornatissimamente nelle sue rime, facendo di quei fiori nascer il frutto, scrivea, sperando, così di virtute adorno, poterle piacere, onde in quel Sonetto, L'arbor gentil che forte amai molt'anni, Mentre i bei rami non m'ebbero a sdegno, Fiorir facea 'l mio debile ingegno a la sua ombra.
Ha il Poeta, nella precedente Stanza, della prigione del corpo di Madonna Laura detto, nella quale la gentil anima di lei, vivendo ella, stava richiusa. Ora, in questa, narra distintamente tutte le sue eccellenti parti, e prima per li muri d'alabastro intende del suo candido e delicato corpo, il tetto d'oro, per le sue aurate chiome, l'uscio d'avorio, per li suoi bianchissimi denti, le finestre di Zaphiro, per li suoi lucenti e splendidi occhi. Onde, per le quali finestre, il primo sospiro, il primo amoroso desiderio, dice che gli giunse al cuore, e giugnerà l'estremo, perché fino al suo ultimo giorno, come vuol inferire, così morta da lui saranno desiderate, e dalle quali finestre i messi d'amore, che di lei furon gli amorosi sguardi, uscirono armati di saette, cioè di folgori e di fuoco. Onde dice ch'egli ciò ripensando, pur come tal pericolo fosse ora presente, trema e paventa di loro. Coronato d'alloro, a dinotare quanto fosse il terrore che degli sguardi di lei avea, come in più luoghi ha dimostrato perché, quantunque fosse coronato d'alloro, avendo egli, come nella sua vita dicemmo, tal corona conseguita, et essendo il lauro privilegiato da Giove, che 'l folgore non lo possa toccare, nondimeno ancora di quel coronato non si teneva securo, che temeva il folgorar degli occhi di lei. Per lo altiero seggio di diamante, dove la bella Donna sedea, intende de l'adamantino cuor di lei, contra ogni ribollimento lascivo reputante, nel quale solo la sua anima sedea. Era quadro a dinotare la sua ferma costanza e virtù d'animo, perché questa forma di tutte l'altre posa più ferma e salda, e mai non scemo, perché né lui, né altri non n'aveva mai potuto alcuna cosa levare, onde in quel Sonetto, Giunto m'ha amor tra belle e crude braccia, Nulla posso levar io per mio ingegno del bel Diamante ond'ella ha il cor sì duro; et in quella Canzone, Lasso me, ch'io non so in qual parte pieghi, et, a' suoi propri pensieri parlando, Vedete che Madonna ha 'l cuor di smalto, Sì forte ch'io per me dentro nol passo. Per la colonna cristallina, il suo sereno e splendido fronte, dentro al qual era scritto e traluceva di fuor ogni pensiero, a dinotar la sua innocenza e leale purità, onde in quella Canzone, Perché la vita è breve, L'amoroso pensiero, Ch'alberga dentro di voi, mi si discopre tal, che mi trae del cuore ogn'altra gioia; et in quella, Gentil mia Donna io veggio, Dentro là dove sol con amor seggio, Quasi visibilmente il cuor traluce, facealo sovente lieto, per quello che in più luoghi abbiamo veduto, e specialmente nella prima Stanza della precedente Canzone, Gentil mia donna i' veggio, dove mostra che tal vista gli fosse previa al cielo, facealo sospirar per lo timore che 'n lui da troppo amarla alcuna volta nasceva, come nella seconda e terza Stanza della canzone detta di sopra, Perché la vita è breve, abbiamo veduto.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, il lessato proposito della precedente, dicendo come vedendosi esser giunto alle pungenti, ardenti, e lucid'arme d'amore intese, come in quella abbiamo veduto, per gli occhi di Madonna Laura, li cui sguardi erano l'amorose saette, che pungevano, e per le due proprietà del fuoco ardevano e lucevano, onde ancora in quella Canzone, Amor se vuo' che torni al giogo antico, L'arme tue furon gli occhi, Onde l'accese saette uscivan d'invisibil fuoco, Et alla sua vittoriosa insegna verde, intesa per la speranza, mediante la quale i miseri amanti sono negli amorosi lacci ritenuti, contra le cui armi, et insegna orde Giove, Apollo, Polifemo, e Marte, essendo Giove stato preso de l'amor di quasi infinite donne, come Alcmena, Semele, Caliste, Europa, e Danae; Apollo in specialità di Dafne; Marte di Venere; Polifemo, figliolo di Nettuno, fortissimo gigante, e Ciclope nell'isola di Sicilia, di Galatea, marittima Ninfa. Ma il Poeta credo voglia significare che non è chi da questo lascivo Amore si possa difendere, e che per Giove intenda ogni principe e gran signore, per Apollo tutti i letterati e i dotti, Polifemo per gli agricoltori, e Marte per i bellicosi et armigeri, ov'è il pianto ogn'or fresco, e si rinverde, non mancandone mai negli amanti nuove cagioni, per la qual cosa, non potendo egli ancora difendere, si lassò in quella tal prigione volontariamente preso menare. Onde ancor in quella Canzone, Alla dolce ombra delle belle frondi, Corsi fuggendo un dispiegato lume, ch'en fin quaggiù m'ardea dal terzo cielo, dalla qual prigione, per lo reo habito nel qual era incorso, non sapeva tornar la via, né l'arme d'uscir. Ma, come colui ch'è lacrimoso e tristo, e vede cosa ch'alletta e piace, così egli, che lagrimoso e tristo era, vide con l'occhio interiore Madonna Laura, la qual, standosi ad un balcone, standosi alla fenestra della mente di lui, egli la incominciò mirare, cominciò a pensar a lei con tal desiderio, che per esser a tal pensiero con l'animo tutto volto, dimenticò se stesso, et il suo male, per lo diletto che di tal dolce pensiero avea.
Seguitando il Poeta, nella presente stanza, il lassato proposito della precedente, finge che egli era tutto con la mente nella considerazione delle bellezze di Madonna Laura astratto e stupito, quando, sopraggiunto dalla fortuna, fu fatto attento alle parole che 'n lode di Madonna Laura, com'a principio dicemmo, nella seguente Stanza dal suo nascimento cominciano. Onde dice che egli era in terra, et il cuore, per la somma dolcezza che 'n vedere le bellezze di lei pigliava, in paradiso, ogni altra cura dimenticando, e sua viva figura sentia far un marmo, cioè piena di stupore e d'ammirazione, quando una donna assai pronta, anzi piuttosto importuna, essendo la fortuna senza alcun rispetto, e sicura, non avendo di chi ella debba temere, di tempo antica e giovane nel viso, perché dietro calva e vecchia, et davanti crinita e giovane, rispetto alla sua variabile proprietà s'usa dipingere, vedendolo a l'alto della fronte, e delle ciglia sì fiso nella considerazione delle prefatte bellezze di Madonna Laura, disse, dandosigli a conoscere ch'egli si dovesse seco consigliare, che non volesse esser tutto astratto, com'egli era, ad un oggetto solo, ma per parte tener gli occhi fissi nel bel viso di Madonna Laura, inteso per quel sole, e parte prestar gli orecchi a quelle sue parole, che nella seguente Stanza, come detto abbiamo, vedremo seguire.
Narra il Poeta, nella presente Stanza, in persona di fortuna seguitando, il felice nascimento di Madonna Laura, dicendo che 'l dì nel quale ella nacque le stelle, che fra noi producono effetti felici, erano in luoghi alti et eletti. Queste sono fra l'altre de' sette pianeti, com'egli dice, che gli astrologi vogliono per quella di Giove e di Venere intese, le quali dice ch'erano, rispetto a Giove in alti e, rispetto a Venere, in eletti luoghi, l'una ver l'altra converse, cioè voltate con amore. Perché, quando questi due Pianeti sono insieme congiunti, producono ottime et utili influenze. Onde dice che Venere e 'l padre Giove tenevano, rispetto ad esso Giove, le parti signorili, le quali intende per li gradi della X casa, che dagli astrologi è detta mezzo 'l cielo, et è attribuita agli onori, e signorie, e rispetto a Venere. Belle, intese per li gradi della prima casa, ch'essi astrologi domandano ascendente, perché quando Venere si trova in essa casa, essendo al corpo umano attribuita, fa l'uomo famoso e bello, con benigni aspetti, a dinotare ch'erano in segni di brevi ascensioni, ne' quali il mezzo cielo lo guarda la prima casa di trino aspetto, overamente di sestile, ne' segni di lunge ascensioni, che dagli astrologi sono tenuti benigni; e luci empie, rispetto a Marte, per esser come vedemmo in quel Sonetto, Quel che 'nfinita providentia, et arte, empio e crudele, e felle rispetto a Saturno, della cui pessima natura dicemmo in quell'altro Sonetto, Quando dal proprio sito si rimuove, erano quasi del tutto disperse dal cielo, a dinotare ch'erano poste in quelle case che quasi di nessun aspetto riguardano l'ascendente, come quando Saturno è nella XII e Marte nella VI casa, nelle quali stando non possono della lor malizia usare; il Sole mostra ch'ancor egli con tutto 'l suo favore in quello concorresse, e gli elementi s'allegrassero. Ma fra tanti amici e favorevol lumi, una nube che vidi lontana dice essergli dispiaciuta, questa intende per la stella di Saturno, la quale, quantunque fosse da l'ascendente lontana, pur devea l'ascendente di qualche aspetto riguardare, onde ha detto che quasi non in tutto erano disperse del cielo. E dice nube perché, sì come quelle sogliono il sereno aere turbare, così quella vuol inferire che devea la vita di lei impedire. Onde dice temere che si risolva in pianto, cioè in pioggia di lagrime, stando nella metafora della nube, Se pietate altramente il ciel non volve, volendo inferir che di necessità bisognava che fosse quello ch'esso cielo avea di lei predestinato, perché egli del suo corso non si volta, né muta mai.
Avendo il Poeta, nella precedente Stanza, in persona di fortuna, del felice nascimento di Madonna Laura detto, seguita ora in dire della sua prima età, cioè dell'infanzia, e quanto fino allora avesse il cielo favorevole, e come da lei tutte le cose pigliavano virtù, et ogni reo prodigio era placato. Onde dice che, quando ella venne in questo basso vivere, che degno non fu d'averla, parea a vederla, essendo ancora acerba, cioè di poca e tenera età, già santissima e dolce, cosa nuova, e candida perla in oro fino, intendendo per l'oro, nel quale a similitudine d'una candida perla era chiusa, per le aurate chiome di lei, e la perla per la sua bianchezza dentro da quelle contenuta; la qual similitudine veggiamo essere stata fatta ancor da lui nella sesta Stanza di quella Canzone, In quella parte dov'amor mi sprona, seguitando nell'altra virtù e proprietà ch'erano in lei, e che per se stesse si tengono facili e chiare.
Nella precedente Stanza il Poeta ha dell'infanzia di Madonna Laura trattato, ora, nella presente, pur in persona di fortuna, narra come crescendo lei nella sua puerizia in tempo et in virtute, che giunse a la sua età de l'adolescenza, quanto d'ogni virtù, bellezza, leggiadria, e grazia fosse dotata, di che il cor di lui ardea sì dolcemente, ch'altro sì dolcemente non arse mai, e ch'a dir di quelle, quand'egli solo ne sapeva, farebbe mute tutte le lingue, perché tanto, come vuol inferire, non ne saprebbe dire, che non meritassero ch'ancora più ne fosse detto. Onde dice lei aver il volto di celesti rai sì pieno che mortal vista non può fermarsi in lui. Ma temeva che la subita partita di lei di questo secolo gli dovesse tosto d'amara vita esser cagione.
Facendo il Poeta, nella presente Stanza, fine alla Canzone, narra come la morte di Madonna Laura, dalla fortuna nella precedente statagli predetta, dopo non molti anni seguitasse, alla qual fortuna attribuisce il filar lo stame della nostra vita, quello ch'esser delle Parche dicemmo in quel Sonetto, Non da l'Hispano Hibero a l'Indo Hidaspe, perché volgarmente da lei si tien ch'ogni nostro accidente venga, et ancora perché i Poeti molte volte per lo fato la intendono.
Il Petrarca in questa Canzone serva l'ordine tenuto da Virgilio.
Aguagliare, pareggiare.
Cristallina, di cristallo. Fea, invece di facea.
Vittoriosa e vincitrice è usato da boni Poeti.
Allettare, invaghire.
Balcone e fenestra usa lo istesso.
Volvere, quello che volgere.
Stelle diverse.
Parti signorili, perché intese.
Luci empie e felpe, quali sono.
Acerba, immatura, fanciulla.
Acerba, il medesimo che di sopra.Piena, invece di pieni.
Nella presente Canzone il Poeta, parlando con amor, mostra essere stato tentato da lui, dopo la morte di Madonna Laura, di dover amar un'altra Donna, ma invano, come nel seguente Sonetto vedremo, mostratogli in sententia ch'egli non può ad altro amore che da quello di lei esser più preso, dal qual morte l'avea liberato. Onde, nella presente Stanza, dice che, se vuol che egli torni sotto del suo antico giogo, e se lo vuol dominare, che prima gli convien vincere, per domarlo, un'altra meravigliosa e nuova prova, la qual, in sententia, come abbiamo detto, è di far Madonna Laura resuscitare, la qual così mostra esser facil a far lui, essendo (come si dice) la sua potentia sì grande in cielo, dove l'anima di lei vuol inferire ch'era gita, avendo Giove, Re di quello, con quasi tutti gli altri celesti Dei sottoposto al suo gioco, e fattolo d'infinite Donne innamorare, e ne l'abisso e sotto terra, dov'era il suo bel corpo, avendo similmente Plutone, al qual s'attribuisce la signoria della terra, fatto innamorar di Proserpina; onde dice che debba ritorre a morte quello ch'avea lor tolto, ch'era Madonna Laura, e ripor le sue insegne nel bel viso di lei, le quali erano gli amorosi e dolci affetti, che vivendo solea in quel mostrare. Onde, in quella stanza, perch'al viso d'amor portava insegna, Mosse una pellegrina il mio cor vano.
Avendo il Poeta, nella presente Stanza, mostrato ad amore che, se vuole ch'egli sia ancora sotto del suo giogo, che faccia Madonna Laura resuscitare, ora in questa da principio a mostrargli la forma come egli de' fare, dicendo che debba riponer dentro al bel viso di lei il vivo lume de' suoi dolci occhi, narrando quello che così morto, non che solamente quando era vivo, avea forza d'operar in lui, per la memoria che gli n'era rimasa, quantunque mostri conoscer il suo sperar di lei esser del tutto vano; concludendo che 'n altro modo egli non degna andare al suo richiamo, perché fuori del suo regno, che negli occhi di Madonna Laura, come vuol inferire, era posto, egli non ha la signoria, talmente ch'essendo nella sua prima libertà tornato, come vuol inferire, esso amore non gli può più comandare, né ad alcuna sua legge astringerlo.
Il Poeta, nella presente Stanza, seguita pur ancora il proposito della precedente, cioè a dire con amore quello ch'egli l'ha da fare, se sotto a l'usato giogo lo vuol anco tenere, dicendo che gli debba far sentire di fuori per lo audio di quell'aura, di quello spirare, che Madonna Laura nel suo dolcemente cantare facea, sì come di dentro per immaginazione la sente, narrando quello che soleva operar in lui. Aguaglia la speranza col desire, fa che la speranza di vederla et udirla, della quale vuol inferire ch'egli era fuori, sia uguale al desiderio che n'ha. Et poi che l'anima è in sua ragione del poter veder et udir la più forte di questi due esteriori sentimenti, come chiaramente fu da lui dimostrato in quel Sonetto, Occhi miei lassi mentre ch'io vi giro, potendola, quantunque ella fosse morta, per immaginazione ancora veder et udir, che debba render a quei tai sentimenti il proprio obietto, il qual era di veder et udir lei, che de l'anima era loro stato tolto, senza il qual obietto era vano ogni lor operare, perché altro che lei, come vedemmo in quel Sonetto, Ai bella libertà, come tu m'hai non poteano veder né udire, dimostrando, come ancora nella precedente Stanza ha fatto, che in altro modo seco s'affatica invano.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, a dir con amore per quello ch'egli de' fare, perché Madonna Laura torni viva, ch'egli di lei un'altra volta s'innamori, intendendo per lo ghiaccio, del quale egli soleva andar cardo, il timore che di lei avea, il quale alcuna volta era dal bel guardo de' suoi occhi rassicurato; onde in quel Sonetto, Quando 'l voler, che con duo sproni ardenti, Ma freddo fuoco a paventosa speme, De l'alma, che traluce com'un vetro Talhor sua dolce vista rasserena. Il varco, al qual vuol ch'amor si trovi, e donde 'l suo cor passò senza tornare, è quello de' begli occhi di lei, per lo quale gli si discendeva al cuore, e ne' quali occhi, com'abbiamo in più luoghi veduto, esso Amor solea abitare. Gli ami sono le soavi parole, l'esca i dolci atti e movimenti di lei.
Ha il Poeta, nella precedente Stanza, detto con amore che, s'egli intende di domarlo, che lo debba al laccio de l'aurate e bionde trecce di Madonna Laura legare, delle quali ora, in questa, mostra non voler che sia chi da quello lo possa mai, per legarlo ad altro laccio, sciorre; Negletto ad arte, cioè ad arte e studiosamente, perch'a tender avesse più grazia, disprezzato, E 'nnanellato et irto, che tutti erano concieri (sic) d'esse chiome, i quali pareano esser fatti a caso, perché quasi sempre le cose trovate o fatte a caso sogliono più che le pensate e fatte ad arte piacere, come d'una donna male abbigliata e grossamente acconcia molte volte interviene, né da l'ardete spirto della sua dolcemente acerba vista, cioè dolce vista accompagnata con qualche atto di severità, che d'ogni tempo, per la memoria che di lei gli era rimasa, teneva verde e viva l'amorosa voglia in lui. Ma poi che morte è stata sì superba che spezzò 'l nodo, ch'aperse 'l corpo di lei, nel quale era rilegata e stretta l'anima, onde ancor in quel Sonetto, Dicemi spesso il mio fidato speglio, E 'n mezzo 'l cuor mi suona una parola di lei, ch'è or dal suo bel nodo sciolta. E dice che spezzò, a dinotar la morte di lei essere stata violenta, com'abbiamo in altri luoghi veduto, ond'io temeva scampare, cioè dopo al quale spezzato nodo io temeva rimanere, come ancora in quel Sonetto, Rimansi a dietro il sesto decim 'anno, ove dice, E temo non chiuda anzi Morte i begli occhi, che parlar mi fanno, Né trovar poi quantunque gira 'l mondo di che ordischi 'l secondo, né poté poi trovare quanto 'l mondo gira, cosa de la quale si potesse un altro tanto leggiadro corpo formare. Onde domanda ad Amore quello che gli giova più con seco ritentare i suoi ingegni, non potendosi un'altra Madonna Laura simigliante trovare, et tanto maggiormente per esser egli presso a l'età senile. Onde dice esser passata la stagione, et esso amor aver perduto l'arme, de le quali egli tremava; onde come colui, che più non lo stima, domanda quello che gli può più fare, Ma quali esse arme fossero nella seguente Stanza vedremo: che chiaramente lo dirà.
Nel fine della precedente Stanza, il Poeta ha dimostrato com'essendo Madonna Laura morta, amor avea quell'arme, per le quali egli temeva di lui, perdute. Or, in questa, narra tutte quelle eccellenti doti, che 'n Madonna Laura e ch'in esse armi erano, con le quali esso Amor vinceva ogni duro e forte cuore, et delle quali, per tal morte, esser amore disarmato et egli securo che più con quelle potesse nuocere, n'era rimaso. Temevan l'accese saette poco la ragione, essendo egli nelle forze dell'appetito. Onde ancor in quel Sonetto, Ahi bella libertà, come tu m'hai gli occhi invaghito allor sì de' lor guai, Che 'l fren della ragione ivi non vale, perché dice non valer difesa umana contra 'l cielo, essendo egli, come vuol inferire, da esso ciel destinato a dover essi occhi di lei seguitare. Lo star intende per lo star in piede, avendo detto del sedere, essendo da' Latini così definito.
Nella presente Stanza, il Poeta pur ancora con amor parlando, dice ch'egli poteva bene or da uno et or d'un altro amoroso nodo gli altri animi, ch'ad amare erano inclini, legare. Ma lui a quel di Madonna Laura solo, il qual per morte essendo rotto, si duol della sua ricoverata libertà, domandando qual divina sententia avea permesso ch'egli, il quale prima di lei in questa vita era venuto dopo lei, dovesse in quella rimanere, volendo inferire quel medesimo che Marco Tullio in quello de amicitia, ove dice:
Quem fuit aequius, ut prius introirem in vitae, sic prius exire de vita;
ma che Iddio non l'avea mandate al mondo, se non perché mediante la sua gran virtù ne dovesse il desiderio alla via del cielo infiammare, tornando a replicare ch'egli non ha cagione, onde temerlo, essendo, al chiuder de gli occhi di lei, la virtù dell'arco di lui caduta.
Il Poeta, in questa ultima Stanza, pur ancora, come nelle precedenti, ha fatto intendere ad amore che, per la morte di Madonna Laura, egli è d'ogni sua amorosa legge sciolto, e come lassando ella trista qui la vita di lui. Onde di sopra ha detto la libertà non godere ma piangere, se n'era in cielo andata.
Giove, e gli altri Dei sottoposti al giogo di Amore.
Richiamar, di novo chiamare.
Obietto.
Gire et ire si dice egualmente.
Varco, luogo onde si passa.
Quantunque, qui quanto mai.
Contra il cielo non valere umana difesa.
Di più laude, di maggior laude.
Tullio.
Ferute, lo dicevano gli antichi invece di ferite, il Petrarca lo pose una volta in desinenza.
Per lo presente Sonetto, il Poeta mostra che, dopo il XXI anno che 'n vita avea Madonna Laura amata, morte averlo da quello amoroso nodo disciolto, ma che amore, non volendo ancora perdere, gli aveva teso un altro laccio, cercando, com'abbiamo nella precedente Canzone veduto, di farlo nuovamente d'un'altra donna innamorare, fra l'erba, cioè fra la grazia e dolce maniera d'essa donna, mediante la qual grazia gli animi si sogliono allacciare. Onde nel primo cap. del trionfo d'amore, Cleopatra legò tra fiori e l'erbe talmente che, se non fosse stato l'esperienza de' primi amorosi affanni che nell'amore di Madonna Laura avea sofferto, da' quali era stato fatto dotto a non così leggermente doversi a gli amorosi lacci conceder, dice ch'a gran pena sarebbe scampato. E tanto più leggermente sarebbe stato preso et arso, quanto egli era allora d'età men verde, a similitudine del legno, che quando è men verde, tanto più tosto arde. Onde in un altro suo Sonetto fuori di stampa fatto sotto questo medesimo soggetto, dell'anima di lui parlando, dice: Ben volse quei che co' begli occhi aprilla Con altre chiavi riprovar suo ingegno, Ma nuova rete vecchio uccel non prende, E pur fui in dubbio tra Cariddi e Scilla, E passai le Sirene in sordo legno, Com'uom che par ch'ascolta e nulla intende, Ma che mostra d'esser un'altra volta stato da morte liberato, come prima dell'amor di Madonna Laura gli era avvenuto, perché vuol inferire che quella tal Donna ancora lei s'era morta.
Lacciuolo, diminutivo di laccio.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, che Madonna Laura passasse di questa vita nella sua più bella e più fiorita età, come in più altri luoghi abbiamo vedito, per andarla a trovare, desiderarsi di morire, e che bel morire era allora quando ella morì per andarsene seco, che quel dì ch'egli fece il presente Sonetto, terminava appunto, della Morte di lei, il terzo anno. Ma, perché forse parrà ad alcuno strano, ch'essendo ella morta vicino a 35 anni de la sua età, a' quali termina dell'homo la gioventù, il Poeta intenda questa per la più bella e più fiorita di tutte l'altre età, è da intendere, ch'egli non intese parlare quanto alla forma del corpo, né al fiorir de' vitali spiriti, perché in tal età, e tanto maggiormente nella donna, già cominciano a mancare, ma quanto alla bellezza et al fiorir delle virtù, perché, sì come avviene dell'arbore, il quale allora è più bello e più fiorito quanto è più presso e disposto a producer il frutto, così quella età dell'uomo è più bella e più fiorita nella qual si trova disposto a voler producer il frutto delle sue virtù. E come in altri luoghi abbiamo detto, perfino a questa età non è da esser ascritto né a perfetta virtù, né ad intero vizio, alcun nostro operare, ma destandosi poi la ragione in noi, allora si può dell'esser nostro in alcuna cosa far giudizio. Et ha amore in noi più forza, perché conosciuto per mezzo d'essa ragione le virtù e quanto ne siano necessarie, con maggior forza allora di quelle c'innamoriamo. Il Sonetto non ha bisogno, per esser chiaro, d'altra esposizione.
Scorzare.
Salma, peso.
Finge il Poeta, nel presente Sonetto, che quando nel tempo dell'estate alcuna volta in Valclusa su la fresca e fiorita riva della Sorga, per voler scrivere d'amore, s'era pensoso a seder posto, che 'l muover delle frondi dall'aura che vedeva, e 'l mormorar dell'onde ch'udiva, e 'l lamentar degli uccelli che 'ntendeva, gli parea per immaginazione di vedere, udire, et intendere Madonna Laura, che 'l ciel, rispetto all'anima di lei, ne mostrò, a dinotar la sua brevissima vita e, rispetto al corpo, terra n'asconde, la qual, essendo viva ancora, rispondeva di sì lontano, com'è dal cielo a suoi sospiri, nel pietoso nodo da lui descritto, che 'n sententia è che non dovesse più piangerla, perché ella era da mortale ad eterna felice vita portata.
Roco, quanto roco.
Fersi, si fece.
Senza dubbio l'abitazione di questa valle, sì come il Poeta nel presente Sonetto ci descrive, è da esser da ogni gentile spirto desiderata, perché par propriamente luogo da filosofare, e da chi la solitudine piacesse. Adunque, in questa valle, più chiaramente che in altro luogo, era per immaginazione da lui Madonna Laura veduta, perché più licenziosamente poteva a lei col pensiero varcare. L'isola di Cipro, per esservi sempre state le Donne molto lascive, i Poeti dissero esser stata abitata da Venere et dal suo figliuolo Cupido, onde ella ne prese il nome di Ciprigna. Et il Poeta dice che non crede ch'amor avesse in quella tal isola sì soavi nidi e ricettacoli da poter sicuramente sospirare, come in essa valle erano, e che tutte le cose ch'erano in quella pregavano ch'egli amasse sempre, perché amando erano, come vuol inferire, et che in molti altri luoghi dell'opera veggiamo celebrare e fatte da lui famose e chiare, ma che Madonna Laura, per la memoria rimasa in lui della sua acerba morte, pregava ch'egli spregiasse il mondo et i suoi dolci e teneri ami, dalla forza de' quali egli era pur ancor in simil fallaci e vani pensieri ritenuto.
Avessi, in terza persona, detto poeticamente, essendo proprio termine avesse.
Seguita il Poeta ancora, nel presente Sonetto, come ne' due precedenti ha fatto, in dir di quante volte, andando solo e dell'amorose passioni oppresso sospirando per Valclusa, intesa da lui per lo suo dolce ricetto, gli pareva aver in diverse forme Madonna Laura veduta, la qual cosa era solamente per la immagine di lei, che sempre gli era presente nel pensiero, come quasi in infiniti altri luoghi, questo medesimo veggiamo aver voluto significare. Ma delle Ninfe, e come da luoghi abitati da loro, sono da' Poeti diversamente nominate, dicemmo in quel Sonetto, in qual parte del cielo, in qual idea. Né altra esposizione li daremo, giudicandolo per se stesso facile e chiaro.
Valclusa, ricetto del Petrarca.
Il presente Sonetto è quasi delle medesima sententia de' tre precedenti, nel quale il Poeta a Madonna Laura, il suo parla drizzando, mostra quanto grato le sia ch'ella torni con la sua immaginata presenza, i suoi tristi giorni e dolenti notti a rallegrare. Et così dice incominciar ritrovar le sue bellezze presenti a' suoi soggiorni, a' suoi riposi usati, i quali eran i luoghi dove, quando ella vivea, egli era usato di vederla, e dove dice che di lei andò molti anni cercando, e ch'allora andava de' suoi danni ricevuti per la morte di lei piangendo; ma che ne' molti suoi amorosi affanni usava trovar un riposo solo, il qual era che quando l'immagine di lei tornava a lui, egli la riconosceva et intendeva, e quelle cose che le persone si conoscono et intendono, e che da lui chiarissimamente espresse sono.
Alma, il medesimo che anima.
Soggiorni, riposi.
Parla il Poeta, nel presente Sonetto, alla morte, dolendosi ch'ella abbia in Madonna Laura le parti eccellenti da lui narrate spento, e lui pieno di lamenti et doglie lassato. Ma pur contra il suo dolore un sol soccorso dice trovare, il qual è ch'ella torni a consolarlo, come medesimamente ha nel precedente detto, soggiungendo che, s'egli potesse com'ella parla, riluce e splende ridire, che non solamente il cuor d'un uomo, ma quello d'un'indomita tigre, o d'un rabbioso e crudele orso accenderebbe d'amore, tanto smisurata vuol inferire che sia quella dolcezza che mediante queste tali parti esca da lei.
In un momento, in un subito.
Nel precedente Sonetto il Poeta ha dimostrato quanto fosse il conforto che dall'immaginata Madonna Laura pigliava. Ora, in questo, mostra che, quantunque il conforto fosse grande, nondimeno, rispetto a tanti suoi lunghi tormenti, era corto e poco, non altramente che sarebbe una corta e breve medicina ad un grande e smisurato dolore, tanto corto gli pareva che fosse quel tempo che dato gli era di poter pensare a lei; onde dice ch'Amore, cioè il suo amoroso affetto, che l'ha legato e tienlo in croce, in pena, quando la vede su la porta dell'alma, quando vede l'immagine lei essergli giunta alla memoria, mediante la quale essa immagine è all'anima introdotta e rappresentata, ove, dentro alla qual porta m'ancide. Onde ancor in quel Sonetto, La vita fugge, e non s'arresta un'ora, E 'l rimembrar, e l'aspettar m'accora or quindi, or quindi, Esso amore per l'amorosa paura trema. Sì scorta, sì evidente, manifesta e chiara, sì dolce in vista, e sì soave in voce, come altiera donna in suo albergo, scacciando con la fronte serena i tristi pensieri dell'oscuro grave cuore. Et in sententia dice che quando amore vede l'immagine di lei essergli giunta nella memoria, trema per quella paura che nasce da troppo amare, sì veracemente gliela par di vedere, nella forma che dice, e ch'ella faccia in lui gli effetti narrati altri fanno punto fermo in fine di questo verso, Sì dolce in vista, e sì soave in voce. E fanno costruzione in questa forma, Ancor sì scorta, sì dolce in vista, e sì soave in voce m'ancide, la qual per esser molto dura, e non dir perché amor trema, a noi piace, soggiunge, che quando l'anima di lui vede dall'immagine di lei tenuta luce venire, che per non esser di quella capace, e credendo ella ancora, com'avea fatto amore quella esser la viva vera, e non l'immaginata immagine, sospirando et esclamando benedice l'ore di quel primo dì ch'ella aprì con gli occhi, cioè con gli amorosi sguardi di quella la vita da poter andar a lei, come in quel Sonetto, Per far una leggiadra sua vendetta, fu dimostrato.
Tiemmi, mi tiene.
Scorta, manifesta.
Seguita pur ancor il Poeta, nel presente Sonetto, a dir degli effetti che per immaginazione di Madonna Laura gli pareva conseguire, dimostrando per alcune similitudini, come finemente da lei spesse volte era consigliato di quello che 'n questa vita da fuggire, e quello che da seguitar, per sua salute avea, contando, narrando, i casi seguiti fra loro nella lor vita, e pregando che egli non tardi a levar l'anima da queste vane, frali e cose terrene, all'alte e divine alzandola. Suo grave esilio intende per esser senza lei rimaso in questa vita, la qual altro non è che uno esilio della celeste patria, dove tutti aspirano tornare.
Esiglio: si usa in desinenza, et esilio per entro il verso.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, desiderar di poter dimostrar in queste sue rime, quella soave aura di sospiri, che per immaginazione veramente in sogno gli parea che da Madonna Laura venisse per lo timore, il quale dice ch'aveva ch'egli fra via non si stancasse, cioè che nel passar per questa mortal vita non gli paresse troppo duro il perseverare nell'erta et aspra via della virtù, talmente che tornasse indietro nell'oscurità dell'ignoranza, o girasse da man manca per la via che mena a perdizione, come da noi, in figura della lettera pithagroica (sic) nella terza Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, fu dimostrato. Adunque dice ch'ella l'insegna andar a l'erta, per la dritta linea che mena a salvazione. Et egli inteso i suoi santi ammaestramenti, convenir che secondo quelli si governi e regga.
Affetto, inclinazione d'animo, affezione.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, ch'essendo Madonna Laura intesa per la sua Alma e nutriva fiamma, tornava nel suo paese, cioè in cielo, donde ella era partita, et in bellezza a la sua pari stella, intendendo di quella di Venere, nella cui spera veggiamo in quel Sonetto, Levommi in quel pensier in parte ov'era, et in quell'altro, Sennuccio mio, ben che doglioso e solo, egli poner ch'ella sia gita; benché altri intendono di quella alla quale secondo l'opinione di Platone, che noi vedemmo nella quinta Stanza di quella Canzone, A qualunque animale alberga in terra, la sua anima a principio è stata applicata ch'egli si sia cominciato a svegliare, et a conoscer ch'ella per lo migliore contese, e fu repugnante al suo amoroso delirio, temprando or con dolce, et or con fella, raffrenando or con allegra or con turbata vista quelle sue giovanili e prime amorose lascive voglie, di che ringrazia lei, et il suo alto consiglio, perché furon cagione ch'egli pensasse di cercar altra forma di vivere, per la qual potesse al porto di salute pervenir, lodando esse sue arti e degni effetti proceduti da quelle, quasi effetti furono, ch'egli oprando con la lingua acquistò gloria, cioè fama in lei, et ella col ciglio, cioè col sguardo, et or lieto, et or turbato, acquistò virtute in lui.
Stella di Venere.
Seguita pur ancora il Poeta, nel presente Sonetto, in lodar di Madonna Laura l'ottimo consiglio, e le sue sante arti usate nel reprimer l'amoroso desiderio in lui. Onde fra se stesso dice: Come va il mondo, considendo quanto sia variabile, perché ora dice piacergli quello, che più per altro tempo gli dispiacque. Intendendo della ripugnanza che nell'età sua giovanile da Madonna Laura contra le sue voglie gli era stata fatta, perché ora dice che vede e sente, ch'allora debba tormento per aver salute, e breve guerra, per aver pace eterna. Perché, quando ella avesse ad esse sue voglie assentito, si sarebbe forse fatto un uom del vulgo et, così com' ha nel precedente Sonetto dimostrato, volse l'animo alla virtù. Et, esclamando alla speranza et al desiderio, mostra che sempre sono in tutto gli accidenti fallaci, perché non mai, o radissime volte, si consegue a pieno la cosa sperata e desiderata, ma quelle degli amanti esser cento volte per una dell'altre più fallaci, perché sarebbe impossibile a potersi pur solamente immaginare quanti vani proponimenti faccia uno amante per voler la cosa amata conseguire. Riprende adunque il suo cieco amore et la sua sorda mente, che fuori dalla dritta via lo tiravano, e benedice e loda lei che da quella, per non lassarlo perire, l'avea indietro richiamato.
Traviare, uscir di via.
Nel presente Sonetto, il Poeta mostra che, quando la sera vede 'l Sol che scende in Occidente, aver invidia alla felicità di Titone, del quale in quel Sonetto, Il cantar nuovo, e 'l pianger degli uccelli, dicemmo; perché allora torna a giacersi seco l'Aurora, suo caro tesoro, la qual, quantunque comunemente s'intende per quella luce che la mattina in Oriente cresce dell'orizzonte un poco innanzi ad esso Sole, nondimeno il Poeta intende ch'ella proceda sempre innanzi a quello, com'ancora veramente e con effetto fa, perché quando non è più aurora a noi, è nel voltar della spera sempre ad altri e nuovi popoli. Onde ancora Museo, parlando di Leandro et hero, dice che ciascuno di loro spesse volte, per poter esser insieme, pregavano che l'Aurora tosto discendesse in Occidente, et in altro luogo, che mentre Leandro pensava di voler andar ad Hero, l'Aurora andò all'occaso. Ma egli, come Poeta, finge che, quando la sera scende del nostro emisfero, ella, com'abbiamo detto, si torni a giacer col suo Titone, onde dice ch'esso Titone sa ben l'ora da ricoverarla, ma domanda quello ch'egli de' fare del dolce alloro, cioè di Madonna Laura, essendo morta, perché se la vuol rivedere gli convien similmente morire. Per la qual cosa dice che dipartir di loro, i quali solamente sono dall'oro all'occaso del Sole, non son sì duri a tollerare, com'è stato quello di Madonna Laura da lui, perché almeno l'Aurora torna di notte a giacersi col suo amico Titone, dove che Madonna Laura lui né di notte, né di giorno torna mai. La fronte di rose, intende per quel rossore che la sera in occidente, per rispetto de' vapori, che ascendono dalla terra percossi da' raggi del Sole, com'ancora la mattina in Oriente per simile cagione si vede. I crini d'oro, per essi raggi che talora, scendendo, si vede che rigano per entro essi vapori. Altri l'intendono pur per quella della mattina, et il suo scendere per quella luce che da lei ne viene.
Titone.
Museo.
Crini, capelli.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, quello che i suoi pensieri solevano di Madonna Laura loro oggetto, mentre ch'ella visse, fra se stessi ragionare. La qual cosa altro non era che l'immaginazioni che sogliono a lor proposito gli amanti della cosa amata fare, e quali ancora fossero dopo la morte, mostrando ch'ella vedeva, udiva et sentiale dal cielo infelice loro stato, et altra speranza conchiude non essergli rimasa di lei, esclamando alla sua felicità, all'altiera e rara bellezza, che si tosto fosse tornata in cielo, donde ell'era prima uscita, dove lei, la cui virtù e il Poetico furor di lui sì famosa et chiara l'avea fatta al mondo, avea allora corona e palma del suo ben fare.
Furor mio; cioè la efficacia della mia poesia, non essendo altro che furor poetico.
Abbiamo in più luoghi addietro veduto il Poeta accusarsi et incolpar se stesso d'essersi lassato dell'amor di Madonna Laura irretire. Ora, in questo, dice che non solamente non se ne scusa, ma che per essergli ella stata previa alle virtù conseguite da lui, come vuol inferire, che se ne pregia, e tiensene assai più caro che se di tal amore fosse mancato, biasmandole perché, che tanto al suo bene invidiassero, che sì repentinamente troncassero il fuso, abbreviassero la vita di lei, che attorcea soave e chiaro stame, che dava dolce et nobile nutrimento al suo amoroso laccio, e quello aerato e raro strale, col quale egli fu dell'amor di lei impiagato. Onde, per lo quale strale, morte piacque oltre nostro uso fuori di nostra consuetudine, perché la morte naturalmente dispiace a tutti, ma dice che non fu mai anima a suoi dì d'allegrezza, di libertà, e di vita tanto vaga, che non cangiasse il suo modo naturale, più tosto eleggendosi per Madonna Laura sempre trar guai, che per qualunque altra cantare, et in tal amorosa piaga contenuta morire, là dove ogni altra specie di morte suol dispiacere. Onde ancor in una sua epistola a Iacopo Colonna,
Atque Agiles humeros oculosque in morte placentes
. Et in tal nodo e laccio vivere, delle Parche dicemmo in quel Sonetto, Non dall'Hispano Hibero all'Indo Hidaspe.
Anzi, qui più tosto.
Qualunque, usato senza il suo sostantivo.
Inimicizia grande è veramente tra l'onestà e la bellezza, e quasi per cosa miracolosa il Poeta, nel presente Sonetto, a perpetua laude di Madonna Laura, mostra quelle essere state con somma pace e tranquillità congiunte in lei, la quale cosa di rado suol nelle Donne avvenire. Onde Ovidio:
Lis est
cum forma magna pudicitiae
. Et in altro luogo, volendo mostrar che solamente quelle Donne che sono d'animo rustico e villano possono essere caste:
Casta est quam nemo rogavit, aut si rusticitas non vetat, ipsa rogar.
Adunque, perché le belle sono da molti pregate, l'onestà non può con la loro bellezza stare, e le brutte, dalle rustiche in fuori, per pregar altri non possono esser caste. Ma l'onestà in Madonna Laura non era perché fusse rustica, essendo ella di stirpe e di natura, com'egli medesimo testifica, notabile e generosa nata. Anzi, era aggiunta con la bellezza in lei, per propria virtù e generosità d'animo, non volendo ella piegar ad atto vergognoso, o vile. Essendo adunque per morte disgiunte, cioè divise, l'una, cioè l'onestà per esser dote dell'animo dice esser in cielo che se ne gloria e vanta, l'altra, cioè la bellezza, perché è dote del corpo, esser sotterra, che la qual terra ammanta, copre, i suoi occhi, e l'altre eccellenti parti di lei, che 'mpiagavano 'l cor di lui, dice esser sparite, e s'a seguitarle è tardo, che forse avverrà che 'l suo gentile e bel nome sarà da lui con quella, per lo lungo scrivere, stanca penna consacrato, e fatto celebre e famoso.
Ammantare, coprire.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, esser asceso col pensiero al terzo cielo, perché in quello s'immaginava che Madonna Laura fosse andata, come ancor in quel Sonetto, Sennuccio mio benché doglioso e solo, vedremo; e che, avendola ivi trovata, ella, presolo per mano, gli dicesse le parole da lui replicate, e per se medesime chiare, e come per farse di felice felicissima, solo aspettasse dopo la sua morte di lui et il bel velo, et il bel corpo di lei, quello ch'egli amò tanto, e ch'era rimaso qua giuro in terra, e che 'l giudicio universale con tutte l'altre anime assumer dovea, ordinando in questo modo il testo: Te solo aspetto, et il mio bel velo, quel ch'amasti tanto, e ch'è rimaso là giuro; dolendosi che, detto le parole, ella si tacessee et allargasse la mano, lassando quelle di lui, perché al suono, cioè al sentir d'essi pietosi detti, rispetto al toccar della mano, mancò poco ch'egli non rimanesse in cielo, cioè ch'egli non divenisse beato, la qual cosa vuol inferire che sarebbe avvenuta quando ch'ella sì tosto taciuto et allargato la mano non avesse.
Giornata.
Il presente Sonetto fu fatto dal Poeta essendo a Valclusa, nel quale, della morte di Madonna Laura pur ancora dolendosi, parla ad amore, a tutte le cose che dalla valle erano contenute et a' pesci ch'l fondo della Sorga abitavano, dicendo quanto che i giorni di lui, vivendo Madonna Laura, furon chiari, e pieni di dolcezza, e quanto per la morte di lei erano allora foschi, cioè oscuri, et pien d'amaritudine, Come morte che 'l fa, come morte, la qual, avendo fatto Madonna Laura morire, vuole, permette che sia, et così dice aver ciascuno, et esser destinato, la sua ventura dal dì che nasce, come ne' suoi chiari e felici giorni con Madonna Laura reputa et vol inferire che fosse quella di lui.
Sorga, fonte.
Per lo presente Sonetto, il Poeta dimostra che, quando Madonna Laura vivea e che da gl'amorosi vermi, cioè dagli amorosi pensieri, gli era consumato 'l cuore, ch'egli andava cercando le sue vestigie, per quei solitari et inabitati poggi, ove sapeva ella essere stata, lamentandosi nelle sue rime d'amore e di lei che sì dura a' suoi preghi gli parea che fosse stata, ma che a nuovi, cioè a' primi et infermi dolorosi suoi pensieri, l'ingegno e tai sue rime erano scarse, cioè deboli in quella età, perché vuol inferire che non con quella vehementia et efficacia, che ad essi suoi infermi pensieri si sarebbe convenuto, si dolga. Ora dice quel fuoco, per Madonna Laura inteso, esser morto, e che un picciol marmo lo copre, ma che se fino alla vecchiezza fosse ito avanzando, cioè crescendo, come già in altri era avvenuto, ch'armato di rime, delle quali, per la morte di lei dice disarmarsi, con canuto, grave et alto stile parlando, cioè scrivendo, avrebbe fatto romper le pietre, e pianger di dolcezza quelli che poi udite l'avessero.
Parlare, invece di scrivere.
Dimostra il Poeta, nel presente Sonetto, per alcune contrarietà, che nelle pratiche d'amor si trovano quando dolore egli abbia, quando pensa per la morte di Madonna Laura aver il tempo, et ogni sua fatica, che in amarla avea posto, perduta, esclamando alla sua iniqua stella, alla fortuna, al fato, alla morte et a quell'ultimo giorno che partì da lei, che l'avesse in così basso et infelice stato messo. Il qual giorno dice esser per sempre stato per lui dolce, rispetto a' pietosi atti et alle dolci parole usate da lei nell'ultimo suo partire, come in più luoghi di sopra abbiamo veduto. Onde in quel Sonetto, Mente mia che presaga de' tuoi danni, Qual dolcezza fu quella o miser alma, Com'ardevano in quel punto ch'i' vidi gli occhi, i quai non devia riveder mai? E crudo, perché più non la devea, com'ha detto, rivedere.
Cordoglio, dolor di core, passione.
Parla il Poeta, nel presente Sonetto, all'anima di Madonna Laura, sciolta dal nodo del suo bello e formoso corpo, che natura dice non averne mai un altro saputo ordinare, pregandola che, da poi che gli si tolse dal cuore quella falsa opinione, la qual ella avea che 'l suo amore verso di lei, forse a reo fine prendesse, e ch'alcun tempo, come quella che pudicissima era tal opinione gli avea fatto acerba e dura la sua dolce vita, che tutta secura ora di tal sospetto debba volger gli occhi dal cielo a lui, et ascoltar i suoi sospiri, guardando quel gran sasso sotto al qual il fonte di Sorga nasce, che vi vedrà esser lui, il qual della memoria di lei e di dolor della sua morte solamente si pasce, lassando di guardar a Gabrieres, dove il suo albergo giace, et a quel luogo, ne nacque et ebbe principio il lor amor, per quello non veder ne' suoi che, vivendo ella, le spiacque di vedere, intendendo di quel medesimo che 'n persona di lei, nel trionfo di morte disse, quando finge che essendogli ella venuta in visione, parli dicendo: In tutte l'altre cose assai beata, In una sola a me stessa dispiacqui, Che 'n troppo umil terren mi trovai nata; e nel seguente terzetto: Mai assai fu bel paese ov'io ti piacqui, de' quai luoghi nell'origine di lei abbiamo, quanto fa bisogno, trattato.
Sorga, fonte.
Duolsi il Poeta, nel presente Sonetto, pur ancora di morte, che gli abbia tolto Madonna Laura, la qual era il refrigerio, lume, e riposo della sua stanca, debile, e penosa vita, facendo comparazione di lui rimaso senza la luce de' suoi begli occhi, a noi quando si fa l'eclissi di Sole, che restiamo senza la luce di quello, la qual cosa avviene quando la Luna s'interpone fra esso Sole e noi, che per esser corpo oscuro impedisca i raggi d'esso Sole che non ne possano dar luce, chiedeva a morte contra la morte di Madonna Laura aita, desiderando ancora egli, per andarla a trovar in cielo, di morire. La cui vita mostra che sia stata similitudine d'un breve sonno, et che ora, nel suo Fattore internandosi, lassù fra gli spiriti eletti, ella si sia desta, promettendo quaggiù in terra con le sue ornate rime il suo bel nome consacrare. Come la Luna sia sorella del Sole, e di Giove, e di Latona ciascun figliuolo, dicemmo in quel Sonetto. Il figliuol di Latona avea già nove.
Soror, alla latina, invece di Sorella.
In fine del precedente Sonetto abbiamo veduto il Poeta aver promesso voler con le sue rime il bel nome di Madonna Laura consacrare. Ora, nel presente, per più le sue virtù e bellezze esaltare, dice che, essendosi egli messo per egualmente al suo bello et amoroso nodo scrivere, e non già perch'egli giudicasse la forza del suo ingegno esserne sufficiente, ma per forza d'amore, il qual suol l'ingegno degli amanti destare. Onde Ovidio:
Ingenium nobis ipse puella facit
, aver trovato in tanto eccellente opera esso suo ingegno più lento et frale ch'un picciol ramo, qual sia da grande e grave fascio piegato. Onde conchiude non esser ingegno ch'a quella possa giungere, tanto nobilmente ne fu dalla natura et d'amore dotata, ma ch'egli confessa non esser stato degno pur solamente della vista, attribuendolo alla sua buona et amica ventura.
M'assolve, forse la vera lezione è mi scioglie.
Ovidio.
La sententia del presente Sonetto è una medesima con quella del precedente, nel qual il Poeta, volendo Madonna Laura esaltare, dice per Amor di lei aver cangiato il fiume d'Arno, inteso per tutta la Toscana, con quello di Sorga, ov'era andato ad abitare, e le serve ricchezze con la franca e libera povertà, essendosi per lei dalla corte partito, dove poteva le ricchezze sperare, et itosene ad abitar a Valclusa in povera solitudine, come vedemmo in quel Sonetto, Qui dove mezzo son Sennuccio mio, E poi ch'ella voltò le sue dolcezze in amaro, ond'io, cioè delle quali dolcezze io, dice, già vissi, or me ne struggo e scarno, ora del desiderio che ho di quelle mi consumo, et ho poi più volte indarno provato voler le bellezze di lei con le mie rime dipingere, per lassarne al venente secolo memoria, acciocché ad amare, et apprezzare l'avesse, ma tutto, per la loro troppa eccellentia, esser stato invano, pur delle sue lodi or una, or due di andar ombreggiando, cioè in parte aprendo, ma che, giungendo poi alla parte divina, allor ch'ogni suo ardir, ingegno, et arte vien a mancare.
Ombreggiare.
Fue, detto rarissime volte in desinenza.
Seguita pur il Poeta ancora, nel presente Sonetto, in dimostrare quanto il suo ingegno fosse debole a poter la eccellentia di Madonna Laura, intesa per l'alto e nuovo miracolo, esprimere, dicendo che Amore, cioè il suo amoroso affetto, il quale sciolse prima alla sua lingua, che poi infinite volte ne fece prova, vuol che la depinga, mostri, nelle sue rime a coloro che non la poterono vedere. E ben dice che conosce in se stesso e fanne prova chiunque per fino allora è che parli o scriva d'amore, che le sue rime non sono giunte al sommo delle lodi di lei, volendo inferire che né lui, né tutti coloro che fino allora avevano parlato o scritto d'Amore, non aveano saputo tanto degnamente scrivere, ch'ella non fosse degna di più eccellente scrittore. Onde nell'ottava Stanza di quella Canzone, Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi, So io ben ch'a voler chiuder in versi suoi laudi fora stanco, Chi più degna la mano a scriver porse. Adunque, per coloro che veduta non l'avevano, dice che chi sa pensar il vero di quanta eccellentia era stata, tacitamente fra se stesso debba estimare a farne giudicio, perché a volerlo dire, ella vince ogni stile, e che poi per dolor di non averla veduta, debba sospirare, beati tenendo gli occhi a' quali conceduta fu di poterla vedere.
Al sommo: forse è da intender che 'l Petrarca voglia inferir generalmente che le Rime, cioè la volgar Poesia, non era ancora giunta a perfezione, e dice di conoscer quello in se medesimo per umiltà.
Volse il Poeta, nel presente Sonetto, far un breve discorso, dal principio che di Madonna Laura s'era innamorato fino alla morte di lei, et in quello dimostrar il luogo, l'ora, e la stagione di tal principio, e l'età ch'ella aveva quando, venendo a morte, gli fu dato a doverla sempre piangere. Ma, perché di tutte queste cose abbiamo nell'origine di lei trattato, e giudicando superfluo in questo luogo voler replicare, diremo solamente il Poeta per questa candida cerva aver inteso di lei, la qual gli apparve sopra l'erba verde, rispetto al luogo, ove a principio fu da lui trovata, con due corna d'oro, per le sue aurate trecce intese, fra due rivere, da noi nel preallegato luogo dimostrato, all'ombra d'un alloro, alludendo al suo nome, Levando 'l Sole alla station acerba, pigliando la similitudine da' frutti, perché, essendo stato di primavera, la stagione non era ancora matura, com'è poi d'estate. Onde ancor in quel Sonetto, Amor et io sì pien di meraviglia, Qual dolcezza è nella stagione acerba, Vederla ir sola coi pensieri suoi insieme Tessendo un cerchio all'oro terso e crespo. Mostra che canto della vista di lei restasse invaghito, che per seguitarla lassò ogni altro lavoro, perché poi che di lei s'innamorò, questa fu, come vuol inferire, la maggior cura, seguitandola a similitudine dell'avaro, il quale, cercando il tesoro, disacerba, cioè addolcisce l'affanno col diletto che la speranza gli dà di poterlo trovare, perché il Poeta similmente ancora egli addolciva l'amoroso affanno che 'n lei seguitar pigliava con speranza al fine di poterla conseguire. Et, a similitudine di quelle cerve che da Cesare erano con uno monile al collo lassate in libertà, nel quale erano impresse queste parole:
Noli me tangere, quia Cesaris sum
, e così da nessuno erano mai toccate né offese. Mostra che Madonna Laura, fatta libera del suo Cesare, inteso per lo suo e nostro sommo Iddio, o veramente per lo suo forte e costante animo, avesse un simile scritto al collo di diamanti, rispetto alla sua prima costantia contra ogni ribollimento lascivo, di topaci, essendo la proprietà di tal pietra d'estinguere ogni libidine. Onde ancora nel trionfo di castità, Catena di Diamanti e di Topaci, Che s'usò fra le Donne, oggi non s'usa, a dinotare ella mai non esser stata al nodo maritale congiunta, soggiungendo che, quando ella passando all'altra vita sparve, onde egli cade ne l'acqua, cioè nel pianto, e gli occhi suoi erano stanchi ma non sazi di mirarla, che 'l sole era già volto al mezzo giorno, a dinotare ch'ella era già vicina al mezzo del suo corso vitale, come tutto fu nel preallegato luogo dimostrato.
Cerve di Cesare.
La sententia della presente Canzone si è che' Poeta si duol ancora della morte di Madonna Laura, onde in questa prima stanza dimostra che quando ella vivea, e che gli conveniva, per andar in qualche suo viaggio: come più volte per venir in Italia abbiamo veduto, da lei allontanarsi, quantunque non per suo volere, ma per esser così dalla sua stella destinato, ch'almeno andava pascendo 'l cuore della memoria di lei, e della speranza di doverla tornar a vedere. Ma ora, essendo per la sua morte di tale speranza privato, e rimasogli solamente la memoria, dice ch'egli pasce il suo gran desiderio ch'à di rivederla, di quest'una sola, onde l'anima di lui ne viene ad esser men frale, meno debole e digiuna, che se ancora di questo solo nutrimento fosse privata.
Nella presente Stanza il Poeta mostra che, per essergli mancato quel caro nutrimento che ricever soleva dalla dolce vista di Madonna Laura, esser a similitudine del corrier, al qual manchi tra via il cibo, perché, mancandogli insieme con quello la virtù, che presto lo faceva andare, conveniva che rallentasse il corso, così dice che, mancando alla sua vita quel nutrimento, che da la vista di Madonna Laura gli soleva venire, nel qual morte, che fa nudo 'l mondo di lei e lui mesto, diede di morso d'ora in ora, come colui a chi senza di lei la vita era in fastidio, se gli fa ogni dolce acerbo, et ogni bel piacer molesto, talmente che spera non fornir il breve cammino ch'a viver gli era statuito. E paventa, perché
ultimum terribilium est mors.
Nondimeno, dice fuggir questa breve e fragile vita, la quale, perché quasi subitamente passa, assomiglia alla nebbia et alla pollere posta al vento, per più esser pellegrino, non essendo quella altro ch'un breve pellegrinaggio, nel quale, chi per una e chi per un'altra via, tutti a Roma volgiamo andare. E mostra contentarsi che la sua fine l'abbia a d'esser tale, quale allora mostrava di veder essere, quando per il suo destino lo permetta.
Mostra pur ancor il Poeta, nella presente Stanza, come nella precedente ha fatto, desiderar di morire, dicendo mai questa mortal vita non essergli piaciuta, se non per amor di Madonna Laura, ma ch'essendo ella, la qual era il suo lume, et quel d'amore, morta, vorrebbe che gli fosse lecito di poter seguitare il suo spirto, onde, mediante il quale, egli visse, non reputando senza di lei la sua esser più vita e, se stesso riprendendo, com'ancor in altri luoghi abbiamo veduto, d'esser stato poco accorto quell'ultimo giorno che da lei s'era partito, a non aver provveduto al suo stato, et prima di lei esser corso alla morte, potendo aver quella di lei ne' suoi begli occhi veduta, et essendo bella cosa il morir in felicità, e non aspettar che la rota dia la volta, come non solamente molti et infiniti antichi, ma de' moderni esempi ancor assai gran numero n'abbiamo.
Seguita pur il Poeta, nella presente Stanza, in dire come quell'ultimo dì, che da Madonna Laura era partito, ch'ella avea ne' suoi pietosi occhi il caso della sua orrenda morte scritto, e soggiunge ch'allora era bello il morire, quando morendo egli non moriva seco la sua vita, et l'ottima parte di lui, la qual era Madonna Laura, intendendo s'egli fosse morto quando da lei l'ultima volta partì, come dirà nella seguente Stanza, ma che, avendo ora morte, per aver fatto Madonna Laura morire, sparse, cioè divise da lui, le sue speranze, le quali tutte, come vuol inferire, da lei nascevano, che vive, a che pensando trema, essendogli il viver senza lei, come in altro luogo ha dimostrato, solo orrore e spavento.
Riprende pur ancora il Poeta, nella presente Stanza, il suo intelletto, non aver saputo quell'ultimo giorno discerner nella fronte di Madonna Laura la morte di lei, et l'infelicita di lui, perché dice che quando a tal bisogno esso suo intelletto fosse stato seco, et non disviato e volto, come vuol inferire, nella vaghezza, che 'n considerar l'eccellerti parti di lei avea, egli avrebbe ben potuto discerner nella fronte di lei come per la sua morte egli era giunto al fine d'ogni sua dolcezza et al principio del suo molto amaro. La qual cosa intendendo, avrebbe potuto dolcemente in sua presenza darsi la morte, et andarsene innanzi a veder in cielo la beata fede di lei preparare, ma che ora la seguita con altro pelo, perché canuto et vecchio si vede venire.
Nella presente ultima Stanza, il Poeta parla alla Canzone, dicendo che s'ella trova alcuno che nel suo amore quietamente viva, che lo debba confortare al morire, perché la morte a tempo è refugio, et quello, il qual può ben morire, che non debba, com'ha fatto lui, la morte indugiare.
Esigli: pur traversi, violenta.
Frale, fragile.
Fa, in iscambio di facea.
Marte, quello che è.
Seguitare e seguire, si dice egualmente.
Sparte, cioè al vento.
Preparare, apparecchiare.
Nella presente Canzone, facile per se stessa e chiara, il Poeta pure ancora di morte, ch'abbia fatto morir Madonna Laura, si duole, et pregala, per poterla andar a veder, e uscir di stento, che 'l simile voglia far di lui. Onde, in questa prima Stanza, solamente in sententia dice che la cagione per la quale egli odia la vita e brama la morte è per vedersi dalla felice vita di quando ella vivea subitamente per sua morte condotto in miseria.
Parla il Poeta, nella presente Stanza, alla morte, della qual dolendosi la chiama crudele, acerba, inesorabile, cioè implacabile, perché, avendo ella spenta del mondo Madonna Laura, gli avea data cagione di continuo pianto, et i suoi sospiri dice che non vanno in rime, perché vuol inferire esser tanti et tali che 'n quella non si possono esprimere, com'ancor del suo duro martir avviene, perché vince, come dice, ogni stile.
Duolsi il Poeta, nella presente Stanza, che 'l suo amoroso stile sia condotto A Parlar d'ira, cioè a parlar con ira, come nella precedente Stanza veggiamo aver contra di morte parlato, chiamandola crudele, acerba, inesorabile, et a ragionar di morte domandando ove ora sono i suoi versi e le rime che 'l gentil cuor di Madonna Laura pietosamente et lieta solea udire, et ove il favoleggiar d'amore, che seco stesso le notti alcuna volta vegliando solea fare, volendo inferire che, per la morte di lei, tutte queste cose erano passate, et che non pensava più se non a cose che solamente l'inducevano al pianto.
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, che Madonna Laura vivea, che 'l suo amoroso pianto, accompagnato dal desiderio et dalla speranza che del suo soave sguardo avea, gli era dolce, e facevano nello scriver le sue lodi tutte le notti vegliare. Ma essendo ora, per la morte di lei, fuori della speranza di poter più tale sguardo vedere, il quale alle sue basse rime era alto soggetto, il pianto gli era più amaro che morte.
Seguita il Poeta in dire delle sue rime, alle quali Amore, cioè Madonna Laura, avea dentro a suoi begli occhi posto chiaro segno, cioè facile e bel soggetto. Et ora, per la sua morte, l'avea volto in pianto, ricordandosi del passato e lieto tempo, per la qual cosa dice ch'egli va insieme col pensiero cangiando 'l pelo et invecchiando, e pregando morte che lo tolga a sì penose et angosciose notti, come quelle ch'allora lui in continuo pianto consumavano.
Assai si duole il Poeta, nella presente Stanza, che per la morte di Madonna Laura ogni suo riposo gli si sia convertito in travaglio, et ogni allegrezza in pianto, dicendo che 'l regno d'amore, il quale allora per tal morte, com'abbiamo veduto in tutta quella Canzone, Amor se vuoi, ch'i' torni al giogo antico, era tanto tristo e misero, quanto che fosse mai lieto, non avea sì vario stile, non avea tanto varia fortuna, quanto era quella di lui, ch'allora per lo medesimo accidente avea.
Seguita il Poeta in dire della sua variata fortuna, da quello che soleva essere quando Madonna Laura vivea, dicendo che 'n quel tempo nessuno vivea più lieto di lui, ma che allora nessun vivea più tristo, e contra la morte di lei non aver altra speranza che solamente il morire, perché in altra forma, come vuol inferire, non spera di poterla mai più vedere.
Afferma il Poeta, nella presente Stanza, quello che 'n fine della precedente ha detto, che morte sola, dalla quale per aver fatto Madonna Laura morire egli era stato morto, potea per morte fargli Madonna Laura vedere, la qual gli soleva ogni dispiacevol cosa, com'erano i sospiri, il pianto, il vento e la pioggia, in piacer convertire.
Desidera il Poeta aver uno stile sì pietoso che da morte possa aver Madonna Laura, come Orfeo ebbe la sua Euridice, senza rime, imitando Statio nel quinto delle Serve, ove d'esso Orfeo parlado dice:
Tristemque togum sine
carmine flevit,
la cui favola recita Ovidio nel X lib. del Metamorphosis.
Volge il Poeta, nella presente Stanza, il parlar ad amore, al qual dice ch'avendo egli lungo tempo pianto il danno avuto della morte di Madonna Laura, non sperando aver da lui per l'avvenire vita men crudele, ch'egli s'è voltato a pregar morte che lo faccia morire, per poter andar ove Madonna Laura era.
Nella presente Stanza il Poeta dice che, se le sue rime possono salir tant'alto, ch'aggiungano Madonna Laura in cielo, ch'ella ben riconoscerà il suo mutato stile, da quello ch'era prima che morte, andando essa Madonna Laura in cielo, facesse chiaro giorno a lei, et a lui, perdendola, atre, cioè tenebrose et oscure notti, avendo perduto lei, la qual, come vuol inferire, era 'l suo sole.
Prega il Poeta, nella presente Stanza, tutti quegli animali che sospirano per amore, che preghino morte, la qual dice esser fine di tutte le miserie, com'ancor nel trionfo di morte. La morte è fin d'una prigione oscura, che non gli sia più sorda, come fino allora al suo tanto chiamarla era stata, ma che muti Quel suo antico stile, quella sua tanto usata durezza, che seco, a non volerlo di sé contentar usava, potendolo far lieto di quello, con che ella suol ogn'altro in questa vita attristare.
Seguita pur ancora il Poeta, nella presente ultima Stanza, il proposito della precedente, dicendo che morte lo può in breve spazio di tempo far lieto, onde la prega ch'ella voglia, col venir a lui, il suo angoscioso e perpetuo pianto finire.
Condire, onde condito.
Chiaro segno, facile è bel soggetto.
Stile per fortuna.
Statio.
Ovidio.
Antico stile, usata durezza.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, come, avendo veduto a principio Madonna Laura in non false ma in vere e vive immagini eguale agli spirti celesti, egli se ne innamorò; e come l'anima di lui , la quale de l'amoroso suo volto spesso arse et alse, arse e gelò, vaga d'ir seco, desiderosa de' suoi vestigi imitare, aperse l'ali del desiderio e della speranza ch'ebbe di poterlo fare, ma invano, perché al suo terrestre e mortal peso la salita era troppo alta, la difficoltà era troppo grande. Poco tempo da poi dice ch'ella gli uscì dalla vista, perché si morì, di che pensando ancora dice; M'agghiaccio e torpo, mi sgomento et apigrisco (sic). Et a suoi begli occhi, che sono le finestre per le quali morte, che molta gente attrista, trovò la via d'entrar nel suo bel corpo, con modo di dolore esclamando, di tanto infelice e miserabili caso si dole. E la via dice aver trovato per esse finestre, perché gli occhi son di tutti gli altri membri i primi a morire.
Alse, gelò.
Torpire, impigrire.
Narra il Poeta, nel presente Sonetto, come quando di Madonna Laura alcuna volta si torna a ricordare, e qual nella fiorita età di lei egli l'avea veduta, tutta accesa de' raggi di sua stella, tutta accesa de' raggi d'amore, essendo la sua stella quella di Venere. Onde in quel Sonetto, L'alma mia fiamma oltre le belle bella, Ch'ebbe qui il ciel sì amico e sì cortese, Anzi tempo per me nel suo paese è tornata, et alla par sua stella; ma più chiaramente in quello, Levommi il mio pensier in parte ov'era; et in quell'altro, Sennuccio mio benché doglioso et solo, si dichiara, che nel suo primo occorso pargli sì onesta et bella in se stessa raccolta, e sì romita, cioè sì sola, veracemente di vedere, che grida ell'è ben d'essa, et in dono le chiede ch'ella gli debba favellare, ma talor gli par che risponda e talora no, secondo che 'l pensiero della immaginazione gli ditta, tanto ch'egli, a similitudine di colui ch'erra, e del suo errore poi più drittamente stimando, s'accorge, dice alla sua mente, ch'ella s'inganna, perché sa bene che nell'anno MCCCXLIII, il dì d'Aprile, nella prim'ora, la beata anima di lei uscì del suo corpo, a dinotare che 'n simile stagione, simil mese, in simil giorno, et a quella medesima ora che di lei s'era innamorato, ella passò a l'altra vita, come in quel Sonetto, Voglia mi sprona, amor mi guida e scorge, et in questo presente si chiarisce, Di Lethe, e come significhi oblivione, in più luoghi a dietro abbiamo già detto.
Accesa de' raggi di sua stella, cioè di amore.
Quando morì Madonna Laura.
Per più esaltar la sua eccellente Laura il Poeta, nel presente Sonetto, mostra che tutte le bellezze che furor mai, ch'allora erano, et che mai crede che saranno, esser state in quella età, et in lei sola, benché per sue pene, perché tanta bellezza vuol inferire che fosse del suo amoroso incendio cagione. Et, benché natura non voglia, né sia cosa conveniente, far tutti gli altri poveri per un solo arricchire, pur allora passando i termini dell'onesto, dice ch'ella versò in lei ogni larghezza, domandando in questo suo dire a tutte quelle donne che sono, o si tengono essere belle, perdono, la qual bellezza tosto disparve, perché ella tosto si morì. Onde, per piacer alle sue sante luci, gli giova di cangiar la poca vista, cioè il poco conoscimento, che 'n discernere gli era prima ch'ella morisse, per grazia offerta dal cielo, di che a pena il mondo errante se n'era accorto, in vederla allora ch'era morta con l'occhi della mente lassù in cielo. Onde ancora in quel Sonetto, Spinse amore e dolor ov'ir non debba, Nè vorrei rivederla in quest'inferno, Anzi voglio morire e viver solo, Che più bella che mai co' l'occhio interno Co gli angeli la veggio alzata a volo, A pie' del suo e mio signor eterno, Sol per piacer alle sue luci sante, Perché di quanto egli vedea esser più bella lassù in cielo, di quello che fatto avea quaggiù in terra, di tanto maggior fama nel suo scriver di tal bellezza la poteva acquistare, et egli a lei maggiormente piacere, essendo ella di tal fama stata desiderosa, come di quella Canzone, Che debb'io far, che mi consigli amore? ove in persona d'amore dice, E sua fama, che spira in molte parti ancora per la tua lingua, Prega che non estingua, Anzi la voce al suo nome rischiari, Se gli occhi suoi ti fur dolci, né cari, E nel trionfo di morte in persona di lei, E piacemi il bel nome, se ver odo, Che lunge e presso co la vo dir m'acquisti.
Versò, pose.
Disparve, mancò, fuggì via.
Narra il Poeta, nel presente Sonetto, quanto fosse veloce a fuggir quel tempo che egli visse vivendo Madonna Laura, biasimando la miseria, et instabilità del cieco mondo, e per l'esempio di se stesso riprendendo l'ignoranza di coloro che mettono speranza in lui, nel qual dice essergli stato tolto il cuore, e che ora se lo tien Madonna Laura, la qual, essendo in polvere, non giunge osso a nervo, ma che l'anima, intesa per la miglior forma che sempre vivrà in cielo, ogni ora delle sue bellezze l'innamora più, onde così Cangiando 'l pelo, cioè canuto et vecchio divenendo, va pensando qual sia oggi la felicità di lei, in qual cielo, qual grado le sia dato per sua dimora, e qual fosse a vedere, quando ella quaggiù fra noi vivea, il suo leggiadro velo, cioè il suo formoso e bel corpo.
Cangiando il pelo, cioè i capelli, canuto e vecchio divenendo.
Esclama il Poeta, nel presente Sonetto, al tempo et a' giorni andati, e da lui male spesi, mostrando conoscer ora la sua velocità, da la quale egli era stato ingannato, benché li scusa, dicendo ch'essi fanno il suo corso ma riprende et incolpa se stesso, essendogli dalla natura stato dato gli occhi della mente da poterlo conoscere, et egli averli sempre tenuti ne' suoi mali, i quali intende che fossero quelli di Madonna Laura, dalla quale ogni suo male veniva, di che dice vergognarsi, et averne dolore, e che sarebbe ora, anzi esser passata, che 'n più sicura parte che nella vanità li dovesse voltare, ponendo fine a' suoi amorosi guai e, volgendo il parlar ad amore, che per questo suo accorgersi l'anima non però si parte ancora del suo amoroso giogo, ma si dal suo male, cioè ma si dal suo corpo, il qual è mal de l'anima. Onde ancor in quel Sonetto, Diciassette anni ha già rivolto il cielo. Vero è il proverbio ch'altri cangia il pelo anziché 'l vezzo, e per lentar i sensi gli umani effetti non son meno intesi, Ciò ne fa l'ombra ria del grave pelo, volendo inferire che prima si morrà ch'egli si possa da tal giogo liberare, sentendosi a poco a poco venir meno, E con che studio, cioè che mezzo, si faccia questo, ch'impossibile ad esser par che sia, dice ch'esso amore se lo sa, e che non è cosa, la qual venga, né sia fatta a caso, ma esser virtù, anzi bella et ingegnosa arte trovata da lui. Onde in quel Sonetto, Io mi rivolgo indietro a ciascun passo, in persona d'esso amore, Non ti rimembra che questo è privilegio degli amanti sciolti da tutte qualità umane.
Corpo, mal dell'anima.
Parla il Poeta, nel presente Sonetto, alle sue dogliose rime, dicendo ch'elle vadano al duro sasso, sotto al qual Madonna Laura era sepolta, et in quel luogo debbano l'anima di lei chiamare, la qual risponde dal cielo, con dirle come del navigar per queste orribil onde delle passioni e perturbazioni umane egli è già lasso. Ma, ricogliendo le sue sparse fronde, ma imitando le sue note e chiare virtù, le va pur dietro così passo passo, solo di lei ragionando viva e morta, anzi pur viva, e fatta da lui, per tal suo di lei ragionar, immortale, acciò che 'l mondo la conosca et a me, pregando ch'al suo passar di questa a l'altra vita le piaccia esser accorta, et avveduta, e lassù, tale quale ella è nel cielo, voglia ritrarlo e chiamarlo a lei.
Lasso, stanco.
Mercede, premio.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra che se per onestamente amare si merita mercede, e se la pietà può, quando è usata, di potere, aver, grande speranza dalla sua salute, per esser (come dice Madonna Laura) et a tutto 'l mondo alla sua paura fede chiarissima, avvenga che, quando ella vivea di lui fosse paventosa, credendo ch'egli forse a reo fine pretendesse, ma ora dice ch'ella nol crede, ma sa che quello stesso ch'egli volea allora, ancora prima quando ella vivea, si volse perché in Dio, come vuol inferire, chiaramente ogni cosa vedea, onde ancora nel secondo cap. del trionfo di morte, Deh Madonna diss'io, per quella fede che vi fu credo al tempo manifesta, Or più nel volto di chi tutto vede, E che se allora, quando ella era in vita, udia le sue parole e vedevagli il volto, dalle quali cose leggermente poteva essere ingannata, che ora vede l'anima et il core, da quali alcuna cosa non può esser ascosa. Onde spera ch'ella abbia ad aver pietà di lui, e che al fine della vita debba venir per lui con quella gente nostra, con quella schiera vera amica di Cristo ed onestate, della qual vedremo che tratta in quel Sonetto, Sennuccio mio benché doglioso e solo, dove mostra che seco nella terza spera, la qual è attribuita a Venere, sia felicitata.
Volse, usa il Petrarca, ma più volle, nel passato.
Essendo il Poeta stato molti giorni che Madonna Laura non l'avea, com'era usata di fare, nel sonno visitato, ora con lei di tal cosa nel presente Sonetto si duole, domandandole qual cosa sia quella che possa dal suo refrigerio ritardare, non albergando in cielo ira o sdegno. Onde, cioè per la qual ira e per lo quale sdegno ancora un bello e pietoso cuore talora quaggiù fra noi degli altrui tormenti si pace e gode sì, cioè talmente, ch'amor è vinto nel suo regno, essendo egli in quel cuore, ove suol regnare da l'ira et dallo sdegno talor vinto e superato, perché molte volte, e specialmente in cuor gentile, può molto più sdegno che l'amore. Adunque, poi che 'n cielo questo non può avvenire, la prega ch'ella, la qual vede e sente ogni suo male, e che sola può tanto suo duol finire, che con la sua ombra voglia, tornando come far soleva, a visitare i suoi lamenti e doglie quietare.
Con la tua ombra, alludendo al Lauro.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, che li suoi preghi, fatti nel precedente a Madonna Laura, in cielo siano stati esauditi, e ch'ella lo torni a visitar nel sonno, come prima era usata di fare, onde 'l viver dice non essergli più, come solea, molesto. Beata te, cioè beata lei, Che può beare, la qual può far beato altrui con la sua vista, ovver con le parole intellette, intese, da noi soli ambedue, solamente da ciascun di noi due, volendo inferire che per esser ogn'altro inesperto degli amorosi casi loro, de quali ella parlava, non potevano esse parole di lei da altri che da lor due, ch'espertissimi di quelle soli erano, esser intese, narrando di quelle solamente, com'ella, chiamandolo suo fedel caro, diceva dolerle assai di lui, d'essergli stata, come vuol inferire, dura, che ciò era solamente avvenuto per lo comun bene di ciascun di loro; onde ancora nel secondo Cap. del trionfo di morte in persona pur di lei, Perché a salvar te e me null'altra via era a la nostra giovanetta fama, né per sferza è però madre men pia.
Il mio cordoglio, cioè Madonna Laura, da cui nasceva il suo doglioso stato.
Intellette, alla latina, intese.
Nel presente Sonetto il Petrarca, come nel precedente ha fatto, mostra esser de' suoi amorosi affanni da Madonna Laura pietosamente nel sonno confortato, e che da lei con le mani gli siano asciugati gli occhi dal pianto, e col parlar apportatagli una infinita dolcezza, e che gli domandi quello che vale il sapere all'uomo che si sconforta, come vuol inferire che faceva lui, intendendo che poco vale la sapienza, quando al bisogno e ne' casi avversi l'uomo non la sa in se stesso usare, essendo vana e stolta cosa l'attristarsi degli avversi, e rallegrarsi de' prosperi avvenimenti di Fortuna; e che gli dica che non debba pianger più per lei, che non è, com'egli si crede, morta, essendo viva e felice in cielo, ove lui ancor desidera che sia.
Saver, in luogo di sapere, è della lingua.
Il Poeta, nel presente Sonetto, seguita pur ancor nel dire de l'apparir che Madonna Laura gli faceva nel sonno. Ma prima mostra aver ammirazione, come quando egli ripensa all'eccellenti parti di lei, delle quali per morte si vede esser privato, che per lo dolore che n'ha, egli viva ancora. Ma dice che non vivrebbe già, se da lei, là verso l'aurora, non fosse, come detto abbiamo, visitato e confortato, venendo ella, per lo scampo di lui, ad intentamente la lunga historia delle sue amare pene ascoltare, mettendo l'ora dell'aurora perché, sì come dicemmo in quel Sonetto, Già fiammeggiava l'amorosa stella, i Poeti vogliono, et i filosofi affermano, ch'a tal ora si possa sognar il vero.
Narra il Poeta, nel presente Sonetto, quello che nel precedente ha detto, ch'a Madonna Laura nel sonno diceva, la qual cosa altro non era che 'l lungo processo dal principio alla fine del suo amore, e de' modi da lei tacendo in tal suo ragionar tenuti, dicendo Laura mia sacra, alludendo al vento, onde dice Spira, cioè torna sì spesso, che per la famigliarità presa con lei, come vuol inferire, pigliò ardimento di dirle il mal che in amarla ho sentito et ancor sento che, vivendo ella, io non sarei stato Oso, cioè ardito, dirle. Il testo per se stesso si rende facile e chiaro, perché altra esposizione non giudichiamo essergli necessaria.
Oso, quasi a usus latino, ardito.
Nella presente Canzone il Poeta seguita pur ancor nel dir de l'apparir che Madonna Laura per consolarlo nel sonno faceva, come ne' precedenti Sonetti ha detto, e de lor dolce l'un con l'altro ragionar insieme. Onde, nella presente prima Stanza, solamente narra come quando ella gli appare, ch'egli tutto smorto della pietà del suo proprio languire, e della paura che nasce dal troppo amare, le domanda donde ella viene, e ch'ella, traendosi dal suo bel seno un ramoscel di palma et un lauro, de' quali quello che significhi di sotto vedremo, risponda venir al ciel empireo a lui solamente per consolarlo.
Nella precedente Stanza abbiamo veduto Madonna Laura aver risposto al Poeta esser discesa dal cielo, solamente per venirlo a confortare. Ora, nella presente, mostra che, avendola egli con parole e con atti ringraziata, che le domandi ancora donde e come ella sa il suo misero stato, per lo quale a consolarlo era venuta, e ch'ella gli risponda che 'l suo pianto insieme col vento de' sospiri penetra fin al cielo, e turbano la sua pace, tanto, dice, ti dispiace ch'io partita sia di questa miseria mondana, e giunta a migliore e più felice vita, la qual cosa, se tu m'amasti quanto tu, mentre ch'io fui al mondo, ne' sembianti e ne' tuoi dir, cioè ne' tuoi detti, mostrasti, ti devria piacere.
Risponde il Poeta, nella presente Stanza, a quello che nella precedente ha mostrato che Madonna Laura gli dicesse, cioè che s'egli l'avesse amata, che non piangerebbe, perché ella fosse a miglior vita passata, dicendo ch'egli non piange altro che se stesso, per esser senza lei, la qual era il suo Sole, in tenebre, e per l'amorose piaghe in martir rimaso, certo, cioè assicurato, però sempre, come di cosa ch'uom vede chiaramente presso, del salir di lei al cielo, domandando come et a che effetto Iddio e natura avrebbero tanta virtute in un cor giovanile, come fu quel di lei, se l'eterna salute non fosse al suo ben far destinata, volendo inferire che questo era stato manifestissimo segno a tutto 'l mondo ch'ella era salita al cielo, perché, sì come dice l'Apostolo:
Quos assumpsit, hos elegit, quod autem elegit, hos praedestinavit.
Ha il Poeta, nella precedente Stanza, dimostrato della felicità di Madonna Laura contentarsi ma, come colui che di tal felicità vorrebbe partecipare, ora, in questa, dolendosi del suo misero stato, le domanda quello ch'egli ha da fare altro se non, misero et solo di lei rimaso, sempre pianger, desiderando, per non aver avuto a provar gli amorosi affanni da' quali egli era tormentato, esser nella sua infanzia perito. De la qual cosa mostra esser da lei ripreso, e che gli mostri che 'l meglio per lui era di levar l'animo da terra, et le cose mortali e frali del mondo, a le quali seguitar egli era nato, insieme con quelle sue fallaci ciance, cioè vane parole, Librar con giusta lance, pesar con giusta bilancia, cioè ponderar con giusto e ragionevol discorso, e seguir i vestigi di lei, se vero era ch'egli tanto l'amasse, Cogliendo omai qualcun di questi rami, intendendo di quelli che di sopra ho detto ch'ella tratto s'avea fuori del seno, de' quali, perché, sì come nella seguente Stanza vedremo, la palma significa vittoria, et il lauro trionfo, intende ch'omai voglia se medesimo vincere, e di se stesso trionfare, com'ella di se stessa vuol inferire che fatto avea, onde tali rami da lei erano stati colti, e da lui perch'a coglerli avesse, domanda d'esser seguitata, non essendo, secondo la vera et approvata sententia del maggiore Scipione, alcuna più singular vittoria, o più glorioso trionfo all'uomo che 'n quelle cose che da l'appetito sono desiderate, se medesimo vincere.
Nel fine della precedente Stanza, il Poeta ha detto essere stato da Madonna Laura esortato a dover oggimai alcuno di quei rami, cioè di palma e del lauro, cogliere. Onde ora, nella presente, dice ch'egli la voleva delle frondi di quei tai rami domandare, m'avendogliene ella prima che egli ne domandasse cominciato a parlare, non lo domandò più, ma le rispose di quello ch'esse volessero importare, per la qual cosa ella gli disse ch'egli medesimo, che tanto l'una di quelle onorava, come in più luoghi e specialmente al principio di quel Sonetto, Arbor vittoriosa e trionfale, veggiamo, si rispondea nondimeno distingue il significato di ciascuna, e dice come da lei, mediante il divino favore, erano state conseguite, confortandolo a dover il somigliante fare, acciò ch'al fin del vital suo corso possano esser nella patria celeste insieme con Dio.
Domanda il Poeta, nella presente Stanza, a Madonna Laura se quelli ch'ella mostrava aver allora erano i capelli d'oro, et i suoi begli occhi ch'egli era usato veder in lei quando ella vivea, la qual rispondendo, per rimoverlo da quell'errore, nel qual alcuni sono,credendo che per arte maga si possa pigliar ad un spirto un corpo fantastico d'un uomo morto, et parer quello che vivendo solea, dice che non debba errar con questi sciocchi o creder com'essi credono, ch'ella è nudo spirito, e godesi in cielo, e non è spirto aereo, come quelli che per arte si dice esser costretti, et che quel corpo di lei, il quale egli cerca, e del quale comanda, è, già sono molti anni, fatto terra, ma per conforto di lui l'era dato a parer tale quale era in vita, e che sarà ancora quella ch'egli si credea e desiderava che fosse, e più bella che mai, et a lui sì selvaggia e pia, come in vita gli era paruta, sempre ogni lor salute salvando più cara, intendendo quando, dopo l'universale giudizio, ella con tutte l'altre anime avranno riassunto i propri corpi.
Il Poeta, nella presente ultima Stanza, dice come dolcemente Madonna Laura, del suo pianto seco adirandosi, e con parole piene d'affezione, di lui sospirando, gli asciugasse con le mani il volto dalle lacrime, et fatto questo, ella insieme col sonno si partiva, imitando Marco Tullio in quello
De sommo Scipionis,
ove dice:
Ille discessit, Ego somno solutus sum
; e Dante, nel IX Cap. del Purgatorio: e'l sonno ad una se n'andaro.
Vien, in seconda persona, invece di vieni.
Sì forte, invece di fortezzente.
Certo, assicurato.
Paolo Apostolo.
Culla, quanto cuna.
Ver, usando troncamento, non senza vaghezza.
Segna: significa.
Mi godo, è detto gentilmente.
Marco Tullio.
La presente Canzone fu fatta dal Poeta per voler con leggiadria e nuova intenzione la virtù e bellezza di Madonna Laura esaltare, e dimostrar che solamente per lei egli s'era, a principio della della sua gioventù, dal vulgo tolto e messosi per la via della virtù, fingendo aver fatto citar amore davanti alla ragione, alla quale, essendogli molto dello strazio ch'esso Amore avea fatto di lui doluto, mostra all'incontro ch'amore dice di quanto suo bene egli sia stato cagione, et ultimamente che da lui non era mancato, mediante la virtù et bellezza di Madonna Laura indirizzato non l'avesse alla via del cielo, onde nella presente Stanza dice aver fatto citare amore, suo unico empio dolce signore, davanti alla Reina, che tiene di nostra natura la divina parte, la quale è essa stessa ragione, avendo l'uomo due parti, cioè ragione e senso, e per essere la ragione solamente de l'anima, la quale era creata da Dio in cielo, vien ad esser divina, onde siamo detti razionali, e siede in cima, perché è più nobile, e prevale alla parte sensitiva, la quale gli è con gli animali bruti comune. Ivi, com'oro, che nel fuoco affina, cioè ivi tutto pallido e smorto, come suol esser l'oro, che s'affina nel fuoco, perché l'oro, quanto più s'affina nel fuoco tanto più pallido e smorto diviene, onde dice ch'egli si rappresenta davanti ad essa reina carco di dolore de' suoi passati giorni dietro alla vanità del mondo, come vuol inferire, spesi, di paura, orrore sapevano, a similitudine di colui che teme la morte, perch'egli similmente, per essi suoi errori, della morte eterna temeva, e chiede ragione, per volersi di tali suoi errori scusare. Onde dice averle cominciato a dire ch'essendo egli ancora giovanetto, avea posto il manco piede nel regno d'esso amore, avendo l'animo nostro medesimamente ancora egli come 'l corpo, due piedi, cioè ragione, ch'è il dritto, e senso, o vogliamo dire appetito, ch'è il manco piede, da' quali esso animo viene ad esser mosso, onde della terza Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, Caro dolce alto e faticoso pregio, Che tosto mi volgesti al verde bosco usato disviarne a mezzo 'l corso, et in quella Canzone, I' vo pensando et nel pensier m'assale, come di tal cosa dolente, Come ch'il perde face accorto e saggio, vo ripensando ov'io lassai il viaggio dalla man destra ch'a buon porto aggiunge. Dice adunque ch'egli pose il manco piede, cioè l'appetito che muoveva l'animo Nel regno d'amore, ne' diletti e piaceri terreni, essendo egli giovanetto, per la qual cosa si reputava esser degno di qualche remissione, come in quel Sonetto, Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, fu da lui dimostrato. Nel qual regno ultimamente altro che ira et sdegno, come negli amanti quasi sempre suol regnare, dice non aver mai avuto e tanti e si diversi tormenti sofferti, che quella sua infinita pazienza, ch'egli debba in sofferirli, fu vinta, onde dice aver avuta la vita in odio, come in quel Sonetto, S'i' credessi per morte esser scarco, et in altri luoghi ha similmente dimostrato.
Il Poeta, nella presente stanza, seguita le sue querele contra ad amore, dicendo così nella forma che nella precedente sia detto, esser fino allora miseramente il suo tempo passato, et per servire esso amore aver molte utili et oneste vie da poter alla virtù pervenire, e molte feste e dilettevoli piaceri disprezzati, come sogliono tutti quelli che veramente amano sempre fare per esser loro tutte le cose, se non quella sola ch'amano, in fastidio, domandando qual ingegno ha parole sì preste, che possa stringer et brevemente narrar il suo infelice e misero stato, e le tante sì gravi e sì giuste sue querele contra d'esso amore, dolendosi del poco dolce, rispetto al molto amaro, che 'n seguitarlo avea avuto, e di quel tanto amaro, nel quale esso amore, con sua falsa e vana dolcezza avea avvezza la sua vita, e lui a l'amorosa schiera tirato, imitando Giovenale, nella IX Satira, ove dice:
Plus alo es quam mellis habet.
Perché dice che là dove egli era disposto a sollevarsi alto da terra, cioè a levar la mente a considerare le divine et eccellenti cose, egli lo tolse d'ogni pace, e lo pose in guerra, onde poi non poté, come vuol inferire, sollevarsi.
Soggiunge il Poeta, nella presente Stanza, come per servire amore egli avea meno amato Dio e meno avuto cura di se stesso di quello che doveva, et di suo consiglio aver per Madonna Laura ogni pensiero messo in non cale, cioè in non curare, perché solo di lei curava, aguzzandogli sempre il giovanile desiderio a l'empia corte, alla crudele mola, per aver detto aguzzando, ma intesa per la speranza, Ond'io, per la quale, io sperai riposo al suo aspro e fiero giogo. Onde ancor Orazio nelle Ode,
Ferus et Cupido semper ardentes
acuir sagittas cote cruenta,
domandando a che fine il cielo gli avesse dato quel suo chiaro et altiero ingegno con l'altre sue eccellenti doti, s'egli non dovea poter usare, volendo inferire, vanamente avea operato, perché quantunque egli, divenendo vecchio, cangiasse il pelo, non però poteva la sua ostinata amorosa voglia cangiare. E così dice esser tutto d'ogni libertà da esso amore spogliato, il qual avea il suo amaro penoso vivere in dolce e dilettevole uso rivolto, cioè che per lo longo uso che fatto avea nelle sue amare pene, egli le faceva parer più dolci a tollerare.
Nella presente Stanza il Poeta narra come, per fuggirsi e liberarsi dal giogo d'amore, egli gli avea fatto Hispidi dumi, cioè aspri spinti, et altre diverse, perigliose e faticose cose cercare, e 'l verno in strani mesi, il verno in mesi non al verno convenienti, alludendo a quel suo viaggio che fece da Lamagna, come nella vita di lui dicemmo, dove per esser tal regione sotto tramontana, ancor de' mesi d'estate molte volte fa di grandissimi freddi, quasi come di verno fosse, onde in quel Sonetto, Poi che 'l cammin m'è chiuso di mercede, vedemmo ch'egli, andandosene in tal viaggio, s'era da Madonna Laura per disperazione partito, imitando Virgilio, nel II libro delle Georgiche, ove dice:
Hic ver assiduum, atque alienis mensibus aestas.
Nondimeno da Madonna Laura per immaginazione, come vuol inferire, seguitato, onde dice che s'egli non è innanzi tempo , innanzi al determinato tempo giunto, per li pericoli corsi a morte, che celeste pietà ha cura di sua salute, e non quel tiranno d'amore, il qual si pasce del suo duolo e del suo danno.
Il Poeta, nella presente Stanza, seguitando le sue querele contra ad amore, narra qual fosse il suo inquieto stato dal dì che di esso amore era divenuto soggetto, et il quale sopra de' suoi spirti era fatto, per inganni è per forza Donno, cioè signore, E non sonò poi squilla, e non sonò poi campana in qualche villa (dice) ov'io sia, ch'i' non l'udissi, a dinotare le continue notturne vigilie che, per gli amorosi affanni, non potendo dormire, erano fatte da lui e, ch'essendo amore sapeva questo esser vero, per lo rodere che sempre faceva 'l suo cuore, nel quale egli albergava, e di morte lo sfida, e minaccia di farlo morire, e di qui dice che nasce ogni suo male, et le parole e sospiri, che egli s'andava stancando, et forse del fastidio altrui. Onde, facendo fine, dice alla Reina ch'ella, la quale e l'uno et l'altro di lor due conosce, di questo fra lor giudicare.
Ha il Poeta, nelle precedenti Stanze, esposte alla ragione, et contra d'amore, le sue querele, onde ora, nella presente, introduce esso amore a cominciar ad arguir in contrario, dicendo che 'l suo aver sario con agre rampogne, con irati rimproveri, comincia a dire ad essa ragione che debba intendere l'altra parte, la quale, senza difetto, et fedelmente dirà il vero, dal qual il Poeta partiva, chiamandolo ingrato, per le ragioni ch'appresso vedremo. E prima rispondendo a quello perché esso Poeta s'è doluto d'esser nel suo regno entrato, dice ch'egli nella sua prima età, intesa per quella della gioventù, la qual è di tutte l'altre la prima e più bella, era dato a l'altre di vender parolette anzi menzogne, essendosi egli, come nella sua vita dicemmo, dato allo studio delle leggi, per le quali poi nelle lite e parolette, e le menzogne si vendono. Né par, dice, che si vergogni lamentarsi di me che, puro e netto d'ogni vizio, tenni lui al mio diletto, al mio dilettevol regno, dove nella prima Stanza abbiamo veduto dolersi d'esser entrato in dolce vita, ch'ei chiama miseria, conta 'l desio, che spesso vuol il suo male, perché molte volte avviene che l'uomo desidera quello che dovrebbe fuggire, come vuol dire, ch'egli dovea il fastidioso studio delle leggi fare, onde , de la qual cosa, dice ora salito in qualche fama solo per me, ch'alzai il suo intelletto ove per sé non fora mai alzato, rispondendo a quello ch'egli nella III Stanza dice Misero, a che quel chiaro ingegno altiero, etc.
Nella presente Stanza il Poeta risponde, in persona d'amore, di quello di che egli di sopra s'era di lui doluto, che per una Donna gli avesse fatto mettere ogni pensiero in non cale, et a quello, perché lusinghiero l'avea chiamato, dicendo che esso Poeta fa, ch'egli lassò cadere il grande Atride, inteso per Agamennon, figliolo d'Atreo, il qual fu grande, per esser stato di tutto l'esercito di Grecia a Troia Imperatore, e l'alto Achille, et Hannibal, et un altro e di virtute et di fortuna il più chiaro di tutti, inteso per lo primo Scipione Africano in vil amor d'ancelle come le sue stelle avevano a ciascuno ordinato. Dove è da sapere che Agamennon, secondo Homero nel primo della Iliade, fu preso de l'amor di Chrisseis, figlia di Chrissis sacerdote d'Apollo, fatta da lui prigione ne l'espugnazione Chrissa città; Achille di quello di Brisseida, figliola di Brisseo; Hannibal di vilissima femmina in Puglia, onde nel trionfo d'amore; l'altro è 'l figliol d'Amilcar, che nol piega in cotonati anni in Italia trionfo d'amore, l'altro è il figliol d'Amilcar, che nol piega in cotanti anni Italia tutta et Roma, Vil femminella in Puglia il prende e lega, Et dice, Al terren vostro amaro, per esser Italia, a cui terreno egli fu amaro, Reina di tutto 'l mondo, e dove la ragione e giustizia soleva la sua sedia tenere, quella che tra gente barbara fu sempre poco in uso. Onde in quella Canzone, Italia mia, benché 'l parlar sia indarno, Et è questo del sempre per più dolor del popol senza legge. Scipione Africano, come scrive Valerio al VII Cap. del sesto libro, dove tratta de fide uxorum, amò intensamente una sua ancella. Alcuni altri intendono di Ottaviano Augusto, per aver amato Livia Drusilla, donna di Tiberio Nerone, suo milite, la quale con preghi da esso Tiberio ottenuta, a sé la congiunse, la sposò, nondimeno a noi piace più intender di Scipione. Ma il Poeta dice che de infinite elette et eccellenti donne n'elesse una, a la qual un'altra simile quando ben Lucrezia ritornasse a Roma sotto la Luna mai non si vedrà, E dielle sì dolce idioma, et un tanto soave cantare, che basso o grave, che vile o mal pensiero non poté mai dinanzi a lei durare, tanto vuol inferire esser stata la sua somma virtù. Onde nella sesta Stanza di quella Canzone, Sì è debole il filo a cui s'attiene, e perdono lieve ogn'altra offesa, che l'essermi contese quella benigna angelica salute, che 'l mio cuor a virtute destar solea con una voglia accesa. E questi dice esser stati seco gli inganni, che dalle sue lusinghe ricevuto avea.
Seguita il Poeta, nella presente Stanza, in persona d'amore, il proposito della precedente, dicendo questo essere stato il fele, gli sdegni et l'ire, delle quali egli di sopra s'era doluto, ma che più dolce erano state che tutto quello che da ogni altra donna fosse potuto venire. Onde ancora in quel Sonetto, Fiera stella se 'l cielo ha forza in noi, Pur mi consola che languir per lei meglio è che gioir d'altra, e tu mel giuri per l'orato tuo strale, et io tel credo. Dolendosi d'esser in tal forma da esso Poeta meritato, soggiungendo ch'egli l'avea talmente sotto le sue ali, essendo ad amore le ali attribuite, sotto il suo governo condotto, che 'l dir di lui piacea a donne, a cavalieri, e sì alto lo avea fatto sotto d'esse ali salire, che 'l suo nome ferve, che la sua fame bolle, et è in pregio tra caldi et eccellenti ingegni, e de' suoi detti si fanno conserve, sono conservati, e tenuti cari in alcun luogo, ch'ora dice forse sarebbe roco mormorator di corti, et un uom del vulgo, quando, come vuol inferire, egli avesse l'arte di dir parolette e menzogne seguitato, come nelle liti s'usa fare, ma ch'egli s'esalta e divulga per quello che nella sua scola, cioè in amare, e da Madonna Laura, la qual in bellezze e virtù fu sola al mondo, avea imparato.
Narra il Poeta, nella presente Stanza, pur ancor in persona d'amore, come in seguitarlo egli era tutto da quello che solea cangiato, poi che fatto era di Madonna Laura uom ligio, cioè uomo dato a lei sola seguire, perché, sì come scrive il Pontano, nel secondo libro de bello Napolitano, gli uomini di quel Reame, nel giurar che fanno la fede al loro signore, usano di farsi ligar insieme li due pollici delle mani, e da questo tal signore sono poi domandati uomini ligi, che suona quanto dati ad un solo signor seguire, la qual Madonna Laura l'impresse al cor Alto vestigio, alto pensiero, onde in quel Sonetto, Dolci durezze e placide repulse, Fior di virtù, fontana di beltate, ch'ogni basso pensier del cor m'avvolge, e fecero ne' suoi costumi simile a lei; onde dice che quanto egli ha del pellegrino e del gentile, che lo tien da lei e da lui di cui si biasima, per cagion del quale egli s'accusa esser non, com'ha detto, pellegrino e gentile, ma vile e villano. Pellegrino intendiamo in luogo di nobile, perché pellegrino diciamo esser colui il qual, non contentandosi della propria patria, va per aver esperienza, cercando l'altrui, la cosa solamente suol nascer da nobile et gentil animo. Mai notturno fantasma. Fantasma è certa specie di sognare, le quali apecie, secondo i Latini, sono cinque: Somnium, Insomnium, Oraculum, Visio, Fantasma, questa nasce comunemente da superfluo cibo e, come dice il Poeta, induce solamente errori et illusioni. Ch'è in grazia da poi Che conobbi a Dio et alla gente, rispondendo a quello che di sopra ha detto, che l'avea fatto amar Iddio meno di quello che dovea, e che de' suoi lamenti e sospiri stancava non pur se stesso, ma forse ancora altrui.
Mostra amore, nella presente Stanza, fra tanti benefici fatti al Poeta uno avanzava tutti gli altri, il qual era ch'egli gli avea dato ali, cioè il mezzo per le cose mortali, come le bellezze di Madonna Laura erano, le qual, chi le stima bene, cioè chi le considera a buon fine, e non con animo lascivo, come molti usano di fare, sono scala al fattore, sono via da poter pervenire nella cognizione della sapienza e potenza di Dio, fattor di quelle, che cioè, perché mirando egli ben fissamente quante e quali virtuti erano in Madonna Laura sua speranza d'una in altra similitudine, come considerando in lei, la qual essendo mortale, erano tante sì eccellenti virtù quante dovevano esser quelle de' divini spirti, di grado in grado, per li loro ordini discorrendo, Poeta levarsi fino a l'altra prima cagione di tutte le cose, cioè fino a Dio, fattor di quelle. Et ei l'ha detto alcuna volta in rima, come veggiamo nella 2. Stanza di quella Canzone, Gentil mia donna i' veggio, ove dice: Io penso se là suso, onde 'l motor eterno delle stelle degnò mostrar del suo lavoro in terra, Son l'altr'opre sì belle, Aprasi la prigion ov'io son chiuso, E che 'l cammino a tal vita mi serra; Et in quell'altra, Amor se vuoi ch'i' torni al gioco antico, ove dice: Dio, che sì tosto al mondo ti ritolse, ne mostrò tanta e sì alta virtute solo per infiammar nostro desio; e nella 3 Stanza di quella Canzone, Che debbio far, che mi consigli amore? Oimè, terra è fatto il suo bel viso, Che solea far del cielo, e del ben di lassù fede fra noi. Ma ora dice ch'esso Poeta l'ha insieme con Madonna Laura, la quale egli gli avea dato per colonna e sostegno della sua frale e debil vita, posto in oblio, posto in dimenticanza. A questo dice il Poeta aver alzato un lacrimoso strido, dicendo esser ben vero ch'egli gliel'avea data, ma che tosto se l'avea ritolta, e che amore rispose non egli aversela ritolta, ma chi la volse per sé, intendendo d'Iddio, che prima non a lui solo, ma veramente a tutto 'l mondo, data l'avea.
Avendo, nelle precedenti Stanze, prima il Poeta davanti alla ragione le sue querele contra ad amore esposto, e poi esso amore contra di quelle arguito, ora, in questa, esso Poeta dice che ultimamente ambo conversi, ciascuno di lor due rivolto al giusto seggio d'essa ragione, aver conchiuso d'attender la sua sentenza, et ella sorridendo aver risposto piacerle d'aver udito le loro questioni, ma che, a dar sententia sopra tanta lor lite, bisognava più tempo.
Costui Regno, invece di dire Regno di costui.
Manco piede, inteso per l'appetito.
Avezza, usata.
In non cale, in non curar di me.
Virgilio, nella II della Georgica.
Squilla, campana.
Agre rampogne, aspre riprensioni.
Fora, sarebbe.
Al mio diletto, cioè dilettevol Regno.
Atride. Agamennone figliol di Atreo.
Agamennone, Achille, Annibale, Scipione Africano.
Sì tanto, in sì fatta maniera.
Ferve, è fervido.
Ligio, secondo il Bembo, dinota uom vecchio.
Pellegrino, in luogo di nobile.
Al favor a Dio, d'ogni cosa creatore.
Conversi, rivolti.
Attende, aspetto.
Nel presente Sonetto il Poeta, dopo molte lodi a Madonna Laura attribuite, mostra come quando ella, intesa per quel suo dolce lauro, vivea, che vedeva Amore, il signor di lui, dal quale ella, perché amore vuole in vista esser, si mostrava, era sempre accompagnata, onde in quel Madrigale, Perch'al viso d'amor portava insegna, e la sua Dea, intesa per l'anima di lei, onestamente all'ombra d'esso lauro, alludendo al suo Amore, sedersi, cioè posarsi; onde ancor in quel Sonetto, Una candida cerva sopra l'erba verde m'apparve con due corna d'oro, Fra due riviere, a l'ombra d'un alloro. Il testo va in questo modo ordinato: Quel mio dolce lauro, ov'ogni bellezza, ogni ardente virtù solea abitare, che l'odorifero e lucido Oriente, frutti, fiori, erbe et frondi d'odore e di color vincea, onde 'l Ponente avea d'ogni rara eccellentia il pregio, vedea 'l mio Signore e la mia Dea onestamente alla sua ombra sedersi, onde soggiugne che, sì come il suo signore la sua Dea all'ombra d'esso lauro si sedevano, ch'ancora egli pose in quell'alma pianta il nido de' suoi eletti amorosi pensieri. Et in fuoco, per l'amorose fiamme ardendo, et in gelo, per lo simile timor tremando, assai felice dice essere stato, rispetto a quello ch'egli, come vuol inferire, era allora per la morte di lei, de' cui perfetti onori dice che 'l mondo era pieno allora; allor, cioè quando Iddio per adornare il cielo la si ritolse e, per infinitamente esaltarla, soggiunge esser stata cosa da lui.
Sedersi, posarsi.
Duolsi il Poeta, nel presente Sonetto, di morte, che per aver Madonna Laura fatto morire abbia lassato il mondo senz'alcun ornamento, e amore cieco, et inerme, cioè senza arme, avendo il bel viso di lei, ch'era il suo sole, et i suoi begli occhi, ch'erano le sue armi, spenti, et egli sconsolato et a se stesso per la vita, che senza di lei gli era in fastidio, grave peso, cortesia in bando, onestà in fondo. Et egli solo di ciò dice dolersi, avvenga che solo non s'abbia da dolere, per esser in danno, come vuol inferire, universal di tutti. Onde dice ch'ogni cosa quaggiù la dovrebbe piangere, ma che 'l mondo, mentre ch'ella visse, non la conobbe, e sì ben da lui, rimaso qui a piangerla, e dal cielo, che la seppe ritorre, ora di lei la qual è pianta da lui, si fa bello, fu conosciuto.
Inerme, disarmato, senza arme.
Nel presente Sonetto il Poeta, per esaltar, come suole, il valor della sua eccellente Laura, mostra che delle sue nuove e mai più non vedute leggiadre forme, cioè bellezze, benché mortali fossero, le quali in lei, che di quelle era 'l soggetto, ogni stella scoperse, ogni stella del suo favor contribuì, onde nella quinta Stanza di quella Canzone, Tacer non posso, e temo non adopre, il dì che costei nacque, eran le stelle, che producon fra noi felici effetti, in luoghi alti et eletti, l'una ver l'altra con amor converse, etc. Ch'egli solamente ne conobbe quando 'l cielo gli aperse gli occhi dell'intelletto, e quanto che 'l suo studio et amore gli alzarono l'ali de l'ingegno. Ma l'altre tante e sì diverse strane et inusitate forme, perché non furo eguali al suo intelletto, ma da loro troppa luce rimase (come vuol inferir) abbagliato dice che la debole vista di quello non lo poté sofferire, onde quanto egli delle sue lodi parlò, cioè ne scrisse, per contraccambio delle quali lodi ella ora davanti a Dio gli rende, per la sua salute, preghi, dice che fu a similitudine d'una breve Stilla, cioè una minima goccia, rispetto ad infiniti abissi, cioè profondi d'acqua, perché lo stile non si stende oltra l'ingegno, quello ancor significando, per similitudine di colui che tien gli occhi fissi nel Sole, perché non essendo la sua vista di tanta luce capace, meno vien a vedere, parendogli esser stato nel precedente, dicendo ch'egli l'avea conosciuta, troppo arrogante.
Sparsa.
Né, invece di ovvero.
Abissi, profonde acque
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, dolersi de' suoi amorosi casi con un uccelletto, ch'a l'ora tarda del dì, e nella stagione al verno vicina, andava intorno del suo albergo cantando. Il qual cantare finge che fosse in luoghi di pianto, per lo dolore avea di vedersi la notte et il verno approssimare, et indietro lassa i giorni e mesi allegri, significandogli che, per la morte di Madonna Laura, un simile stato era ancora quel di lui, e che quando egli lo sapesse, che domesticamente andarebbesi a participar con seco i suoi amorosi guai, se pur ancor egli per amor piangeva. Ma dice non saper se le parti di lor due sarian pari, perché quella ch'egli piange, è forse in vita, della quale morte, per averne Madonna Laura privata, et in cielo per aversela per sé tolta, sono tanto seco avari, ma che da stagione, et dall'ora men gradita, meno accetta, e dalla ricordanza de' suoi dolci et amari anni, che 'n dolore li fa pari, esser invitato a dover seco de' suoi danni con pietà parlare.
Guai, giocondi, dilettevoli, allegri.
Il Poeta, nel presente Sonetto, dimostra come da lo specchio, et da quelle parti ch'allora in lui dinotavano la vecchiezza, esser consigliato dover obbedire, cioè cedere, alla natura, e accordarsi con la morte, la qual a tutti quelli che nascono è naturale e comune, perché a voler con essa natura contendere, il tempo che qui fra noi ogni cosa consuma, ne sforza, cioè ne leva le forze. La qual cosa intesa, dice che subito con quell'impeto che l'acqua smorza il fuoco, egli si risveglia d'un lungo e grave sonno, si risente d'un suo grave errore, nel quale lungamente era stato, non essendosi avveduto quanto 'l tempo è veloce a passare, et non si può più d'una volta in questa vita essere. Ma dice che gli suona in mezzo 'l cuore una parola di lei, che allora era dal suo bel nodo sciolta, dal suo formoso corpo libera, la qual parola intende per quello di che egli mostrò in quel Sonetto, Del cibo onde 'l signor mio sempre abbonda, ch'ella, essendogli nel sonno venuta, lo domandasse dicendo: Che vale a saper chi si sconforta? Volendo inferire che, quantunque egli vedesse la sua vita volare, e che 'l tempo non poteva più tornar addietro, ch'ammonito da questa parola di lei, non intendeva volersi di sua salute sconfortare, ma ceder alla natura, e metter ogni speranza in Dio, e non più nelle fugaci, vane, e del tutto frali cose del mondo.
Scorza, corpo.
Veglio e vecchio si dice ugualmente come specchio, e speglio.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra che dal troppo amore et da lo smisurato dolore la sua lingua, come quella ch'a lamentar si era avviata, fosse spinta altre volte parlando ove ragionevolmente non dovea andare, che fu a dir di lei, per la quale egli cantò et arse, quello che, se fosse vero, sarebbe stato torto, intendendo di quello che fu da lui espresso di sopra in quel Sonetto, Fu forse un tempo dolce cosa amore, ove disse che gran prosperità dello spirito di Madonna Laura non poteva il suo avverso stato consolare, perché, quanto così seguito fosse, egli avrebbe mostrato curarsi poco del ben di lei. Ma dice che quella beata, cioè Madonna Laura, dovrebbe assai esso suo stato quetare, et il suo cuor racconsolarsi, vedendo lei domesticarsi tanto con lui, cioè con Dio, il quale, ella vivendo, ebbe sempre in cuore. E ben dice che s'acquieta, e voler prima ogni cosa partire, che 'n questa misera vita rivederla.
Debbe, tempo passato.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, con che ammirazione et allegrezza Madonna Laura fosse raccolta il primo dì ch'ella passò all'altra vita in cielo, e come s'immagina da lei esser a tal beata vita aspettato, talmente che per seguirla dice ch'egli alza tutti i suoi pensieri al cielo, quasi in questa forma dicendo: il primo giorno che Madonna Laura passò all'altra vita gli angeli, ch'a doverla raccogliere erano stati eletti, e le beate anime che del cielo son cittadine, e le fur interno piene, per la sua somma bellezza, di meraviglia e per l'affanno sofferto nel suo morire, di pietate e dicendo, in lode delle bellezze di lei, quello che segue, e che per se stesso si rende facile e chiaro.
Passò, cioè all'altra vita.
Ergo, innalzo.
Il presente Sonetto è dal Poeta indirizzato a Madonna Laura e, seguitando nelle sue altissime lodi, mostra ch'ella in altera gloriosa fede e d'assai più preciose cose ornata, che le perle, l'ostro, cioè la porpora, non sono, si stia col sommo e sempiterno Iddio, nostro principio, dicendo che nel volto di lui, in cui tutto risplende, ella vede 'l suo core e la sua pura fede esser tale quall'ella fu sempre, e come da lei non avea mai desiderato altro che 'l sole de' suoi occhi, inteso per il suo bel viso, come in più luoghi dell'opera veduto abbiamo. Onde, per emendar la lunga guerra fattagli dalle sue divine bellezze quando ella vivea, per le quali egli abbandonò il mondo et a lei sola si volse, prega che per lui lo preghi, che lassando questa vita possa tosto andar a star lassù con loro.
Ostro, porpora.
Versai, sparsi.
Descrive il Poeta, nel presente Sonetto, tutte quelle singolari parti che 'n Madonna Laura esser solevano mentre ch'ella visse, com'erano i suoi begli occhi, il chiaro, splendido e lucente viso, le lucenti trecce, il dolce parlar e riso, le delicate e bianche mani, le braccia, i belli e snelli, cioè schietti, e spediti piedi et ultimamente la divina e leggiadra persona, dalle quali dice che i suoi spirti pigliavan vita, e che ora il Re del cielo co' suoi alati corrieri, che sono gli ordini degli angeli, n'ha dilettazione; et egli, essendo di lei e della sua luce privato, esser ignudo e cieco rimaso. Ma pur un conforto dice essergli rimaso, il qual è che da lei gli sia impetrata grazia di poter esser nella celeste patria seco.
Conquiso, conquistato e vinto.
Snelli, spediti o leggiadri.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, che 'l desiderio e la speranza d'andar in cielo a riveder il suo e nostro signor Iddio e Madonna Laura, che mediante la grazia, che da lei nel precedente ha dimostrato saper che gli fosse impetrata, cresceva in lui, per sentirsi dentro le volge, e di fuori l'aspetto in brevissimo spazio di tempo esser talmente cangiato, ch'appena dice riconoscer se stesso, et aver abbandonato l'usata vita, che dietro alle vanità del mondo, come vuol inferire, tenuto avea, mostrando desiderar di saper preveder il suo fine, quantunque, per la detta ragione, egli giudichi dover esser preso, reputando felice quel dì che del suo terrestre carcere del corpo uscendo fuori, voli tant'alto ch'a veder giunga il suo signor Iddio e Madonna Laura in cielo, ad imitazione di Marco Tullio in quello de Somno, ove dice:
O felicem et praeclarum diem, cum ad illud divinarum animarum concilium,
certumque
proficiscar, cum ex hac turba et colluvione discedam.
Marco Tullio
Con desiderio mostra pur ancor il Poeta, nel presente Sonetto, aspettar il suo ultimo giorno, per seguitar Madonna Laura in cielo, la qual dice che gli fu duce e scorta qui vivendo in terra, et ora, mediante l'esempio della sua santa vita, lo condusse per miglior via alla beatitudine, mostrando non poter esser dagli inganni del mondo più ritenuto, perché lo conosce. E tanta luce e tanto conoscimento dice che traluce, cioè risplende e vien infin dal cielo nel suo cuore, ch'egli incomincia a contar, a riconoscer il tempo dietro alle vanità del mondo male speso, come vuol inferire, e i danni che di tal male speso tempo ricevuto avea. Né debbe temer minacce di morte, avendola il Re del cielo con più grave pena, ch'egli non sarà, sofferta, e novellamente essendo in ogni vena di Madonna Laura intrata, e non aver la sua serena fronte potuto turbare.
Traluce, risplende.
Il Re, cioè del cielo.
Seguita il Poeta, nel presente Sonetto, il proposito del precedente, cioè che morte non potesse far amaro né turbar il bel viso di Madonna Laura nel suo morire, ma che 'l suo bel viso fosse possente ad indolcir la morte, domandando chi altri migliori scorte bisogna a ben morire, altra che quella di lei, volendo inferire che nessuna per esser da lei, dalla quale egli impara ogni bene, scorto, et essendo ancora dalla morte del Salvatore, come detto ha nel precedente, conforto, la qual per noi redimere volse patire. Onde dice alla morte ch'ella debba venir a lui, che 'l suo venir gli sarà caro, e che debba, per le ragioni da lui espresse, tardare, mostrando esser, co' vestigi et esempi di Madonna Laura, giunto da' suoi giorni al fine.
Quella Madonna Laura.
Quei, Christo.
Parla il Poeta, nel presente Sonetto, allo spirto di Madonna Laura, dimostrando li dolci effetti ch'operava in lei mentre ch'unito fu col suo bel corpo, e come nel partir che fece da quello, il mondo fu d'ogni ornamento et luce privato, e la morte, come sazia d'ogni sua asprezza e crudeltà, s'incominciò ad indolcire. Ma dove dice aver già veduto movere fra l'erbe e le viole i piedi, quella, la qual tornando egli al suo fattore avea lessato in terra, intendi dell'immagine, ovveramente della memoria di lei, che negli uomini era rimasa, onde dice essergli allora più presente che mai, e quel soave velo, che per alto destino, che per divina provvidenza, gli era venuto in sorte, per lo suo dolce e formoso corpo, com'in più altri luoghi abbiamo veduto.
Volgei, invece di volgevo.
Per alto destino, per divina provvidenza.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, andarsi spesso col pensiero a Madonna Laura in cielo, che per lunga continuazione, lassando lo squarciato velo, abbandonando l'aperto corpo in terra, dal quale squarcio l'anima era uscita fuori, quasi gli par esser uno del numero de' beati, i quali hanno ivi il suo tesoro, che solamente è il veder et fruire Dio, e che Madonna Laura parlando seco di quello, ch'egli allora era, rispetto a quello ch'esser solea cangiato, lo meni davanti al tribunal di Dio, al quale egli inchinando dice pregarlo che voglia consentire ch'egli stia lassù a contemplar il volto di lui, et quel di lei, et che gli risponda il suo destino esser ben fermo, ch'egli v'andrà, e se ben venti o trenta anni che n'abbia ancora a star lontano, il parrà troppo lungo termine, che rispetto all'eternità non sarà però molto, perché tosto, come vuol inferire, passeranno.
Il pelo, i capelli.
Narra il Poeta, nel presente Sonetto, varie arti et modi di Madonna Laura mentre ch'ella visse, per conducerlo al porto di salute, verso di lui tenuti, che sono quelle medesime espresse da lui, et in persona di lei, nel secondo Cap. del trionfo di morte, ove egli la domanda dicendo: Amor creovvi nella testa mai pensiero d'aver pietà del mio lungo martire, non lasciando vostra alta impresa onesta, perché i vostri dolci sdegni, et le dolci ire tennero il mio desire molti anni in dubbio. Et ella mostra rispondergli: Mai non fu 'l mio cuore diviso da te, né fia giammai. Ma temprai la tua fiamma col mio viso, e più oltre, più di mille fiate, ch'amore ardeva 'l core, il volto mio dipinse ira. Ma voglia non vinse giammai ragion in me; poi se ti vidi vinto dal dolore, allor drizzai soavemente gli occhi in te, salvando la vita tua et l'onor nostro; e se fu troppo possente passioni, mossi e la fronte et la voce, or timorosa et or dolente, a salutarti, leggiadri sdegni che le mie infiammate, e 'nsulse et sciocche pazze voglie refulse, risplende, avulse, disvolse.
Refulse, risplendente.
Disdice, disconvien.
Domanda il Poeta, nel presente Sonetto, ad Amore ch'a dir di Madonna Laura in forma ch'egli possa giungere al segno, cioè al sommo delle sue lodi, debba il suo affannato ingegno aitare; dal quale, per somma lode di lei, mostra essergli risposto ch'egli insieme col cielo aveano messo ogni lor forza e potere in adornarla di tutta quella virtù e bellezza, della qual morte aveva ciascun di lor due privato, ma che Adamo nostro primo padre in qua non fu mai forma pari in bellezza a lei; et ch'a dir delle sue lodi questo debba bastare, perché più innanzi non intendo volerne dire, il che dice dir piangendo, et così egli, come di loro commune danno, piangendo lo debba scrivere.
Dammi, concedimi, alla latina.
Buon consigli, invece di buoni.
Mostra il Poeta, nel presente Sonetto, com'essendo privato di poter Madonna Laura, per esser morta, propriamente, o per immaginazione, avendola dimenticata, più vedere, torna con l'animo al suo e nostro signore Iddio, quasi in questa forma dicendo: Morte ha spento quel sol, per lo bel viso di lei inteso, che mi suol, cioè che mi soleva, vivendo, abbagliare, e questo rispetto agli occhi esteriori. E gli occhi interi e saldi, intesi per quelli della mente, sono in tenebre perché avendola , come vuol inferire, dimenticata, la sua mente non era più da lei per immaginazione, come solea, rasserenata; onde dice che 'n parte gli duole, come ancor in quella Canzone, Amor, se voi ch'i' torni al giogo antico a tal proposito, Quell'uno è rotto, e 'n libertà non godo, Terra è quella, Ond'io, cioè della quale io, per l'amoroso timore, ebbi freddi e, per l'ardore, caldi, I miei (rispetto al nome di lei) spenti lauri sono querce, et olmi, I miei perduti, dolci et amorosi soggetti sono fatti duri et aspri; come ancor in quel Sonetto, S'io avessi pensato che sì care, Morta colei che mi facea parlare, E che si stava de' pensier miei in cima, Non posso e non ho più sì dolce lima, Rime aspre et fosche far soavi e chiare, Né dice esser più chi faccia i suoi pensieri paventosi e baldi, cioè timorosi et arditi, né li agghiacci e scaldi, come vuol inferire, ch'ella vivendo faceva, tanto che fuori delle mani d'Amore che punge e molce, che le fere e sana, dice trovarsi in amara et dolce libertà. Onde ha detto e parte duolmi, e così stanco nonché sazio di viver, tornarsi al suo signore Dio, che pur col ciglio, il quale solamente con picciol cenno, governa et folce, custodisce e regge 'l cielo.
Baldi, baldanzosi, arditi.
Folce, sostiene, regge.
Nel presente Sonetto il Poeta dinota come Madonna Laura fu da lui XXI anni amata in vita, il che medesimamente vedemmo in quell'altro, L'ardente nodo ov'io fui d'ora in ora, che dopo la morte l'amò ancor dieci anni. Onde, stanco e libero da tal amore, com'ancor nel precedente ha dimostrato, riprende la sua vita di tanto errore, ch'il seme di virtute dice ch'aveva quasi spento in lui. E pentito de' suoi passati errori, con umile contrizione, divotamente rende le sue estreme parti della vita all'alto e sommo Dio, pregandolo che, salvo dall'eterna dannazione, lo voglia del suo terrestre carcere levare.
Sì spesi, in tal guisa spesi.
Volendo il Poeta, nel presente Sonetto, il parlar al suo signor Dio, come ancor nel precedente ha fatto, mostra essersi reso de' suoi passati errori in colpa, et pregalo che, mediante la sua infinita grazia, voglia al difetto della disviata frale anima talmente soccorrere, che s'egli è in guerra, e nella tempesta delle passioni e perturbazioni umane vissuto, che almeno in pace et in porto di salute muoia. E se la stanza di qui fu vana, ch'almeno sia onesta e ragionevole la partita, di nuovo pregandolo ch'a quel poco di vita che gli avanza, et al morire, degni con prestezza porger la sua adiutrice mano, perché egli sa che solo in lui ha ogni speranza posto.
S'io vissi in guerra, cioè nelle passioni e fatiche del mondo.
Essendo il Poeta delle sue colpe dolente, e per quello emendare avendo tutto l'animo a pregare Dio per la sua salute volto, com'abbiamo ne' tre precedenti Sonetti veduto, per più agevolmente poterla conseguire, ora nella presente devotissima et elegantissima Canzone piglia per sua protettrice et avocata la madre de' peccatori Maria Vergine le cui lodi, com' ancor Orazio quelle di Febo e di Diana in fine delle Ode, con tutto il suo ingegno si sforza esaltare, con far in tutte le Stanze la sua petizione, pregandola, come nell'ultima stanza vedremo, che di quello stesso di che egli in fine del precedente Sonetto l'ha pregato, ella voglia raccomandare, cioè ch'al suo partir della presente vita lo voglia aitare, raccogliendo il suo ultimo spirto, nella patria celeste felicitarlo, dividendo essa Canzone secondo lo stile di molti altri poeti tenuto nell'opere loro: tre parti, preposizione, invocazione et narrazione. Onde le due prime veggiamo esser nella presente Stanza contenute, perché in quel verso, Amor mi spinge a dir di te parole, propone, et in quell'altro invoco, lei che ben sempre rispose, invoco, poi nel primo della seguente Stanza comincia narrare, Acquista prima benevolenza, chiamandola vergine bella vestita di sole, coronata di stelle, ad imitazione dell'habito nel quale scrive Giovanni Evangelista nell'Apocalisse averla veduta dicendo:
Signum magnum apparvit in caelo, mulier amicta sole, habeas in capite coronam stellarum duodecim,
intendendo nondimeno somigliarla all'aurora, la qual veggiamo esser vestita de raggi solari, e che spegnendo le più propinque stelle, l'altre starle di sopra in forma di corona. Onde nel cap. della sua prima ora,
Quae est ista que progreditur quasi aurora consurgens, Pulchra ut Luna electa ut sol, terribilis ut cantorum acies ordinata?
Al sommo sole, al sommo Dio, inteso per lo padre, che significa la potenza, piacesti sì, cioè talmente, che ascose la sua luce in te, che fu il suo glorioso figliolo, venendo in lei incarnare, che significa la sapienza, dice ch'amor lo spinge a dir parole di lei, ma che non sa cominciar senz'al suo aiuto e quello di Dio, il qual venendo a pigliar carne umana si pose amando in lei, significando la terza persona, cioè lo spirito santo, al quale s'attribuisce l'amor; la qual lei sempre, a chi con fede la chiamò, rispose al bene, pregandola che, se giammai estrema miseria delle cose umane la volse a mercede, ch'ella si voglia al suo prego, cioè a soccorrere a la guerra, al contrario che fa in lui il senso con la ragione, inchinare, quantunque egli sia terra, sia corpo terreno, e da lei, la qual è Regina del cielo, onde ha detto coronata di stelle, indegno d'esser esaudito.
Nella presente stanza abbiamo veduto il Poeta aver proposto voler dir parole in lode di Maria Vergine, e dimostrato ciò non saper fare senza l'aiuto di lei, et del suo figliolo Dio, et avendola invocata, che è questo, gli voglia esser favorevole, ora, nella presente Stanza, vien alla narrazione, chiamandola Vergine saggia, et una, anzi la prima delle beate, e prudente Vergine, et con più chiara lampa, imitando quella parabola del Salvatore, recitata da Matteo al XI delle X. Vergini, cinque prudenti, e cinque fatue, ch'uscirono con le lampade all'incontro dello sposo, et della sposa. Onde ancora nella prima Antifona,
Hec est virgo sapiens, et una de numero prudentum
, soggiungendo ch'ella è in refrigerio, et in favore degli afflitti, a similitudine d'un saldo et forte scudo contra le tre generazioni di mali, cioè di corpo, inteso per li colpi di morte, delle cose temporali, per quelli di fortuna, e d'animo per lo cieco ardore ch'avvampa i ciechi mortali della cupidità delle cose terrene, nelle cui dannose e vane dolcezze l'anime spesse volte si vien talmente abituare, che da quelle mai non si può, se non con difficoltà grandissima, dipartire; sotto il quale scudo non pur solamente dice che da' narrati mali si scampa, ma si trionfa e gode, pur che sia chi con fede ricorra a lei, pregandola che quei begli occhi, i quali tristi et afflitti videro la spietata e crudel stampa dell'acerbe piaghe rispetto a coloro che fatte avevano, ne' dolci membri del suo caro figliolo, voglia volgerli a riguardar il dubbio suo stato, il quale essendo sconsigliato, ricorre a lei per consiglio, avendo il nome di saggia attribuito.
Seguita il Poeta nelle lodi della gloriosa Vergine, chiamandola pura, et intera d'ogni parte, cioè casta di mente, et di corpo, figliola e madre del suo gentil parto, essendo prima lei da Dio stata creata, e poi ella sola, di lui venendo egli ad incarnare, meritò esser madre; onde Salomone,
Et qui creavit me,
requievit in tabernaculo meo,
la qual alluma questa cieca mortal vita, et adorna l'altra chiara et eterna e per la quale, chiamandola finestra lucente altiera del cielo, ad imitazione di quel Hinno, O gloriosa domina, ove dice:
Celi fenestra facta es
, Iddio di lei, et del sommo padre figliolo dice che ne venne su gli estremi giorni a salvare. Onde il preallegato Profeta,
et vidi portam clausam, et ecce Deus ante secula ex ea procedebat pro salute mundi,
et erat iterum clausa
, et il Profeta,
et dixit Dominus ad me, porta haec clausa non aperietur, et vir non entrabit per eam, quoniam Dominus Deus frael ingressus est per eam;
estremi giorni dice, essendo per noi redimere, in questa estrema et ultima età venuto ad incarnar, delle quale età dicemmo nella prima Stanza di quella Canzone, Anzi tre dì creata era alma in parte, soggiungendo ch'ella sola fra tutti gli altri soggiorni, cioè ricettacoli, o riposi terreni, dove tanto mistero si dovesse adempiere, fu eletta per lo più eccellente, pregandola che della grazia di lui, mediante preghi di lei, lo voglia far degno.
Ricorda il Poeta, nella presente Stanza, alla gloriosa Vergine come ella santa e piena d'ogni grazia per via della vera humiltate ascese al cielo, dal quale ora ascolta li suoi prieghi, e ch'ella, nel partorir il fonte di pietate, et il sole di giustizia, imitando quel verso della terza lettione,
Quis ex te ortus est sol iustitiae Christus Deus noster
, che rasserena questo nostro secolo pien d'errori, raccolse tre dolci e cari nomi in lei, cioè Madre, per averlo generato e partorito, Figliola, per esser da lui stata creata, Sposa, essendo quello di lei e del sommo padre nato, il quale col figliolo e con lo spirito santo e trino et uno, chiamandola donna di lui il quale, mediante la sua acerba morte, sciolse i nostri lacci per lo peccato originale, eravamo nelle tenebre relegati. Onde in quella orazione;
Quae sumus omnipotens deus, quod sub peccati iugo
vetustas servitus tenet
; Vera beatrice, vera cosa che fa beato altrui, pregandola che nelle sante piaghe di lui appaghi, cioè dia riposo, al suo travagliato e stanco cuore.
Nella presente Stanza, seguitando il Poeta nelle lodi di maria Vergine, dice ella esser stata sola e senza esempio al mondo, e che di sue bellezze aveva innamorato il Cielo, imitando quel luogo nell'Antifona,
Beata Dei genitrix
, ove dice:
Sola fine esemplo placuisti domino nostro Iesu Christo,
e che mai non ebbe chi prima né seconda fosse simile a lei, ad imitazione di Sedulio, ove dice:
Nec primam similem visa est, nec habere sequentem;
e che i suo santi pensieri, atti pietosi e casti, fecero nella sua seconda virginità, sagrato e vivo tempio al sommo Dio, discendendo in lei cosa sacra e viva ad incarnare, come nell'oratione,
Deus qui salutis aeternae beatae Mariae virginitate foecunda,
e nella preallegata antifona,
Templum domini, sacrarium spiritussancti.
E venendo alla petizione dice di che fe' a preghi di lei Iddio abbonda la grazia, là dove il fello prima abbondò, che per lei la sua vita può esser gioconda, intendendo per mezzo de' detti suoi preghi, imitando l'Apostolo, ove dice:
ubi
superabundavit peccatum, superabundet et gratia,
e
S. Aug.,
Quoniam ubi abondaverunt delicta, superavit et gratia.
Et umilmente la prega che, nel peregrinar di questa mortal vita, ella voglia esser sua scorta e guida, et a buono e salutifero fine la sua torta e non ragionevole via drizzare.
Per similitudine del solcar il tempestoso e procelloso mare il Poeta, nella presente Stanza, fa un discorso di questo tribulato et inquieto viver mondano, nel qual intende che la gloriosa Vergine sia stella, guida et fida scorta a tutti quelli che fedelmente la seguono, imitando il principio di quell'Hinno,
Ave maris stella
, pregandola ch'ella voglia por mente in che terribile procella egli si ritrova sola senza governo, senza timone, e questo quanto alla metafora del tempestoso mare. E moralmente intenderemo che voglia significare in che terribile et dubbioso stato egli si ritrova solo, e non accompagnato da fortezza et costantia d'animo da potersi contra lo stimolo de' sensi difendere, e senza prudentia, e ragione, dalla quale, per dritta via che mena al porto di salute, possa essere condotta. Et da vicino dice aver l'ultime strida, stando ancora nella metafora ad imitazione di Statio, nella terza di Theb. ove dice:
Tollunt clamorem, bello qualis supremus apertis viribus, aut pelagio iam descendente carina.
Nondimeno dice che, quantunque la sua anima sia peccatrice, pur ancora si fida in lei, di nuovo pregandola che voglia in forma operare, che 'l sensuale appetito nemico di lei, nel farlo dentro all'habito del vizio cadere, come forse si crede poter fare, non abbia a rider del mal di lui, ma ne resti, come vuol inferire, scornato; di che ancor in quel Sonetto, Padre del ciel dopo i perduti giorni, esso padre abbiamo veduto esser stato pregato da lui, ricordandole che per lo nostro peccare ella venne ad esser madre di Dio, perché, se Adamo non avesse peccato, non bisognava che Dio venisse ad incarnare, volendo inferire che per lo nostro peccato ella è tenuta a doverne soccorrere. Onde S.Augustino scrive al proposito queste parole:
O Maria multum audeo, nam nos tibique nobis naturae vicissitudo, ut per nos id habeas esse quod es, nos vero per te id esse quod sumus, si enim nulla nostra pertransisset transgressio, non esset secura nostra redemptio, et si non redimis nos, non fuisset necesse nacque parere te redemptorem.
Dimostra il Poeta, nella presente Stanza, alla beata Vergine come da poi ch'egli era nato sulla riva d'Arno, cioè in Toscana, passando esso fiume per quella, la sua vita non era stata altro che vanità, affanno et stento, or questa, or quell'altra parte cercando, et che la mortal bellezza, gli atti, e le parole di Madonna Laura, come vuol inferire, gli avevano ingombrata, cioè occupata, tutta l'anima, pregandola ch'ella non voglia esser oggimai più tarda a soccorrerlo, dubitandosi d'esser forse giunto all'ultimo suo anno, e dolendosi che li suoi, più che saetta veloci, dì siano fra peccati et miserie passati, onde dice esser aspettato solamente dalla morte.
Narra il Poeta, nella presente Stanza, alla gloriosa vergine come allora era fatta terra, et avea posto il suo cuor in doglia Madonna Laura, che vivendo lo tenne in pianto, la qual dice non sapeva pur uno rispetto, come vuol inferire, agli infiniti de' suoi mali, e che quando bene ella li avesse saputi, che quel medesimo che n'avvenne ad ogni modo sarebbe avvenuto, volendo inferire che per alcun suo male ella non sarebbe della sua modestia et integrità voluta mancare, et che ogni altra voglia di questa che fosse stata in lei era la morte di lui, perché quando ella gli avesse fatto più copia della dolce vista de' suoi begli occhi, come in più luoghi abbiamo veduto, egli da lei desiderare si farebbe, come vuol inferire, tanto del suo amore acceso ch'egli, per lo troppo ardore, si farebbe, come vuol inferire, tanto del suo amore acceso, che egli per lo troppo ardore si sarebbe consumato. Onde, nel secondo Cap. del trionfo di morte, in persona di lei parlando dice: e state foran lor luci tranquille sempre ver te, se non ch'ebbi temenza delle pericolose tue faville. A lei sarebbe stata rea fama, perché avrebbe dato da sospettar alle persone di quelle cose che non erano. Onde nel medesimo Cap., quantunque ella riservata nell'amor andasse, Nell'età mia più verde a te più cara, ch'a dir et a pensar a molti ha dato, et più oltre, Perch'a salvarte, et me null'altra via, Era a la nostra giovanetta fama, Domanda la Donna e signora del cielo, et di noi quaggiù in terra Dea, se Dea è lecito et conveniente a dirle, volendo inferire di no, perché sarebbe idolatria, non essendo che uno solo Dio, il quale solo tutti dobbiamo adorare. Dice che ella vede il tutto, et quello ch'a lei, di Madonna Laura intendendo, non poteva ragionevolmente fare, che era di levarlo dal pianto, rispetto alla grande et infinita virtù di lei, esser nulla. Onde la prega che voglia esser quella che ponga fine al suo dolore, perché ella ne conseguirà a se stessa onore, et a lui salute eterna.
Per più agevolmente la sua domanda ottenere, il Poeta, nella presente Stanza, dimostra alla madre de' peccatori aver ferma et indubitata speranza in lei, ch'al suo bisogno ella lo possa et voglia aiutare. Onde domanda che ella non lo voglia in su l'estremo passo della vita abbandonare, né a lui, né al suo valore, che la debba muover a curar d'un uom sì basso guardare, ma che debba aver rispetto a Dio, et all'alta sua sembianza, ch'egli di lui teneva, avendolo a sua immagine et similitudine creato. Dice che Medusa, da lui per Madonna Laura intesa, et il suo ostinato errore l'hanno fatto un sasso di vano et stillante umore, il qual intende per le vane lagrime, nelle quali per essa Madonna Laura abbondava. Onde prega che la voglia in sante et pietose convertire, et di quelle adempire il suo lasso et debil cuore, acciocché sì come il primo pianto, che per le sue vane amorose passioni aveva fatto non voto ma pieno d'insania et sciocchezza, così l'ultimo almeno sia devoto, e senza limo terrestre, cioè senza che dal loto e fango di terrene passioni proceda. Di Medusa vedremo brevemente in quel Sonetto, Geri quando talor meco s'adira, Adunque, così com'ella convertiva in sasso tutti quelli che la vedevano, così vuol il Poeta inferire che Madonna Laura co' suoi sguardi aveva fatto di lui, per lo timore et ostinato errore che, mediante quelli, gli avea nel cuor generato. Onde in quel Sonetto, Laura celeste, che 'n quel verde lauro, L'ombra sua sola fa 'l mio cuor in ghiaccio, E di bianca paura il viso tigne, Ma gli occhi hanno virtù di farne un marmo; et in quell'altro, Fuggendo la prigione, ov'amor m'ebbe, Misero me che tardo il mio mal seppi, E con quanta fatica oggi mi spetro de l'error, ov'io stesso m'era involto.
Nella presente Stanza il Poeta prega la Reina de' Cieli che l'amore del commune principio et origine di noi mortali, per esser ella ancora stata di quel numero, la voglia muover ad aver misericordia del suo umile e contrito cuore, perché s'egli è usato d'amar con tanta fede poca caduca e frale mortal terra, come Madonna Laura era, domanda quello che dovrà far di lei, cosa gentile promettendo, che se dal suo misero e vile stato, per le mani, cioè per l'opere di lei, resurge, et si leva di queste caduche e frali cose terrene, che tutto quello ch'egli far solea per quelle esaltare, lo sacra, e prega, e purifica, e monta, per prepararlo al nome divino di lei, e non più quello di Madonna Laura, pregandola ch'ella voglia pigliar in grado et aver accetti questi suoi di Madonna Laura a lei cangiati desideri, e scorgerlo a miglior guado, cioè indrizzarlo per la miglior via, da più agevolmente poter alla felice vita pervenire. Guado propriamente, in lingua Toscana, significa quel transito per lo quale difficilmente e con pericolo si passa torrente o fiume.
Mostra il Poeta, nella presente Stanza, per la velocità del tempo et il vedersi verso l'occaso col rimorso della coscienza andare, d'esser poco lunge da' suoi estremi giorni, onde supplica alla madre di misericordia che lo raccomanda al suo verace figliolo, omo e verace Dio Christo benedetto, ch'accolga l'ultimo suo spirito in pace et eterna requie. Amen.
Orazio.
Giovanni Evangelista nell'Apocalisse.
Sì, talmente.
Terra, corpo terreno.
Stampa, effigie, immagine.
Antifona.
Salomone.
Hinno.
Verso della terza lezione.
Orazione. Vera beatrice, vera cosa che fa beato altrui.
Sedulio.
Oratore.
San Paolo.
Stazio, nel terzo della Thebaida.
Sonsene, se ne sono.
Fora, sarebbe.
Lice, è lecito.
Medusa, intesa per Madonna Laura.
Prendi in grado, aggradisci.
IL FINE DELLA SECONDA PARTE DEI
SONETTI, ET CANZONI DI M.
Francesco Petrarca
Siamo de le due parti de' Sonetti e delle Canzoni, che dal Petrarca in vita et in morte di Madonna Laura furono scritte, e dalle quali l'opera è contenuta, intendiamo dover esser col divino favore pervenuti al desiato fine.
Onde ora, a levate et giunte mani, quasi a similitudine dell'arbore, quando deponuto il peso del maturo frutto, che leva le sue cime al Cielo, ringraziamo lui, ch'a deponer il grave peso di quella n'ha dato 'l potere, che 'l ricordarci ora d'uno et or d'un altro de' quasi investigabili vestigi di tanto Poeta molto diletta e giova. Resta solamente a vedere della terza parte, che fuori dell'opera intendiamo dover andare, il cui principio, come nella divisione di tutte le parti dicemmo, comincia dalla seguente moralissima Canzone, la qual in questa forma nel suo principio divinamente canta.
INCOMICIA LA TERZA PARTE DEI SONETTI E DELLE CANZONI DI MESSER FRANCESCO PETRARCA COLLA ESPOSIZIONE DI MESSER ALESSANDRO VELUTELLO (SIC)
La presente moralissima Canzone, per quanto bene dimostra l'istoria, che in essa dal Poeta si tocca, et che noi abbiamo in altri luoghi e specialmente nell'istorie Milanese de Bernardino Coiro diligentissimo scrittore di quella, veduto, fu fatta da lui l'anno di nostra salute mcccxxvii che fu l'anno seguente, nel qual di Madonna Laura s'era innamorato, et prima che di lei alcuna cosa cominciasse a scrivere, essendo nella città di Milano, ove da Valclusa era venuto, sperando col mezzo di Lodovico Bavaro, il qual con valido esercito in Italia era disceso, esser insieme con gli altri ribelli di Firenze in patria restituito, come nella vita di lui dicemmo. Nel qual tempo tutta l'Italia et specialmente la Lombardia, per le parti Guelfe et Ghibelline, et ancora per aver i Visconti allora Signori del Dominio di Milano, preso l'armi contra di esso Bavaro, era tutta in arme. Ma perché meglio s'intenda, ci faremo un poco più addietro, et quanto più brevemente potremo d'essa istoria narreremo quella parte c'ha miglior lucidazione del testo si ricerca. Onde è da sapere, che dopo la morte di Arrigo xx. Imperatore de Germani, essendo fra gli elettori di nuovo Imperatore nata controversia, perché una parte a Federigo d'Austria, et l'altra a Lodovico Duca di Baviera aderiva, avvenne, che ciascuna delle parti fece elezione del suo. Per la qual cosa, tra questi due principi nacquero gravissime risse, pretendendo ciascuno all'Imperial corona. Onde raunati gli eserciti, e venuti al fatto d'arme, il Bavaro ultimamente restò superiore. Il qual fra certo tempo appresso, essendo richiesto da Galeazzo Visconte, figliuolo del Magno Mateo, Vicario Imperiale allora nel Dominio di Milano, d'aiuto contra la Guelfa fazione, la qual era di Giovanni xxii Pontefice, che la corte teneva in Avignone, favorita, gli mandò seicento uomini d'arme. De la qual cosa sdegnato esso Pontefice, lo fece, come ribello della Chiesa, scommunicare et interdire. Ma il Bavaro di ciò poco curando, deliberò voler passar in Italia, et a Roma andarsi a far coronare. Et così l'anno m.cccxxvii del mese di Febraio, che poi il seguente Aprile il nostro Poeta di Madonna Laura s'inamorò, partì di Lamagna, et per via di Trento essendo a Verona disceso, Marco, fratello del predetto Galeazzo Visconte, andò a fargli riverenza. E per aver con esso Galeazzo, quanto alle cose del dominio, alcune differenze, l'accusò al Bavaro di più mancamenti ch'egli avea contra di sua maestà operato, sollicitandolo al dover venir a Milano. Dove poi che fu giunto, è da Galeazzo molto onoratamente ricevuto, sì per la relazion, che da Marco gli erano fatte di lui, sì ancora per veder di non poter disporre della terra a suo modo, e massimamente nel trarne denari, perché Galeazzo secretamente se gli opponeva, pensò di trovar cagione per la quale e con lui e con I suoi fratelli potesse rompere. Onde sotto specie di beneficio e d'amore, tolse Stefano lor minor fratello appresso di sé, e fecelo de suoi di casa, dal qual facendosi un giorno portar da bere, quasi subito, che gli ebbe fatto la credenza, cadde morto. Onde 'l Bavaro, fingendo aver sospetto di veleno, che Galeazzo con gli altri fratelli ne fossero colpevoli, tutti da Marco in fuori, li fece mettere nella torre di Monza e con loro Azzo figliuolo di Galeazzo, che fuorno Galeazzo, Giovannie Luchino col detto Azzo. Poi menandone seco Marco, prese 'l camino verso Roma, dove essendo pervenuto, col favore del Conte di Santa Fiore Sarra, Colonnese, e di molti altri principi Romani, nel tempio di San Pietro si fece coronare, e contra Giovanni Pontefice creò un Antipapa nominato Nicolao quarto, prima Fra Pietro de l'ordine minore. Ma conoscendo Marco essere stato la roina de fratelli e del nipote, né per questo aver la sua conditione per in parte alcuna cresciuta, cercò col mezzo di Castruccio, allora di Lucca signore, che molto appresso del Bavaro poteva, d'ottenere la liberatione de fratelli e del nipote. La qual cosa Castruccio, per esser sempre di loro fratelli stato amicissimo, pigliò volentieri. E così egli con alcuni nobili Romani supplicorno al Bavaro che ciò volesse fare. La qual cosa fu del tutto lor negata. Onde Castruccio sdegnato si partì da Roma, e a gran giornata se ne tornò a Lucca, e di là n'andò con l'esercito a Pistoia, la qual città in questa sua assentia da Fiorentini gli era stata occupata. Ma il Bavaro, per non avergli voluto concedere la liberatione di Visconti, non poco temendo della sua rebellione, pensò di volersi riconciliar questi fratelli. E così scrisse loro che 'n Toscana lo venissero a trovare, con un'altra lettera al Castellano di Monza, che li dovesse relassare. Vennero questi fratelli in Toscana. Ma Galeazzo, prima che volesse andar dal Bavaro, andò a trovar Castruccio a Pistoia. Nel qual luogo infermandosi, Castruccio lo fece portar a Pescia, dove in brevi giorni finì la vita. Gli altri fratelli con Azzo andaron a Pisa, dov'era giunto il Bavaro, col qual essendosi convenuti di pagargli certa somma di denari, il Bavaro costituì Azzo nel dominio di Milano suo general Vicario, e Giovanni Visconte fece far dal finto Papa Cardinal di santa Chiesa. Alla qual cosa egl'allora, per lo migliore, fu contento assentire. E così spediti e tornati a casa questi Visconti, Azzo presentendo dopo alquanti dì ch'l Bavaro voleva tornare in Lombardia, e per aver in più modi le sue barbariche fraudi esperimentato, e come nessuna fede era in lui, ma che solamente a danari attendeva talmente, che per quella gli amici tutte le dignità, offici e benfici conferiva, et i nimici di qualunque mancamento assolvea, mandò a Monza due suoi secreti ambasciadori a persuader loro che non lo volessono nella sua terra così poco, com'ancor egli lo voleva in Milano ricettare, facendo provigione di gran numero di combattenti, e d'ogni altra cosa alla guerra opportuna, per poter, come poi fece, alle genti barbare contrastare. In questo tempo adunque fu fatta dal nostro Poeta la presente canzone, nella quale riprende i Signori Italici delle loro parzialità e discordie, confortandoli a l'unione, et discacciare i Barbari d'Italia, et ultimamente al pacifico, virtuoso, e ben vivere, dividendo quella in tre parti, proposizione, invocazione et narrazione. Perché noi veggiamo che nella presente prima Stanza, ove dice piacemi almen ch'e' miei sospiri sien quali spera il Tevere e l'Arno, e 'l Po, dove doglioso e grave hor seggio, propone, perché di quei tai sospiri intende voler trattare. Et in quel verso Rettor del cielo io chieggio, invoca, imitando Lucano nel ii libro, ove dice:
Cur nam tibi rector Olympi, Sollicitis visum mortalibus addere curam.
E nel primo verso della seconda Stanza comincia narrare, onde a tutta Italia il parlar drizzando dice, che ben che alle mortali et incurabili piaghe, che sì spesse esser vede nel bel corpo di quella, il parlar sia 'ndarno, sapendo che per sue né per altrui parole, quelli che di lei aveano il governo, dalle loro ostinazion non si rimoverebbero, ch'almeno gli piace ch'i suoi sospiri (per essere egli dalle partialità alieno) sien quali, sieno come quelli che tutta Italia spera, la qual Italia nomina per questi tre fiumi, Tevere, Arno, e Po, sul quale egli allora doglioso e grave, per le occorenze, sedeva. E, in sentenza, piace al Poeta, che i suoi sospiri sieno mossi da quella compassione e pietà, che i popoli d'Italia sperano, che un dì s'abbia aver di loro, da quelli ch' ogni giorno, per le loro parzialità, li mettevano in preda, talmente ch'ogni lor stento s'abbia a terminare, supplicando a Dio, che quella medesima pietà che lo condusse in terra, a patir morte, per la salute umana, lo volga al suo diletto almo paese d'Italia a riguardar, che crudel guerra da sì lievi e semplici cagioni, come l'origine in lei di tal partialità era stata, sia nata in quella. E che i cuori de' Signori Italici, che'l superbo e fiero Marte, Dio delle Battaglie, indurisce, e serra, e falli incrudelire, egli, per sua cortesia, voglia aprire intenerire, et isnodare, con far che per la lingua di lui s'oda, cioè si manifesti in forma, il suo vero, cioè la verità, la qual è propria d'Iddio. Onde in San Giovanni è scritto,
Ego sum veritas et vita
, ch'enteso esso vero, s'abbia a por fine a tanti loro intolerabili mali.
Avendo il poeta nella precedente Stanza proposto quello di che vuol in tutta la Canzone trattare, et fatta la sua invocazione, ora in questa volgendo il parlar a signori Italici, a quali dice, che la fortuna avea posto in mano il freno, et governo delle belle contrade d'Italia, comincia la sua narrazione, imputandoli di crudeltà, per non aver alcuna pietà di quelle, vedendole esser non solamente dalle genti barbare, ma da essi medesimi ancora, per la loro parzialità stracciate, et poste in preda, domandando, et specialmente coloro, com'erano i Vesconti, che per resistere, come di sopra abbiamo detto, al Bavaro, aveano condotto al suo stipendio genti di varie et strane nazioni, quello che facevano allora in quel luogo tante Pellegrine, cioè forestieri (sic) spade. Ch'essendo per cagione di spander il sangue de' Barbari, essi erano da uno vano e sciocco errore lusingati, et poco lunge col suo cieco giudicio vedevano, benché ad essi paresse molto vedere a cercar amor o fede in cuor venale, in cuor apparecchiato a se stesso voler vendere, perché i soldati, per lo stipendio lor dato, vedono se medesimi et fra questi tali non si trova mai amore, fede né alcuna pietà. Onde Lucano nel decimo libro,
Nulla fides, pietasque viris, qui castra, sequuntur, Venalisque manus sibi fas ubi maxima merces
, volendo inferire che se l'unione fosse fra loro, non averebbono bisogno d'esperimentar la fede de' forestieri soldati, perché assai farebbono per lor medesimi a tutte l'imprese bastanti, ma che a questo modo, chi di loro possiede più gente, colui giudica che sia avolto da più suoi nemici. Et esclamando a tal moltitudine, la chiama per lo gran numero, un raccolto diluvio, dolendosi che sieno venuti di sì strani deserti, come i luoghi donde essi erano, per inondare, avendo detto diluvio, di sangue i nostri doci e ameni campi d'Italia. Ma che se questo dalle proprie mani, proprie opere n'aviene e che noi medesimi ne siamo cagione, domanda chi sarà colui che di tanto danno, e sì misera sorte, ne scampi, ne liberi, volendo inferire che nessuno, poiché questo per lo nostro proprio voler n'aviene.
Ha il Poeta in fine della precedente Stanza dimostrato non essere chi dalle mani dei Barbari possa scappare, poi che noi medesimi siamo del nostro mal cagione. Ora nella presente tal proposito seguitando, dice, la provida et sagace natura, ponendo l'altissime alpi tra essi Barbari et noi, accioché per averne fatti dissimili in costumi, non avessimo l'uno con l'altro a conversare, aver in tal forma bene, e ottimamente al nostro stato proveduto, imitando Giuvenale nel x. Satire ove dice:
opposuit natura alpemque, nivemque
. Ma che 'l cieco desiderio et fermo sempre contra il proprio ben di noi Italici, s'è poi tanto ingegnato che invitandoli da noi, più volte di qua da l'Alpi li ha fatti passare, talmente ch'a questo corpo d'Italia, che prima era sano, ha procurato scabbia, ha procacciato rogna et impaccio. Onde ora dentro a questa Italia, la qual per esser chiusa dalle alpi e da due mari, domanda gabbia, s'annidano e ricoverano Fiere selvagge, intese per li Barbari, et mansuete gregge, che siamo noi Italici, ma in forma che sempre noi intesi per li megliori, per esser da loro oppressi, gemiamo. E per più dolore, questi dice, esser del seme, cioè de discesi da quel popolo senza legge e senza forma ragionevol di vivere, al quale Mario aperse talmente il fianco, che memoria de l'opra, quando, assetato e stanco, bevve del fiume non più acqua che sangue, anco non langue, ancora non è spenta. La qual historia è come, essendo esso Mario nel suo quarto consolato, da Romani contra de Tedeschi e Cimbri mandato, ebbe di loro sopra l'acque dette Sestili vittoria. E come volendo poi di quelle bere, non bevve per lo sparso sangue de nimici, men sangue che acqua, narra Plutarco nella vita d'esso Mario.
Nella precedente Stanza il Poeta per l'essempio di Mario ha dimostrato, come i Tedeschi, da quali eran discesi quelli ch'allora erano in Italia col Bavaro, furon altre volte da l'Italici superati e vinti. Ora in questa adduce l'esempio di Giulio Cesare, che similmente, come scrive Plutarco et egli stesso ne' suoi commentari, nel conquisto che fece della Germania, e più volte nella guerra della Gallia essendo in soccorso di quei popoli venuto, furon da lui spezzati. Onde dice ch'ora pare che 'l cielo permetta che noi siamo così maltrattati da quelli che solevano esser vinti da noi, n'abbia in odio e che non sa da quai maligne stelle questi rei influssi ne vengano. Ma voltandosi a' Signori d'Italia, mostra questo avvenire per la lor mercede, che tanto hanno commisso e voluto che sia, volendo inferire che i Barbari, senza il mezzo loro, mai non arebbono l'Alpi passato. E questo procede dalle lor divise e contrarie voglie, le quali guastano l'Italia, che per molti rispetti è la più bella parte del mondo, riprendendoli ancora del fastidio e stento che, per le parzialità ogni giorno a i loro poveri vicini danno. E poi in disparte, che cercassero, gradissero, e dessero favor a gente, che spargesse 'l sangue e vendesse l'alma, cioè la vita a prezzo, il qual era lo stipendio, che da essi era lor dato. Volendo inferire che meglio sarebbe stato d'aver deponuto le parzialità, e favorito i suoi vicini, e di quelli fidatosi, senza star a conducer in Italia gente strana, per fare essa Italia distruggere. Dalle quali genti, non erano ancora poi ben certi, come se ne potessero fidare. E questo dice ch'egli parla per dir il vero e non per odio né per sdegno d'altrui, essendo egli dalle parzialità alieno.
Riprende il poeta nella presente Stanza l'ignoranza di quei signori Italici, ch'erano appresso del Bavaro, e che nelle sue fallaci promesse aveano quasi posto ogni loro speranza, dicendo ch'ancora per tante prove non s'accorgevano del suo inganno. Ch'alzando il suo dito, col qual si promette la fede, egli scherzava et giocava con la morte, perché sotto la fede minacciava di quella, essendo in uso di colui che minaccia, medesimamente, come colui, il qual promette la fede d'alzare il dito. La qual cosa per prova aveano potuto veder in Stefano, minor fratello de Visconti, come di sopra abbiamo veduto, et in Marco. Il qual trovandosi da lui abbandonato, e de fratelli e del nipote in disgrazia, per disperato s'era giù da una fenestra gittato e volontariamente occiso. Tanto che la morte di questi due fratelli, et ancora quella di Galeazzo, che per la incommodità patita nelle carcere, fu tenuto ch'egli si morisse, era seguito per lo suo mancar loro di fede. Ma lo strazio che di quelli faceva, dice, che gli pareva ancor peggior che 'l danno, perché colui che muore una volta, esce di stento. Ma essi ogni giorno pativano mille morti: e questo dice avvenire per essere da altra ira che da quella del Bavaro sforzati, intendendo da l'ira di Dio, il qual per li loro demeriti così permetteva che seguisse. Onde il loro sangue più largamente piovea che solamente per l'ira del Bavaro fatto non avrebbe. Ma che se vogliamo conscer in quanto errore ch'essi sono a credersi del Bavaro esser tenuti cari e apprezzati, che dalla mattina a terza, cioè vicino a tale ora, come accomodata a più sotilmente investigar il vero, pensino di loro. Onde Pithagora dava per ammaestramento a suo (sic) discepoli, che due volte il giorno, cioè mattina et sera, dovesso (sic) pensare alle cose loro, la mattina a quello che s'avea da fare, et la sera a quello che s'era fatto. Et Orazio nel ii libro della iii Stanza disse,
Verum impransi mecum disquisire
. Et così dice che vedranno com'è tenuto caro, et è stimato da altri colui il quale se medesimo tiene così vile, com'essi tevano, et facevansi tener dal Bavaro, dal quale ogni giorno riceveano qualche torto e sempre, com'il cane, tornavano a lui, mostrando senza 'l suo furore né di lor medesimi né delle lor cose poter disporre. Onde inanima tutti i popoli d'Italia, da lui sotto 'l nome Latino intesi, a discacciar queste some e incarichi dannosi et a non far suo idolo un nome vano e senza soggetto, com'è quello del Bavaro, il quale si faceva chiamar Imperadore, et era, come abbiamo veduto, senza legittimo imperio. Soggiungendo che 'l furor di là su, rispetto al luogo donde questi Barbari erano qua giù in Italia discesi, gente ritrosa et ad ogni civil vivere contrari, non esser cosa naturale che debbano vincer noi Italici d'intelletto et esserne superiori, perché l'Italici sono naturalmente di più considerato ingegno di loro. Ne' quali, per lo furor della mente, non può esser consiglio, né buono discorso, ma l'attribuisce al nostro peccato, per lo qual punire, Iddio permette che noi siamo da loro in tal modo stracciati.
Sforzasi il Poeta nella presente stanza di muover generalmente tutti i Signori d'Italia a compassione di quella et particolarmente della propria, de suoi defunti genitori et del suo, per le distruzioni ricevute, doloroso e lagrimevol popolo. La virtù del qual, dice, che piglierà l'arme contra il furor de Barbari, pur che essi mostrino qualche segno di pietà verso di quello. Et che il combatter sarà corto, per non essere ancora ne cuori Italici morto l'antico valore, col quale molte volte li hanno superati e vinti. Onde pressa ch'essi si tragghino a mente questo esser il terreno, che prima toccato aveano. Questo esser il nido, cioè l'albergo ove dolcemente erano stati nutriti. Et ultimamente che questa era la patria, nella quale essi si fidavano, e che l'uno e l'altro lor parente, cioè padre e madre copriva.
Avendo il Poeta nelle precedenti stanze assai bene i Signori d'Italia contra li Barbari inanimato, ora in questa li essorta a dover considerar la velocità del tempo e come tosto si camina alla morte. E però dice che debbano deporre l'odio e lo sdegno ch'era fra loro e quel tempo che insidiarsi l'uno l'altro spendevano, convertino in qualche degna e lodevole opera. Perché bene e virtuosamente vivendo si gode qua giù, e poi al partir della presente vita vi si trova la strada, per la qual si sale al cielo, senz'alcuno impedimento aperta. Onde dice, mirate Signori come vola 'l tempo, sì come fugge la vita, et sopra le spalle n'è la morte. Ora voi siete qui, pensate alla partita, come che, perché convien che l'anima arrivi a quel dubbioso calle, a quel dubbioso passo della morte, ignuda e sola spogliata e netta d'ogni vitio, come si suol inferire. Piacciavi, al passar questa valle, porre giù lo sdegno e l'odio, contrari venti, nocivi avvenimenti alla serena vita. E quel tempo che si spende in altrui pena, si converta in qualche più degno atto, o di mano o d'ingegno, in qualche bella lode, in qualche onesto studio. Così si gode qua giù, e così si trova aperta la strada del cielo.
Ammonisce il Poeta nella presente ultima Stanza la Canzone che dovendo ella fra gente altiera e superba com'era quella alla quale ella s'adrizza andare, per esser le sue voglie piene della pessima antica usanza, la quale è nemica del vero, perché si turba quando avien che li sia detto, che debba dir la sua ragione cortesemente et in forma che non s'abbia a turbare. Et per saper che seco non potrà far frutto, dice che debba provar sua ventura fra quei pochi magnanimi, a quali piace 'l bene, e che del buono e pacifico viver si dilettano, domandando, chi di lor l'assecura di pericolo, per ch'ella va gridando pace, cosa molto dispiacevole a gl'insidiosi e rei.
Argomento della presente Canzone
Bernardino Coiro Millanese (sic)
Stefano morto di veleno
Nicolao IV Antipapa
Morte di Galeazzo
Azzo Duca di Milano
Giovanni Cardinale
Lucano nel ij libro
Italia intesa per tre fiumi
Giovanni
Pellegrine forestiere
Lucano
Giuvenale
Mario
Cesare
I Barbari passarono l'Alpi per difetto degl'Italiani
Dalla matina a terza: cioè un picciolo momento di tempo
Orazio
Idolo vano quello che qui significhi
Quello che debbano pensare gl'Italiani
L'odio essser cagione de'danni nostri
L'alterezza e la superbia è nimica del vero
Il presente Sonetto, per quanto la sua sentenza ne dimostra, fu fatto dal Poeta in Guascogna sotto de monti Pirenei, in luogo amenissimo di Iacobo Colonna Vescovo, dove, sì come in sua vita dicemmo, e ch'egli in una sua epistola scrive, seco una state con grandissimo piacere stette. E mandollo in Avignone al Signore Stefano Colonna, al quale il suo parlar drizzando dice della dilezione et allegra vita tenuta da lui et dagli altri che 'n quel luogo erano. E come solamente lui, per la sua lontananza, faceva imperfetto tanto lor dilettevol bene. Domandalo adunque rispetto al suo cognome, Colonna gloriosa, nella qual dice che s'appoggia, cioè si confida a lor speranza, intendendo della sua et di quella che de gli altri che de famigliari di casa erano. E conseguentemente per più laude attribuirgli, tutto 'l gran nome latino, cioè tutta l'Italia, la qual colonna dice che l'ira di Giove, per vento fa pioggia, cioè per nessun caso avverso, potè mai dal vero o dritto cammino della virtù torcere o disviare. E questo perché in quei tempi tra gli Orsini e Colonnesi erano state mortalissime guerre et ancora erano, talmente che i Colonnesi, come banditi e scacciati fuori di Roma, andavano dispersi. E nel suo dire seguitando, mostra in quel luogo non esser palazzi, non theatro, non loggia, ma in lor vece, ma in lor luogo, un abete, un faggio, un pino tra l'erba verde, e 'l bel vicino monte, onde cioè per lo quale si scende et poggia, si cala e si monta poetando. A dinotare quello non esser luogo frequentato dal vulgo, il qual per li palazzi, theatri e loggie suol correre, ma da contemplanti et nobili spiriti, che la loro solitudine cercano. Onde dice che queste tali cose levano in loro intelletto di terra al cielo. E 'l Rossignuolo, il qual per la violentia fatta in corpo umano da Tereo, si lamenta e piagne tutte le notti, ingombra, empie lor il cor d'amorosi pensieri. Ma che solo egli, il qual da loro si compagna (sic), tronca et fa imperfetto tanto lor dilettevol bene.
Giacomo Colonna
Stefano Colonna
Nome Latino, cioè l'Italia
Poggiare, quanto ascendere o montare.
Per lo presente Sonetto si comprende il Poeta aver mandato a donar alcuni animali, i quali a chi mandati, o che animali si fossero non essendo, per dichiarazione del testo, cosa molto necessaria a sapere, lo lasseremo investigar a più curiosi. Giunti adunque essi animali innanzi a colui al quale erano mandati, insieme col presente Sonetto finge ch'essi animali parlino , e dichino essere stati presi da esso Poeta a piedi quei colli. E fu quel piano sul qual veggiamo nella tavola la terra di Gabrieres esser posta, ove per circoitione mostrano che Madonna Laura nascesse. Nel qual luogo dicono che libere, in pace et senza sospetto d'alcuni impedimenti passavano per questa mortal vita da ogni animal desiderava (sic), ma che nel misero stato nel quale, rispetto a l'altra serena vita di prima che fossero presi, si trovano condotti, e della morte, che conoscano esser loro vicina, hanno un sol conforto. Il quale è che sì vedono di lui, cagione della lor miseria, vendicati, per rimanere egli presso a l'estremo della vita nella forza e arbitrio d'altrui, intendendo di quello di Madonna Laura, legato con maggior catena ch'essi non sono. Il testo va in questo modo ordinato: A piè de' colli, ove la donna, che desta dal sonno lagrimando colui che ne invia a te, prese pria la bella vesta delle membra terrene, passavano (sic) per questa vita mortale, ch'ogni animal desia, libera e 'n pace, senza sospetto di trovar cosa fra via che fosse molesta al nostro andare. Ma del misero stato ove da l'altra vita serena noi semo condotte, e della morte, avemo un sol conforto: che vendetta è di lui ch'a ciò noi mena, il qual rimane in altrui forza presso a l'estremo, cor (sic) maggior catena legato.
La bella vesta: cioè le belle membra terrene, le quali sono vesta dell'anima.
Per la inteligenza del presente sonetto è da sapere che 'l Poeta, avendo in memoria di Madonna Laura piantato un lauro vicino alla terra di Gabrieres, sul picciol torrente di Lumergue, de l'uno e l'altro de quali ne l'origine di lei et in altri luoghi de l'opera dicemmo. E temendo che per lo freddo e reo tempo del verno non venisse a morire, prega Apollo, cioè il sole, che per lo bene di ciascuno di lor due, voglia a quello remediare, dicendo che, se vive ancora in lui il bel desiderio amoroso, ch'a le Tessaliche onde del fiume Peneo per la sua bella Dafne l'infiammava; e se per lo voltar di molti anni non ha le sue amate chiome bionde dimenticare (sic), che dal pigro gielo e da l'aspro e reo tempo, che tanto dura, quanto egli sta ascoso e lontano danoi, debba difendere l'onorata e sacra fronde di quello, alla qual fronde prima esso Apollo e da (sic) lui da po fu invescato e preso, alludendo al nome di madonna Laura. Soggiugnendo che per virtù de l'amorosa speme dalla quale nella vita acerba delle sue amorose passioni fu sostenuto, che voglia disgombrare e con prestezza rimovere da l'aere quelle male opressioni; acciò che fatta lucida e chiara e mancato 'l freddo, possano vedere la loro donna, per esso arbore intesa, seder sopra l'erba e far delle sue braccia, cioè far de propri rami ombra a se stessa. La fronde del lauro è onorata perché i Poeti ne sono incoronati et al tempo de Romani, in segno di trionfo, se ne coronavano i trionfati; sacra, per esser da esso Apollo sacrata. Onde dice: Difendi hor l'onorata et sacra fronde.
Impression: maligni influssi.
Il presente Sonetto, secondo l'opinione d'alcuni, fu mandato dal Poeta a Giovanni Boccacio da Certaldo, dubitandosi che, per viltà d'animo, o qual si fosse altra cagione, non abbandonasse i principati (sic) studi. A quali seguitare con ottime ragioni esortandolo, dimostra come dal troppo crapulare, dal troppo dormire e dal troppo lungo riposo, essere stata sbandita dal mondo ogni virtù; essendo cosa verissima che quelli, i quali vogliano venir a qualche perfezione di quelle, è necessario che rimovino da loro tutte queste superfluità e facciano, come n'ammaestra Lucano dicendo:
Discite quam parvo liceat producere vitam, Et quantum natura petat
. E a questo proposito Marco Tullio:
Esse oportet, ut vivas, non vivere ut edas
. E Boezio:
Paucis minimis quae natura contenta est similitudine
. Seneca, ne l'epistola a Lucillo dice che leggiermente et tosto s'apparecchiano quelle cose che ne sono necessarie a sostentar la vita. Tolto adunque via questo superfluo cibo, leggiermente ci possiamo dal superfluo sonno e dalla pigrizia astenere, perché il superfluo sonno non procede da altro che dalla densità de fumi ch'ascendono dallo stomaco al cerebro per lo superfluo cibo et il sonno induce la pigrizia. Ma essendo, com'è detto, di queste cagioni ogni virtù del mondo sbandita, ne segue che la nostra natura, la qual è rationale, viene ad esser quasi del suo natural corso smarrita, perché l'uomo è nato per doversi, mediante la ragione , la qual da gli animali bruti ne fa differenti, in qualche lodevoli opere essercitare. E ogni volta che manchiamo di quelle possiamo dire la nostra natura esser quasi smarrita del suo corso naturale et dal costume e consuetudine vinta. Le quali con l'asino e col bue sono comuni, perché ancora essi sanno andare dove sono usati pascersi et tornare alla stalla, soggiugnendo esser talmente spento ogni benigno lume del cielo, cioè de corpi celesti delle stelle, mediante le quali secondo l'opinione d'alcuni Filosofi, com'abbiamo in quella Canzon, A qualunque animale alberga in terra, veduto, s'informa et mantiensi questa umana vita, perché in altri secoli solevan nascere uomini, i quali venivano venivano in ogni facultà di dottrina eccellenti. Ma essendo quei benigni lumi, che ne gli uomini tante et sì nobili virtù infondevano, spenti e regnando stelle maligne et odiose, producano uomini tutti a quelli differenti e contrari; e se pur aviene ch'alcuno ne venga a qualche perfezione, il qual voglia d'Elicona far nascer fiume d'eloquenza, qualche elegante et ornato poema scrivendo abondare, questi tali, come cosa mirabile et nuova, per esser ogni virtù venuta meno, sono mostrati a dito. Qual vaghezza di lauro, qual di mirto: queste sono parole indegnative del Poeta, per dimostrare quanto fossero le virtù della turba et ignorante vulgo poco apprezzate. La qual turba, beffandosi della Filosofia, dice ch'ella ne va povera e nuda, perché tali virtù s'acquista per pascer il ventre, né per ornar il corpo, ma per nutrir et illustrar l'animo. E la turba stima che 'l sommo bene consiste nel suo utile, anzi dannoso guadagno, al quale è del tutto dedita, perché la cupidità de l'accumulare induce l'avaro ad ogni estrema miseria. Onde sapientemente Virgilio:
Quid non mortalia pectora cogis Auri sacra fames
? Le facultà si debbono ricercare perché sono necessarie sostener la vita et alcuna volta, chi le metta in buon uso, sono previe alla alla virtù. Ma debbonsi con modo e giusto ordine volerle et amarle, ma non farsi lor schiavi, onde Seneca:
Pecuniae usum habere oportet, sed ei servire non oportet
. Et conchiudendo dice che egli avrà pochi compagni andando non per questa via per la qual procede la turba, ma per l'altra della Filosofia. Onde in quanto minor numero saranno quelli che per tal via seguiranno, tanto più et maggiormente la prega ch'egli non voglia la sua magnanima et et alta impresa lassare, ma perserverar in quella, perché
Omne ratum, pretiosum
. Elicone et Citerone sono gioghi in Parnaso, monte posto in Beozia, ovvero in Focide, parte della Grecia. Elicone è dedicato ad Apolline, citerone a Bacco, il quale gli antichi similmente volevano, che fosse Dio de' Poeti, là donde il coronavano d'edera, la qual a lui è dedicata. Onde Virgilio:
Atque hanc sine tempora circum, Inter invectrices hederam tibi serpere lauros
. E Properzio:
Mi folia ex hedera porrige Bacce tua
. In Parnaso nasce il fonte di Pegaso alle Muse dedicato, adunque, per certa similitudine del fonte, fa nascer fiume d'Elicona chi eloquentemente scrive in Poesia, essendo, com'è detto, Elicona ad Apolline Dio de' Poeti dedicato. Il mirto, per essere dedicato a Venere, la corona di quello s'attribuisce agli amorosi poeti, cioè a quelli che poetando hanno cose amatorie scritto. Onde Tibullo, nella terza Elegia di quelli trattando:
Illic est cuicunque rapax mors venit amanti, Et gerit insigni mirtea serta coma
. E nella decima:
Hunc pura cum veste sequar mirtoque canisti Vincta et ipse caput.
Lucano
M. Tullio
Opinion di alcuni filosofi circa alle stelle
Virgilio
Elicone et Citerone
Propertio
Tibullo.
Il presente Sonetto fu fatto dal Poeta in risposta alle consonanze d'un altro statogli scritto da Stramazzo da Perugia, posto in fine della presente terza et ultima parte, il cui principio è questo: La santa fiamma, della qual son prive, nel quale, come per la sua sentenza confusamente si può vedere, esso Stramazzo lo ricerca d'alcune delle sue rime. Onde il Poeta rispondendo, mostra in sentenza tanto esser da l'Amore di Madonna Laura oppresso, ch'a tal cosa non si trova sofficiente et però dice che debba cercar un altro, lo stato del quale sia più tranquillo del suo, in questa forma dicendo: Se l'honorata fronde, intendendo quella del lauro, per alluder al nome di lei; Che prescrive, cioè la qual termina quando il gran Giove tuona, l'ira del cielo, per esser essa fronda privilegiata che il folgore non la possa toccare; Non m'havesse disdetta, non m'avesse negata la corona che suol ornar chi scrive poetando, intendendo pur di quella del lauro, della quale i Poeti ne sono coronati; I era amico a quel de nostre Dive, a queste nostre Muse, le quali il secolo abbandona vilmente, volendo più tosto attender al vil guadagno, che le Muse seguitare. Ma quella ingiuria fattami, come vuol inferire, da Madonna Laura di tenermi in tante amare passioni, Già mi sprona, già mi fa andare lungo, Da l'inventrice delle prime olive, da Minerva Dea delle scienze; volendo inferire che se non fossero tali passioni, già sarebbe da lui tal corona stata conseguita. Onde ancor in quella Canzone Se'l pensier che mi strugge, Però ch'amor mi sforza, e di saper mi spoglia, parlo in rime aspre e di dolcezza ignude. Che cioè perché la polver d'Etiopia non bolle sotto 'l più ardente Sole, com'io sfavillo, perdendo tanto amatacosa propria, quanto è questa poetica facultà. Cercate adunque dice, fonte d'eloquenza più tranquillo, cioè persona cui stato sia più pacifico del mio, perché il mio Sostiene inopia, ha necessità d'ogni licore, Salvo di quello ch'io stillo lagrimando. Per qual cagione la fronde del lauro sia onorata dicemmo in quel Sonetto: Apollo s'ancor vive il bel desio. Minerva si dice essere inventrice delle prime olive, perché essendo lei e Nettuno, Dio del mare, in liete fra loro del nome che dovesser porre a la città d'Atene, si convennero in questo, che qual di loro producesse più degno effetto, colui lo dovesse porre. Onde percotendo Nettuno col suo tridente la terra, ne nacque un possente et feroce cavallo; percotendo Minerva con la sua asta ne nacque una bella, fronduta e fruttifera oliva. Et giudicato fu l'effetto di Minerva più degno, di quanto è miglior la pace della guerra. Dicesi Minerva esser Dea delle Scienze, essendo nata dalla testa di Giove, perché volendo egli mostrar a Giunone non esser difetto di lui, se non procreavano figliuoli, si percosse la testa, della qual percossa essa Minerva ne fu generata.
Stramazzo da Perugia
Prescrive, termina
Minerva inventrice delle prime olive.
Piace ad alcuni che 'l presente Sonetto fosse scritto dal poeta rispondendo a certi suoi amici, ei scusandosi perché a Firenze, dove per alcune sue occorenze doveva andare, e dove essi suoi amici con desiderio gli aveano scritto d'aspettarlo, non era andato. Ma essendo giunto a Genova, avea mutato sentenza, talmente che, dove per andar in Toscana dovea tenere il cammino dritto, avea torto a sinistra, et erasene andato in Lombardia, pigliando tale argomento da l'una fra l'altre sue famigliari epistole, che di Lombardia a Giovanni Anchiseo a Firenze scrive, il cui principio è questo: Literae tuae plenae gratissimis atque dulcissimis reprehensionibus invenerunt me circa Padi ripam, nella quale di tal cosa tratta. Et ancora dicead essi suoi amici voler rispondere, nondimeno perché nel Sonetto pare che egli sì desideri esser con essi amici, non a Firenze, dove ch'egli per non potervi andare, non fu mai, ma in certa valle. Et al suo desiderio essere stato impedito et non per propria elezione, ovveramente così ispirato da Dio, come mostra in essa epistola aver lassato d'andarvi. Et quando era in opinione d'andarvi, voleva passar per l'alpi di Bologna. Et non dice che volesse, come par per lo Sonetto, tener il camino a man dritta, come la migliore e la più breve via sarebbe fatta. Tale opinione a noi non piace, non sapendo ancora per quale cagione debba dire ch'a Genova il nostro mar implichi più che ne gli altri luoghi la terra. Ma la nostra opinione si è che 'l Sonetto scritto dal Poeta in quel tempo ch'egli stette a servigi di Giovanni Pontefice. E d'Avignone ad alcuni suoi amici, come Sennuccio e Franceschino fosse da lui a Valclusa mandato: dove, quando mancavano dalle cure, solevano seco alcuna volta per suo diporto andare e dove da loro perché allora fosse aspettato. Onde abbiamo da presupponere che, dovendo il Poeta andar per occorrenze del Ponefice in Acqua Morta, dove il Rodano mette in mare, avesse lassato a questi tal suoi amici ch'a Valclusa dovessero andar ad aspettarlo, perché, spedito ch'avesse quelle ch'a far andava, egli farebbe quella via et starebbonsi alcuni giorni in quel luogo a piacere. Essendo adunque costoro a Valclusa et egli in Acqua Morta andato, o ch'egli avesse lettere dal Pontefice che lo sollecitassero a dover tosto in Avignon tornare, o qual altra cagione si fosse, egli non potè, com'avea determinato, a Valclusa andare. Ma essendo in Avignone tornato, acciò che quei suoi amici a Valclusa più non l'aspettassero, scrisse lor il presente Sonetto. Nel quale di tal impedimento molto si duol, dicendo che, quanto egli Spiega, cioè apre più l'ali del desiderio verso di loro, che tanto fortuna con più viso Intrica, cioè impedisce il suo volere, per aver detto l'ali spando, e fallo errando andare. E che 'l cuore, cioè l'animo, il qual egli mal suo grado manda a torno, è sempre con loro In quella valle aprica, cioè in quella valle amena e dolce. E che Ove, cioè in quel luogo, nel quale il nostro mare, intendendo del Gallico, che rispetto al luogo dove essi erano, era il lor mare, Implica, cioè inonda più la terra, egli s'era l'altrieri da esso suo cuore lagrimando partito, intendendo, come detto abbiamo, d'Acqua Morta. Ma perché intenda che 'n questo luogo il mar di Gallia implichi più la terra, è da sapere, sì come scrive Plutarco nella vita di Mario, che al tempo de' Romani, essendo esso Mario nel suo quarto consolato contra de' Tedeschi mandato, i quali uniti co' Cimbri, oggi detti Fiamminchi, venivano contra de' Romani, si fermò ad aspettarli in questo luogo. E perché i navili, che per mare gli conducevano le vettovaglie, per lo velocissimo corso del Rodano, et ancora perché spesse volte il mar gettava nella foce quello (sic) molta rena, difficilmente si poteano farli nella rivera entrare; onde sì per questo, sì ancora per non tenere l'esercito in ozio, procurò di fare una larghissima e profondissima fossa, ancora oggi detta la fossa Mariana, nella quale da alto luogo fino al mare divertì una parte de l'acqua d'esso Rodano. E perché tal fossa non ha drittura verso 'l mare, ma con alcune ritorte artificiosamente fatte procedeva, l'acque venivano per quella a raffrenar il corso et farsi tanto lento e debole, ch'a pena ancor oggi si conosce verso qual parte corra; onde ha perso 'l nome d'Acqua Morta e dentro da quella la salsa insieme con la dolce si vien a mescolare. E così poi per questa tal fossa leggiermente i navili, come fanno ancora tutto 'l dì, potean tirare. Dunque, per tal ragione in questo luogo il mar di Galli più che in altro implica la terra. E perché chi vuol di questo luogo a Valclusa andare, piglia una via che mena dritto a Cavaglion, città presso di Valclusa una lega, et chi va in Avignone tiene a sinistra quasi sempre lungo il Rodano, il Poeta dice essersi in quel luogo partito dal cuore, ch'egli andando verso Avignone avea a man manca. Et il cuore avea 'l dritto cammino per andar (com'egli desiderava) a Valclusa tenuto, Et egli, per la ragion detta sopra, era stato tratto a forza e contra sua voglia, et il cuore scorto e guidato da l'amore ch'a suoi amici, ma più forse da quello ch'a Madonna Laura portava. Onde, per similitudine, dice esso cuore essere in Ierusalem, terra di promissione e libera, et egli in Egitto, terra deserta e di servitù, dimostrando con la patientia confortarsi, la qual, per lungo uso del loro esser rade volte e corto tempo insieme, è più facile a pigliarla, perché
Ab affluetis nulla fit passio
.
Viaggio del Petrarca
Quando il Petrarca scrisse il presente Sonetto
Inplica, inonda
Fossa Mariana
Egitto terra deserta e di servitù.
A più chiara notitia del presente Sonetto, fatto dal poeta nel tempo ch'a seguir di Giovanni XXII stette, come nel precedente detto abbiamo, è da sapere, secondo che l'interprete d'Aristofane nella prima Comedia scrive, ch'al tempo degli antchi era in Beozia, overo in Focide al monte parnaso vicino, certa concavità in forma di spelonca, dentro alla quale chiunque guardava, ricevea lo spirito profetico e prediceva le cose future. Alcuni Filosofi, quali ebbero opinione che 'l mondo fosse animato, dissero che di questo luogo spirava, e che dal suo spirare, tal proprietà veniva. La cognitione di questa cosa ebbe origine da certi pastori, i quali presso a quel luogo I suoi armenti pascevano: perché, avendo dentro a tale spelonca guardato, si partivano con fare strani movimenti et indovinando predicavano le cose future. Vogliono adunque i Poeti ch'Apollo ancora egli a questa spelonca andasse e che Profeta vi devenisse. Onde Lucano nel v Libro:
Ut vidit Pean vastos telluris hiatus Divinam spirare fidem ventosque loquaces exhalare solum, sacris se condidit antris Incubuitque adyto, vates ibi factus Apollo
. Per la qual cosa il Poeta, sotto tal finzione, vuol significare che, s'egli fosse stato fermo alla sua abitatione in Valclusa e non si fosse a servigi del Pontefice et a seguitar la corte condotto, che mediante i suoi poetici studi avrebbe, nel perseverar in quelli, fatto tal frutto che fino allora sarebbe stato laureato. Onde non pur solamente Verona avrebbe Catulo, Mantova Virgilio et Aurunca Lucilio. Ma Firenze ancora avrebbe 'l suo Poeta, che sarebbe egli quello desso. Ma perché 'l mio terren più non s'ingiunca De l'humor di quel sasso, a quello sotto del qual sorge il fonte di Sorga, alludendo; Ma perché 'l mio ingegno non s'adorna più della eloquentia ch'esce da tai poetici studi, convien ch'i segua altro pianeta, altra più malivola stella; E del mio campo mieta lappole e stecchi, e del mio ingegno tragga cose sforzate e sterili, Con la falce adunca, con la falce curva. Stando alla metafora del terreno, l'Oliva è sacca, per l'oliva intende Minerva, Dea di tutte le scienze, e l'esser secca per esser in lui la facultà poetica venuta a meno. Perché l'acqua, intesa per la eloquenza, che di Parnaso deriva, Per cui, cioè per la quale essa sua poetica facultà in alcun tempo, cioè quando a tali studi dava opera, fioriva, e rivolta altrove ha preso altro cammino; e così dice fortuna, overo la sua propria colpa, privarlo d'ogni buono e lodevole frutto, Se l'eterno Giove, se l'eterno Dio, Non piove, non abbonda sopra di lui della sua divina grazia.
Spelunca in Beozia.
Nel presente Sonetto il Poeta mostra essersi dalla servitù del papa e della corte partito; la qual corte, l'empia Babilonia, rispetto a sozzi vizi che 'n quella esser solevano, è da lui intesa. Et essendo sua habitatione di Valclusa, tornato in quel luogo starsi solo, e quetamente lungi dalle passioni vivere, senza sentirsi Dentro né di fuori, cioè molto né poco Gran caldo, da gran desiderio di onori o di ricchezze essere oppresso, di che quando egli era in corte, come nella seguente Canzone vedremo, egli ardeva. Ma solamente due persone mostra desiderare, delle quali l'uno vorrebbe che fosse col cuore verso di lui umile e pacificato, e questa è Madonna Laura; l'altro col piè nel suo stato come fu mai saldo. E questo è il Signore Stefano Colonna il giovene che, per trovarsi in quei tempi co gl'altri Colonnesi da suoi nemici Orsino fuor di Roma cacciato, non era col piè saldo nel stato, come desidera che fosse.
Stefano Colonna il giovane.
Il presente Sonetto giudichiamo essere stato fatto dal Poeta quel tempo medesimo ch'egli si partì da servigi del Pontefice e dalla corte, come precedentemente detto abbiamo, nel quale similmente contra d'essa scorte (sic) insurge, biasmandola generalmente di tutti i vizi , ma in specialità di rapina, di tradimento, di gola e di lussuria, dimostrando che 'l suo principio non fu d'esser nutrita in tante delicatezze, com'allora in quella vivea; ma in somma inopia et povertà, la vita di Cristo imitando. Onde riprende la vituperosa lascivia di quei lussuriosi vecchi prelati, quali con le giovenette fanciulle meretrici andavano per le camere trescando, come d'uno Cardinale in una sua epistola referisce. Et Belzebub in mezzo, cioè lo sfrenato appetito lascivo fra loro, co mantici et col fuoco, per accender in loro, mediante l'esca delle vivande incitative la concupiscentia carnale, che da gli anni senili suole essere spenta. E con li specchi, il quali (sic) po meglio ogni suo vergognoso membro mirare, usano nelle camere tenere, della qual cosa Eschine et Seneca solevano Timarco dannare.
Prelati lussuriosi
Seguita il Poeta nel presente Sonetto, come ne due precedenti ha fatto, in biasmare i sozzi vizi della Romana corte. Costantino Imperadore fu il primo che dotò la chiesa, poi che da Silvestro Papa fu fatto Cristiano. Ma lo fece perché al colto (sic) divino con più ornato apparato et gravi cerimonie si potesse proceder, essendo la Chiesa per adietro stata in somma povertà et non perché tal dote si convertisse nel pessimo uso ch'allora si convertiva. Onde Dante nel xix de l'Inferno: Oh Costantin di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre. Dice dunque il Poeta che Costantin non torna, volendo inferire che se tornasse vedesse (sic) com'essa fosse amministrata, che glie la torrebbe. Ma non potendo tornare che Christo, del quale ha detto che fia gran miracolo se non s'adira seco, debba tor via il tristo mondo che tanto vituperi sostiene, O region d'ira, o pregion crudele.
Dante
La presente dottissima canzone fu data dal Poeta in quel tempo, nel qual di sopra detto abbiamo, ch'egli s'era da servigi di Giovanni XXII et dalla corte partito, essendo alla sua abitazione di Valclusa ad abitar tornato. Nella quale tre cose volse in sentenza significare: la prima, che del tempo nel quale a' servigi del Pontefice era stato, si teneva mal contento et soddisfatto da lui; la seconda, che per l'ingratitudine d'esso Pontefice verso di lui usata, et considerato ancora la corte esser piena di ambizione, invidie, emulazioni et altri sozzi vizi, cose molto deformi al suo pellegrino e generoso animo, s'era da quella partito et alla vita solitaria e contemplante dato. Ultimamente, che liberato da l'umane passioni e mosso dagli onesti e casti esempi de la sua eccellente Laura, assai la costantia e virtù di quella in aver al suo appetito contrariato lodando, sperava poter la felice vita conseguire. Ma quanto alla dechiarazione di questa prima Stanza, è da sapere che 'l Poeta al quale i vizi della Romana corte, come abbiamo già detto, e ne tre precedenti Sonetti veduto e nel seguente vedremo, senza quella che in alcune delle sue Latine Epistole dimostra, grandemente dispiacevano, erano da lui continuamente biasmati e vituperati. Della qual cosa essendo stato d'alcune persone, le quali non aveano più discorso che si bisognasse, gravemente ripreso, perché diceano ch'egli non dovea così generalmente una tanta corte vituperare, perché in quella v'era ancora persone assai virtuose, costumate, di buona e lodevol vita, e non da esser per sì fatto modo biasmate, non intendendo che tal biasimo e riprensione solo per li rei e non per li buoni s'intendeva. E nondimeno, volendo egli pur ancora in tal biasmo perseverare e, per suo particolare sdegno, del Pontefice dolersi, per fuggir le mordaci e fastidiose lingue di questi ignoranti, e forse temendo che mal gliene potesse incontrare, pensò di volere sotto tanto velato e coperto modo il suo concetto esprimere che da questi tali non potesse in alcun modo essere inteso. Onde in questa forma cominciando dice: Mai non vo più cantar com'io soleva, indendendo non voler mai più tanto apertamente scrivere da questi ignoranti potesse poi esser ripreso, come prima gli era avvenuto, non essendo, per la ragione detta di sopra, da loro stato inteso. Ond'hebbi scorno, cioè per la qual cosa ebbi vergogna, perché scornato dichiamo esser colui al quale della cosa c'honore o utile si pensava conseguire, glie ne segua vergogna o danno. Perché sì come per le cose prospere dichiamo l'huomo cavar fuori le corna quando per quelli s'esalta, così per lo contrario dichiamo essere scornato. La qual cosa vuol il Poeta inferire esser avvenuto a lui, non essendo stato inteso, onde dice: E puossi in bel soggiorno esser molesto: cioè ancora facendo bene, come in biasmare e vituperare il vitio, si pretendeva di far lui, si può esser appresso (sic) de l'ignoranti, pigliandolo in mala parte, molesto e dispiacevole. E fino a qui possiamo intender che sia luogo di proemio della Canzone. Ora, con certo dire sentenzioso, ma spezzato e rotto alla narrazione venendo, dice essersi desto e svegliato conoscendo ne' servigi del Papa aver il tempo perduto a volerne, come fanno i pusillanimi, star a sospirare, alla fine nulla rileverebbe; ma per non andare d'uno in un altro maggior errore, che bisogna venir a remedi, e tanto più per vedersi oggimai super l'alpi d'ogn'intorno nevicare, cioè canuto e vecchio divenire avvenga, ch'egli quando fece la presente Canzone non avesse ancora il xxxiii anno della sua età fornito. Ma 'l pelo canuto spesse volte, come per esperienza si vede, suol mentire, onde in quel Sonetto Non da l'Hispano Hibero a l'Indo Hidaspe, questo disse stesso affermando; e di Madonna Laura dolendosi dice O s'infinge, o non cura, o non s'accorge, Del fiorir queste inanzi tempo rempie. Soggiunge esser gentil cosa un atto dolce e onesto in amorosa donna: ove abbiamo ad intendere che questa Donna, della quale nelle due seguenti stanze fa ancor mentione, egli averla per la Chiesa e per lei coloro che la rapresentavano, e da quali era governata e retta, com'è principalmente il Papa e poi i Cardinali, Vescovi e altri prelati. Questa medesima intese ancora Dante nel xix Capitolo de l'Inferno, dove nella persona di Nicolò Papa riprende Bonifazio di simonia dicendo: Sei tu sì tosto di quell'haver satio, per lo qual non temesti torre a inganno la bella Donna, e dipoi farne stratio? E Giovanni Evangelista nell'Apocalisse narrando una sua visione, in confusione di Simoniaci dice queste parole:
Venit unus de septem angelis, qui habebat septem phialas, et locutus est mecum dicens: Veni ostendam tibi damnationem meretricis magnae, quae sedet super aquas multas, cum qua fornicati sunt Reges terrae et inebriati sunt qui habitant terram de vino prostitutionis eius. Et abstulit me in desertum in spiritu et vidi mulierem sedentem super bestiam plenam nominibus blasphemiae, habentem capita septem, et cornua decem; et mulier erat circumdata purpura et inaurata auro et lapide pretioso et margaritis habens sciphum aureum in manu sua, plenum abominatione et immunditia fornicationis eius et in fronte eius erat scriptum Babilon magna mater fornicationum terrae.
La chiama ancora donna, per esser sposa di Cristo e di suoi vicari; amorosa, essendo la Chiesa in sé tutta piena d'amore e carità, perché mai non resta d'indrizarne a la vita felice. E in questa donna gentil cosa, un atto honesto e dolce, perché queste parti più ne prelati che in altra condition di persone si richieggono. Oltre a questo, ancora dice che gli aggrada e piace che questa donna vada in vista altiera e disdegnosa, perché queste qualità rendono la persona grave e circonspetta, come in essi si ricerca. Ma non gli aggrada che questa vada superba e ritrosa, perché superbo e ritroso dichiamo esser colui che per propria arroganza si rimove dalle cose giuste et oneste, permettendo l'ingiuste e non l'oneste; come vuol inferire che faceva questa donna, perché era già tanto corrotta che le dignità non si conferivano più a coloro ch'eran degni d'averle, ma a chi più ne dava, o ch'avea più favore, o miglior mezzo, senza guardar s'egli era più uomo che bestia. Et quello ch'era più vituperoso, ch'alcuni per sozzo vitio v'ascendevano, onde dice: Amor regge suo imperio senza spada, cioè senza giustizia e ragione, perché colui che giustamente vuol procedere, necessario è che da lui sia rimosso non solamente l'amore, ma tutto quello che fu espresso da Salustio, dicendo:
Omnes homines qui de rebus dubiis consultant,ab odio, amicitia, ira, atque misericordia vacuos esse dect: haud facile animus verum providet, ubi illa officiunt
. Ma allora, come vuol inferire, ogni uomo cercava d'innalzar i suoi congiunti e famigliari, avvenga che del grado fossero indegni, privandone coloro che per propria virtù meritavano d'averlo. A quali volgendo il parlare dice che se essi credono per la via della virtù ascendere, avendo in proceder per quella smarrita strada, che dovessero tornar indietro imparar (sic) per la qual vi si perveniva; perché non era più il tempo che per la via delle virtù s'ascendesse; e così a coloro che per tal via speravano di conseguire qualch'albergo ove potersi posare, ch'essendo lor fallato pensiero, si dovessero posar sul verde, cioè su l'erba. Et ultimamente a coloro che non L'auro, che non hanno loro, per le grande et ricche facultà intendendo et havendo gran sete d'averlo, che non potendo per via delle virtù conseguire, dovessero spenger tal sete in loro con un bello et polito vetro. Onde nel Trionfo di Morte similmente a questo le persone esortando, Vie più dolce si trova l'acqua, e 'l pane, e 'l vetro, e 'l legno che le gemme e l'oro. Et in sententia, che se non potevano aver grandi e ricche facultà, che si dovessero delle umili e basse contentare. Dice chi non ha l'auro o 'l perde, perché alcuna volta, et specialmente in corte di Roma, interveniva che se ne privano uno per dar ad un altro et non per far che 'l merito o la virtù avesse suo luogo; ma seguiva secondo che la buona fortuna o la rea de l'altro il permetteva.
Ha il Poeta nella precedente Stanza confortato a pazienta coloro i quali, pensando per via d'alcune sue virtù a qualche grado di degnità salire, aveano smarrita la strada. Ora in questa, essendo ancora egli stato di quel numero, narra la sua rea fortuna et la buona deliberazione che avea fatto per voler allo stato suo rimediare, con dir la varia condizione et natura di coloro da'quali la Chiesa era governata. Onde dice: I diè in guardia a San Pietro, cioè lo diè in guardia al Papa, intendendo dello stato suo, perché in lui, come di sotto nella seguente stanza vedremo, aveva ogni sua speranza posto; et parendogli troppo discoperto parlar, dice replica, non voler perseverar in così apertamente dire, come ancor di sopra ha detto non voler mai più come soleva cantare, ma che l'intenda chi lo può intendere, ch'egli per se stesso ben s'intende. E avendo il suo errore conosciuto, e che ne servigi del Papa avea perduto il tempo, et esser vana la speranza ch'avea prima nelle ricchezze e nella gloria del mondo posto, perché quando l'avesse a conseguire, erano alla salute più per nuocere che per giovar, dice esser grave soma all'anima voler mantener Un mal fio; cioè voler star ostinato in un mal merito, senza voler riconoscere il suo errore simile a quello, nel qual vuol inferire ch'era stato lui; avvenga che questa dizion Fio, in lingua Provenzale significhi quello che noi domandiamo feudo. Et di qui Cristofano (sic) Landino in fine del xxvii Canto di Dante, nella espositione di questi versi, Noi passiam'oltra, et io e 'l duca mio su per lo scoglio in fin in su l'altr'arco, Che copre'l fosso in che si paga 'l fio A quei che scommettendo acquistan carco, fio per feudo intese. Ma per tal traslazione, come ancora il Poeta in questo luogo, credo che Dante intendesse che in quel fosso si pagasse il meito delle loro male opere a quelli che acquistan carco scommettendo. E così Giovanni Boccaccio, in una sua operetta, troviamo averlo inteso. Quanto posso mi spetro e sol mi sto: dice che da questo errore si ritrae e libera quanto può, perché un cor ostinato in uno errore è simile ad una dura pietra. Onde in fine di quel Sonetto: Fuggendo la prigione ove Amor m'hebbe, Misero me, che tardoil mio mal seppi, Et con quanta fatica oggi mi spetro de l'error ov'io stesso m'era rivolto. E sol mi sto, per essersi alla vita solitaria e contemplante dato , com'ancor nel precedente Sonetto: Qui mi sto solo et com'amor m'aiuta et molto da l'esempio di Fetonte, che per troppo temerario ardire volse guidar il carro del Sole; la qual cosa non sapendo egli poi fare, fu da Giove fulminato et morto cadde nel Po. La cui notissima favola è da Ovidio, nel secondo libro del (sic) Metamorfosi recitata. Così il Poeta vuol inferire che si dubita interverrebbe a lui, quando in questa temeraria e vana speranza di dover ascender a gl'alti gradi della dignità ecclesistica perseverasse; onde dimostra averne in tutto rimosso l'animo et essersi da tal error liberato dicendo: E già di là dal rio passato è 'l merlo. Questo è proverbio, il qual depende da quello che 'n Lombardia usano quando dicano: La merla ha passà il Po, simile a quello: già fatto il becco a l'occa, ch'usano in Toscana, et suolsi dire quando vogliamo significar la cosa esser fornita e che più non s'ha da fare. Et è tratto da coloro che, su la riva di qualche torrente o fiume, cacciano le merle o altri uccelli per farli dar nella rete. Perché attraversando la merla il rio, è fornita la speranza del cacciatore, non vedendo forma di poterla più pigliare. Così il Poeta per tal proverbio, il merlo per se stesso intendendo, vuol significare che 'l suo buon proponimento, ch'avea fatto di separarsi dal suo errore, era già fornito. Et essendo alla sua abitazione di Valclusa tornato, si volta a quei suoi amici, i quali erano nel medesimo stato, ch'ancor egli soleva esser, in corte rimasi, dicendo che lo vadano a vedere. Ma poi pensando che, sì come uno scoglio che sia in mezzo l'onde del mare il visco nascosto tra le frondi, quello da naviganti, per potervi dentro rompere, questo da l'uccello, per potervi restar preso, non è da esser tenuto a giuoco; similmente vuole inferire che l'andato di costoro non era da esser tenuta a giuoco da lui, perché mediante le lor persuasioni, l'avrebbero potuto dal suo buon proponimento rimuovere et farlo tornar allo stato di prima. Onde questo considerato, si disdice et non vuol che lo vadano a vedere, perché
remota causa, removetur effectus
. Soggiunge poi dicendo ch'assai si duole quando in questa bella donna da un superchio orgoglio et sfrenata superbia, per tutti i vitii, come capo di quelli, intesa, sono nascoste molte virtù; volendo inferire che quantunque in questi tai prelati, da' quali la chiesa era governata, regnassero molte virtù, che i vizi erano ancora in maggior numero, talmente che da quelli le virtù venivano ad esser nascoste. Et narra la lor varia, ma viziosa dispositione et natura, dicendo: Alcuno è che risponde a chi nol chiama. E questi intende per coloro che, senz'esser ricercati, prodigamente et a persone inutili le sue cose distribuiscono. Altri, per lo contrario, dice esserne, i quali dinnanzi a coloro che li pregano, che meriterebbono d'esser ascoltati, si dileguano e fuggono senza volerli pur solamente udire, et questa è avarizia. Un'altra specie dice che ne sono i quali, agghiacciati e freddi ne l'abbondanza e copia delle cose, continuamente si struggono e consumano, temendo sempre che debba lor mancare, senza volersi in alcuna opera essercitare. E questi né per sé né per altri son buoni et è pusillanimità. Altri dice esserne che dì e notte bramano la sua morte. E questi sono quelli audaci, temerari, ambiziosi che mai non si contentano che d'uno in un altromaggior grado, bench'a lor non si convenga, avidamente cercano d'ascendere. I quali conseguiti sono poi la morte dell'animo, perché pongono il loro fine negli onori et nella gloria del mondo, quello che solo in Dio debbono porre. Tengono adunque tutte le parti estreme nelle quali consiste il vizio, senza usar d'alcun suo mezzo, dove propriamente sta la virtù. Perché né il prodigo, né l'avaro usa liberalità, la quale è mezzo tra la prodigalità e l'avarizia; né il pusillanimo né l'audace usa la magnanimità, la qual è mezzo tra la pusillanimità e l'audacia. Vol dunque il Poeta inferire che se 'n costoro regnasser questi virtuosi mezzi, cioè che fosser liberali e magnanimi, amerebbono et appreggerebbono i buoni et virtuosi, onde essi ne verrebbono a conseguire tutti quelli onori e gradi ch'a lor fossero convenienti et che le sue virtù meritasseno. Ma regnando di quelli viziosi estremi, vengono ad esser odiati e disprezzati, essendo la virtù dal vizioso odiata etanto dispregiata, quanto dal virtuoso amata et avuta in pregio.
Nella precedente Stanza il Poeta ha dimostrato essersi del tutto da servigi del Papa et della corte levato et alla vita solitaria e contemplante volto; et in fine di quella narrato con verità la vitiosa dispositione e natura di coloro da quali la chiesa era governata. Dove ha voluto inferire che per non (sic) amatori della virtù, i virtuosi e buoni erano da loro dispregiati. Ora in questa mostra esser ancora egli stato in quel numero de dispregiati, nondimeno avere speranza in Dio che, mediante l'ottimo suo proponimento, lo debba aitare; onde dice Proverbio: ama chi t'ama e fatto antico, intendendo tal proverbio esser quello che i Latini domandando Antiquitus, cioè dimisso, non essendo più in uso d'amare coloro da' quali l'uomo è amato, per la esperienza che del Papa in se stesso vedeva. Ma per non poter rimediare, s'accorda lassarlo andare et a portarsi in pace, massimamente essendo, come dice, cosa conveniente che l'uomo impari alle sue spese, com'aveva fatto lui, il qual cordialmente aveva amato il Papa fidelmente e servito, credendo similmente per le sue virtù esser amato da quello. Della qual cosa s'era trovato ingannato et a sue spese avea imparato con quante arti, e specialmente nelle corti, si vive, come nel primo capitolo d'una sua lettera Familiare, che noi abbiamo, e che da Vinegia a dì 4 di Gennaio l'anno M. ccclxii scrive in corte a un Lionardo Beccamugi suo amico, mostra esserne per longa esperienza ottimo conoscitore divenuto; il qual capitolo, perché assai a proposito in questo luogo ne par che quadri, non giudichiamo cosa inconveniente il doverlo recitare. Dice dunque in questa forma: Lionardo mio, non ti dissi io bene in fino a principio, che' l Papa non farebbe alcuna di quelle tante profferte? Ecco che io ho un'arte che più ch'altri non crede, che io so indovinare, e così saprei sempre. Ne fatti loro troppo ne sono gran maestro per longa prova e così li conoscessi meco il popol cristiano. Volesse Iddio, che che sarebbe in migliore stato il mondo che esso non è. Or, non più di questo accioché non paia che io sia crucciato, che non sono, anzi me ne fo beffe, né vi è alcuno che per grande che sia, con cui cangiassi il mio piccolo stato. Io dico il vero, se Dio a buon fine mi conduca. Un'humil donna, chiama la Chiesa umile, rispetto al suo principio, essendo stata in casta e umile povertà fondata, come ancora di sopra la domanda amorosa e bella; Grama, cioè trista, che tanto in lingua Lombarda significa, onde Dante nel i Canto della prima Cantica: Et una lupa che di tutte brame sembiava carca per la sua magrezza Che molte genti fe già viver grame. Un dolce amico, di se stesso intendendo, il quale, com'abbiamo detto, era stato al Papa un dolce e buono amico. E soggiunge: Mal si conosce 'l fico, perché sì come alcuna volta il fico per esser bello di fuori mostra ancor di dentro dover esser buono, ma poi trovandosi, quando s'apre, contaminato e guasto, l'occhio ne viene a restar ingannato; così il Poeta vuol inferire esser rimaso ingannato del Papa, avendolo di fuori mal conosciuto, perché in apparenza avea mostrato d'amrlo, con simulate dimostrazioni e proferte l'avea fatto entrar nel prato de l'oche. Ma poi, nel voler esperimentar gli effetti, l'avea trovato esser nel secreto nella contraria disposizione. Onde s'accorge esser meglio a non mai cominciar imprese tropp'alte, come vuol inferire ch'avea fatto lui nel tempo ch'era stato in corte, essendo, come dice, per ogni paese buona Stanza, pur che di quelle cose c'hanno qualche termine onesto al grado e stato suo l'uomo si voglia contentare. Ma coloro c'hanno l'animo insaziabile e che nessun grado è sì alto ch'essi non desiderino di salir ad un maggior, come mostra aver fatto lui, dicendo Et anche io fui alcuna volta in danza, cioè Et anch'io fui alcuna volta nel numero di questi tali, perché ponendo il suo fine in queste infinite speranze, ne segue l'occisione de l'anima. Et sapendo esser da molti per le sue virtù desiderato, dice che quel poco che gli avanza, intendi a vivere, sarà chi non lo schiferà, pur ch'egli la sua servitù gli vogli aggradare. Ma per non volersi più ne gli uomini confidare, essendo dal Papa stato ingannato, et ancor fosse per ricordarsi del detto del Salvatore,
Maledictus homo qui confidit in homine
, dice da quell'ora innanzi confidarsi In colui che regge' l mondo, cioè in Dio, il qual alberga i suoi seguaci Nel bosco; cioè alberga coloro che, imitando la sua santa vita nella solitudine, perché tutti coloro ch'a la contempativa si danno, cercano i luoghi solitari; Che con pietosa verga, che con la verga della sua pietà e misericordia, lo meni omai A pasco, a pascer la mente de' cibi spirituali, Tra le sue gregge, che sono i devoti e buoni religiosi, fra 'l numero de' quali volse poi ancora egli ultimamente essere.
Nelle precedente Stanza abbiamo veduto il Poeta essersi de l'ingratitudine del Papa doluto e di se stesso, per non averlo ben saputo conoscer; nondimeno in fine ha dimostrato confidarsi in Dio, che mediante la sua buona disposizione lo debba aiutare e farlo del numero delle sue greggi. Ora in questa, oltre la fede che mostra aver in lui, ringrazia quella bona ispirazione ch'ha illuminato e liberato l'animo dalla dura et aspra servitù delle passioniumane. Ma prima, come colui che molto oscuro gli par di parlare, dice ch'ogniuom che legge questa sua Canzone non intende forse quello che si legge e così come sono alcuni che tendono la rete, e che non pilgliano, così vuol inferire che v'è forse alcuni che danno un sentimento a questo suo coperto dire, che non pigliano il vero riferimento. E coloro ch'assottigliano troppo l'ingegno per volerlo intendere, non essendone capaci, si scavezzano talmente che niente n'intendono. Non sia zoppa la legge ov'altri attende, la legge la qual universalmente tutti attendiamo, si è d'esser del ben remunerati e del mal puniti, onde è scritto:
Nullum bonum irremuneratum et nullum malum impunitum
. Dunque il Poeta, come quello che si trova l'animo edificato al bene, spera di salvarsi pur che questa legge Non sia zoppa, cioè non manchi. La qual cosa , per esser infallibile non è da dubitare. Per bene star si scende molte miglia, cioè si scende molti gradi, come vuol inferire c'avea fatto lui, il quale, essendosi partito da' servigi del Papa, per la cui ombra era prima stimato e riverito, veniva ad essere digradato. Ma non curandosi egli più di questi fumi, per meglio stare e per menar vita più tranquilla, s'è dal duro giogo della servitù e da l'invidie, che specialmente nelle corti sogliono regnare, voluto liberare, dicendo Ch'una chiusa bellezza di virtù, o d'animo edificato al ben, è più soave che non è questa di tal fumoso e pieno d'ambizione senza virtù alcuna, che trovando dalla fortuna assaltato, par a vederlo andar gonfiato una gran meraviglia; ma s'avviene che la rota dia la volta, è poi ditanto dispregiato e tenuto vile di quanto prima era stimato et avuto in pregio. La qual cosa a coloro che di qualche preclara virtù si trovano esser ornati, non interviene, perché quelli non sono in potestà della fortuna. Benedice e ringrazia appresso il Poeta, La chiave, cioè quella grazia e buona inspirazione che se gli avvolse al cuore, e sciolse e scosse l'anima della grave et aspra catena della servitù del vizio. Onde d'ambizione ardendo, infiniti sospiri gli erano usati uscir De l seno, cioè del cuore, la dove questa cosa, della quale più mi dolse, che fu d'essa servitù, Altri si duole; intendendo di coloro ch'erano nel grado e stato, ch'ancora egli era prima se ne liberasse, rimasi. Onde a similitudine di colui che rompe qualche scoglio, e che si vede in estremo pericolo della vita esser condotto, con tutte le sue forze aitandosi, pur conducea a riva, il quale poi voltatosi e vedendo i compagni nel medesimo pericolo, n'ha gran dolore, nondimeno questo tal dolore è addolcito dal suo proprio scampo; così il Poeta essendosi dalla servitù del vizio, nel qual avea posto l'animo in gran pericolo, liberato, e vedendo i suoi compagni esservi rimasi, n'ha dolore, e non minore di quello che di se stesso, quando era in tale stato, avea, nondimeno questo dolore s'addolcisce quando pensa ch'egli n'è fuori. Onde ringrazia l'amor divino ch l'ha in modo di tal dolor liberato che quanto per lui non lo sente più, ma rispetto a compagni non è men che suole. A dinotare che non manca di quel precetto:
Ama proximum tuum sicut te ipsum
.
Ha il poeta del tutto liberato l'animo dalla servitù del vizio e dalle passioni et umane perturbationi, come nella precedente Stanza abbiamo veduto. Onde ora in questa narra tutti quelli oggetti da quali esso animo o sia il cuore gli è stato tolto, annolo tirato a sé, essendosi egli a la vita solitaria e contemplante dato. E prima le Parole in silentio accorte e sagge, le quali intende per gli accorti e saggi pensieri che dentro nel concetto di Madonna Laura, alcuna volta, per i segni esteriori del volto, esser comprendeva. Onde nell'ultima Stanza di quella Canzone: Perch'la vita è breve, L'amoroso pensiero ch'alberga dentro in voi mi si discopre Tal che mi tra'del cor ogn'altra gioia, Et in quella Tacer non posso et temo non adopre Dinanzi una colonna cristallina et iv'entro ogni pensiero scritto et fuor tralucevasi chiaramente, Che mi fea lieto et sospirar sovente. Et in quel Sonetto: In nobil sangue vita humile et questa. Et un atto che parla con silentio. E'l suon, cioè et il suono delle parole espresse di lei, il qual dice che li sottragge e leva ogn'altra cura, per esser quella a lui, come vuol inferire, la più dilettevole. Onde ancor in quel Sonetto: Quand'amor I begli occhi a terra inchina, Ma 'l suon che di dolcezza i sensi lega. E in quell'altro: Levommi il mio pensier in parte ov'era, Ch'al suon de detti sì pietosi et casti poco mancò ch'i non rimasi in cielo. E la prigione oscura, questa intende per lo corpo di lui, il quale era oscura prigion de l'anima, onde in quella Canzone: Gentil mia donna I veggio, Aprasi la prigion ov'io son chiuso. Et in quel Sonetto: I havrò sempre in odio la fenestra, Ma 'l soprastar nella prigion terrestra Cagion m'è lasso d'infiniti mali. Ov'è il bel lume, inteso per la immagine di lei, che nel cuor avea. Onde in quel Sonetto: E questo 'l nido, in che la mia Fenice, ove'l bel viso, onde quel lume venne Etc. Et in fine de quello, Poi che la vista angelica, a lei così morta parlando: Me dove lassi sconsolato e cieco, poscia che'l dolce e mansueto, e piano Lume de gli occhi miei non è più meco. Le notturne viole, cioè le notturne vigilie, perché le viole sono fiori et così come i fiori al suo tempo producono i frutti, finalmente quei fiori che i contemplanti, mediante i loro studi, usano nelle notturne vigilie di cogliere, producono poi al tempo il frutto delle lor virtù. Onde in quella Canzone: Tacer non posso et temo non adopre, Onde subito scosi A coglier fiori in quei prati d'intorno, sperando a gli occhi suoi piacer si adorno. Et in quell'altra: Alla dolce ombra delle belle frondi, Hora la vita breve, e 'l luogo, e 'l tempo, Mostram'altro sentier di gir al cielo, E di far frutto, non pur fiori, et frondi , Per le piagge, per le quiete e riposi, perché le navi giunte a piaggia posano. E Dante nel sesto della prima Cantica in persona di Ciacco disse: con la forza di tal che testé piaggia, cioè che ora posa. E quelli ch'a la contemplativa si danno, è necessario ch'abbino l'animo posato et quieto. Onde soggiunge, E le fiere selvagge entr'a le mura: le fiere selvagge sono gli impedimenti di diversi vizi, lo stimolo de'quali ne impedisce l'andar al nostro fine. Per questi intese Dante nel principio della sua prima cantica la lonza, il leone e la lupa, le quali fiere, mentre sono Entro le mura, entro I loro chiusi et serragli serrate, non possano nuocere. Così il Poeta vuol inferire che per essere egli in via di pervenir nel virtuoso abito, queste fiere si poteva dire che per lui fossero entro le mura serrate, perché difficilmente potevano più farlo prevaricare et suoi studi impedire. E la doce paura, e 'l bel costume: dolce paura è veramente quella che l'amante ha di spiacere alla cosa amata, quando di buono e casto amore s'ama, come di se stesso vuol in questo luogo il poeta inferire, perché infiniti, dolci e lodevoli effetti ne seguono. Et coloro ne' quali tal paura regna, si vedono sempre d'onestissimi e prestantissimi costumi esser ornati, perché temono la vergogna e sono desiderosissimi d'honore. Onde nella quinta Stanza di quella Canzone: Gentil mia donna i veggio, perch'io et mi spiace, Che natural mia dote a me non vale, Ne'mi fa degno d'un sì caro sguardo, Sforzomi d'esser tale, Qual a l'altra speranza si conface. E di duo fonti un fiume in pace volto: i duo (sic) fonti sono gli occhi di lui. Onde in quel Sonetto: O passi sparsi, o pensier vaghi, et pronti, O occhi miei, occhi non già ma fonti, da' quali prima, per le vane passioni dell'animo, soleva uscire il fiume del pianto. Onde in quell'altro Sonetto, I piansi, hor canto, che'l celeste lume, dello spledido viso di Madonna Laura et de gli occhi di lui parlando dice, Onde suol trar di lagrime tal fiume etc. Ma allora dice ch'era volto in pace, Dove, cioè verso quella parte, Ove, nella quale brama che sia raccolto, intendendo esser volto e indrizzato al cielo, ov'egli brama che sia raccolto et inteso, acciò che delle sue colpe, delle quali allora tal fiume di pianto nasceva, et non più dalle già dette vane passioni de l'animo, potessse impetrargli mercede. Amore e gelosia, il casto e buon'amore che porta a madonna Laura et la gelosia c'ha di perderla, dubitandosi senza di lei non potersi al porto di salute conducere; onde in quel Sonetto, Passa la nave mia colma d'oblio, Celansi i duo miei dolci usati segni, Morta fra l'onde è la ragione e l'altre, tal, ch'I comincio a disperar del porto. Per la qual cosa soggiunge, E I segni del bel volto, intesi per gli occhi di lei, da' quali come dalle sue stelle fide, e condotto per più piana e miglior via alla sua speranza, la qual ha di pervenir alla felice vita, dove, come dice, si pon fine a tutti gli affanni et stenti; perché più leggiermente con gli essempi et vestigi de' buoni che per noi medesimi, possiamo nel virtuoso abito et a tal beata e felice vita pervenire. Tutti questi oggetti adunque dice che gli hanno tolto e tirato a sé il cuore. Et esclamando a questo suo riposto e desiderato bene, per Madonna Laura inteso, prega che l'usate paci, guerre e tregue, che da lei ora l'una, ora l'altra soleva avere, e che oltre a precedenti narrati oggetti seguono, ma in questi panni, cioè mai in questa vita, mentre l'anima si veste queste terrene membra, non l'abbandonino; perché vuol inferire che gli sieno un freno dal quale è per modo governato, che non lo lassa della dritta e buona via uscire. Onde nel Trionfo di Morte in persona di lei, Questi fur teco miei ingegni e mie arti. Hor benigne accoglienze et hora sdegni, Tu 'l fai, che n'hai cantato in molte parti.
Nella precedente Stanza, il Poeta ha narrato tutti quegli oggetti da quali gli era stato tolto 'l cuore et che l'avevano alla via della salute indrizzato. Ora, in questa di tal cosa mostra fra se stesso ne l'animo godersi, essendo scritto: Benefacere et Laetari, lodando la continenza et virtù di Madonna Laura, per aver al suo appetito conteso. Onde si dice, Che de' suoi passati danni, cioè de'suoi passati errori, I quali a suo danno erano seguiti, piange et ride, confidandosi in quel che ode. Intendendo che la grazia et il ben fare fu sempre a tempo, onde egli stesso nel principio del trionfo di Divinità, Ma tarde fur mai gratie divine. In quelle spero che in me ancor faranno Altre operationi et pellegrine. Godesi del presente, vedendosi dall'umane passioni liberato et alla felice vita volto. Aspetta meglio, perché del suo bene e virtuosamente vivere ne spera il conveniente merito. Va contando gli anni, intendendo de male spesa; e tace e grida, per la definita ragione di sopra, dov'ha detto che piange e ride. S'annida, ricovera, e governa a similitudine de l'uccello In bel ramo, intendendo di quello del lauro et al nome di lei alludendo per imitar I suoi onesti e casti esempi, e non più per vano amore. Ma in tal modo che ne ringratia e loda in gran disdetto, ch'ella con la vista turbata, negandogli di voler alle sue voglie consentire, gli fece quando da lui ne fu ricercata, come in quella Canzone, Nel dolce tempo della prima etade vedemo, onde in quel Sonetto; L'alma mia fiamma oltre le belle bella, Et quelle voglie giovenili accese Tempro con una vista dolce e fella. Il qual disdetto dice aver ultimamente vinto quel indurato et ostinato affetto, che prima era in lui, et essersi in buono e lodevole convertito. Fu grande quel disdetto, avendo da quello avuto dependenza, come vuol inferire, la sua salute, perché gli fece voltar l'animo ad imitar i suoi onesti costumi, dove altramente si sarebbe forse fatto un uom del vulgo; talmente che da coloro I quali l'avessono più udito parlare, sarebbe stato udito esser Dipinto, cioè macchiato ne l'animo, essendo volgar proverbio che gli uomini si conoscono al parlare et le campane al sonare, perché in un modo il costumato et altramente lo scorretto udiremmo parlare. Ne sarebbe dunque come scorretto mostrato a dito, quando altramente seguito fosse. E soggiunge esser tanto pinto e scorso innanzi a dire quanto questo disdetto abbia operato in lui, che dirè pur quello che de l'anima gli ha estinto, intendendo di quel tal duro affetto voler più dire. Ma finge che Madonna Laura, la qual nomina per circoizione, dicendo Chi m'ha il fianco ferito, e ch'il riscalda etc., come cosa non lodevole glielo vieti e dica che non sia tanto ardito di manifestarlo. La qual cosa altro non era che quel timore, il quale egli avea di non esser appresso di lui (sic) meno c'onesto tenuto, come in tal caso tutti coloro c'onestamente amano, sogliono della cosa amata sempre temere.
Quando il Petrarca fece la seguente Canzone
Sposizione
Il pelo canuto suol mentire
Giovanni nell'Apolcalisse
Senza spada, cioè senza giustitia e ragione
Per Pietro intende il Poeta il Papa
Il Bembo vuole che questa Canzone fosse dal petrarca composta a guisa di frottola, secondo il costume dei Poeti di quei tempi
Grama, gramosa, attrista
Lui qui si vede che'l Velutello aveva poca cognizion delle regole della lingua
Danza, ballo
Bosco, per che cosa preso
Ogn'un non intende quello che si voglia dire il Poeta
Chiave perché qui intesa
Panni, membra, corpo
Viole perché intese
Dolce paura quella che fia
Fonti perché intesi
Vedi proverbio divino della coscienza
Ramo perché inteso
Proverbio.
Il presente Sonetto giudichiamo essere stato fatto dal Poeta dopo la morte di Giovanni XXII, creato che fu Benedetto XII. Il quale perché sempre era stato d'ottima e santa vita, onde da sperar non essendo da lui se non buone, lodevoli opere, il Poeta l'intende per lo nuovo Soldano che doveva tornar il mondo, avendo prima in vituperio della corte Romana detto Babilonia, per esser il Soldano di quella Signore, che tanto suona quanto confusione; non essendo allora la corte Romana ch'una confusione di sozzi e scellerati vizi, per aver, come dice , fatti suoi dei non il sommo Giove e Palla, Dea delle scienze virtù (sic), Ma Venere e Bacco, ma lussuria e la gola. Baldacco era in quel tempo luogo in Firenze dove stavano le publiche meretrici; Gl'idoli suoi, cioè Venere e Bacco suoi Dei, Saranno in terra sparsi, saranno estinti e così la superbia co possessori di quella; arsi di fuori, come d'ambitione arevano e consumavano dentro. Et così qui il mondo dice che sarà tenuto e posseduto da anime belle et amiche di virtù et farlo tutto aureo com 'l tempo di Saturno esser suole.
Quando fu fatto il presente Sonetto
Venere e Bacco, lussuria e gola.
A più sicura notizia del presente Sonetto è da sapere che mentre visse Giovanni XXII, che in Avignone xix anni tenne 'l Papato, della cui morte abbiamo nel precedente detto, favorì sempre in Italia la fazione Guelfa, e così in Roma gli Orsini contra de Colonnesi, tenendo Egidio, legato in Bologna, con grande esercito. Morto questo Pontefice et a lui succedendo Benedetto XII il quale, non come 'l suo predecessore essendo faticoso, i Colonnesi, insieme col Signore Stefano loro capo e Duca, che fuori di Roma si trovaron essere, volendo a casa tornare, fu di bisogno che si facessero la via con la spada, perché gli Orsini con numeroso esercito se gli opposero. Onde del mese di Maggio, l'anno M. cccxxvi e non lunge da Traieto, secondo che ne l'istorie di quei tempi troviamo, venuti al fatto d'arme, ultimamente gli Orsini riceverono una grandissima rotta. Per la qual cosa, il Poeta scrivendo questa al detto signore, insieme con una epistola quasi del medesimo tenore, che fra l'altre sue Famigliari intitolate comincia, Potuisti vir fortissime vincere, lo conforta al dover seguitar la vittoria e del tutto estirpar l'inimico, prima che possa ripigliar le forze; acciò che a lui non s'intervenga come ad Annibale dopo la memorabile rotta data a Romani a Canne, per non aver saputo della vittoria usare.
Guerra fra Orsini e Colonnesi 2. Annibale.
Fu il presente Sonetto scritto dal Poeta al Signor Pandolfo Malatesta, del quale egli fu familiarissimo, come per alcune sue responsive epistole, Senili intitolate, si dimostra. Dove è da intendere ch'essendo esso Signor Pandolfo dalla sua adolescenza nella militia esercitato, e nel conflitto della battaglia contra de gli Orsini, che nel precedente abbiamo veduto, sotto 'l signor Stefano militando, non meno officio del valoroso capitano che dello strenuo milite avendo fatto, n'avean (sic plurale?) conseguita. Della qual cosa il Poeta assai commendandolo, mostra averne sommo piacere dicendo che quella aspettata virtù, la qual fioriva in lui, quando amore, per sottometterlo al suo giogo, cominciò a dargli battaglia, produceva allora frutto ch'agguaglia quel fiore et faceva la speranza di lui Venir a riva, venir a l'effetto ch'egli desiderava. Perché essendosi esso Signor Pandolfo al principio, quando s'innamorò, per la grazia della sua donna conseguire, in giostre e torniamenti armeggiando, sì come suol il Poeta inferire, valorosamente portato, avea dato speranza della virtù, la qual allora in lui essersi dimostrata. Onde dice aver in cuor di scrivere in carte cosa delle lodi di lui, per la quale il suo nome abbia a salir pregio; perché a fare una persona viva per fama, in parte, cioè in cosa alcuna, non s'intaglia sì saldo, né che tanto si mantenga, quanto ascriverla in carte, domandando s'egli si crede che Giulio Cesare, Marco Marcello, Paolo Emilio e Scipione Africano fossero stati giammai tanto famosi per le statue, fatte con l'ancude e col martello in loro gloria e fama, volendo inferire che non lo debba credere; perché quest'opre delle statue, al lungo andare, sono frali e vengon a meno. Ma solamente lo studio c'hanno avuto gli scrittori nel voler le loro opere e gesti celebrare, esser quello che li fa per fama immortali. Onde al proposito in una sua epistola ad Luchinum Vicecomitem dice queste parole:
Fluxa hominum memoria, picturae labiles, caducae statuae, Interque mortalium inventa nihil litteris stabilius
. Et è cosa verissima che se di questi e de gli altri uomini famosi non fosse stato fatto altra memoria che di far loro una statua, com'appresso de gli antichi era in uso di fare, al dì d'oggi, anzi sono molti secoli, che di loro non sarebbe più memoria. E però hanno ad aver più obbligo a quelli che di loro hanno scritto ch'a quelli che gli feron le statue, perché le statue son'andate per terrae per le scritte carte sono e saranno ancor in luce.
A chi fu scritto il presente Sonetto
Venire a riva, quello che significa
Epistola del Petrarca a Luchino Visconte.
Scrisse il Poeta il presente Sonetto al suo amico et innamorato Geri de' Ganfigliazzi (sic) Fiorentino, in risposta alle consonanze d'un altro d'esso Geri, posto in fine della presente terza parte, il cui principio è questo: Messer Francesco, chi d'amor sospira; nel quale gli domanda consiglio com'egli ha da fare per placar la sua donna, essendo quella con seco adirata. Onde il Poeta li mostrail modo ch'egli tien con Madonna Laura ogni volta quando seco nel medesimo stato si trova. E come solamente con l'umiltà la vince, confortandolo ch'ancor egli debba 'l simil unguento con la sua donna usare, per esser ogni altro rimedio fallace e vano. Tre sorelle furon secondo Esiodo, nate di Forco, Dio marino, dette Gorgone, Steno, Euriale, e queste immortali, Medusa mortale; la qual avea la proprietà di convertir chiunquela vedeva in sasso, come dicemmo in quel Sonetto, Poco ad appressarsi a gli occhi miei, a cui favola recita Ovidio nel quinto del
Metamorpho
. Onde dice: Se ciò non fosse andrei non altramente A veder lei, che 'l volto di Medusa, Che facea marmo diventar la gente.
Gorgone, quali furono.
Finge il Poeta nel presente sonetto ch'amor gli parli et dica che egli debba scriver, perché in animo avea di così voler fare, un atto di due amanti. I quali scontrandosi, avea veduto l'uno et l'altro impallidire, com'egli ancora, quando in Madonna Laura si scontrava, soleva fare, e come lo minacci di farlo ancor tornar a piangere, com'era usato. Onde dice Ch'amor più volte gli avea detto ch'egli, come cosa notabile, scrivesse in lettere d'oro, sì com'egli discolora et fa in un punto morti et vivi i suoi seguaci. E fu un tempo ch'egli lo provo in se stesso e fu volgar esempio a l'amoroso coro, essendosi, per l'esempio di lui potuto vedere quanto sia d'esso amore il suo sommo potere. Et benché poi d'altra cura li fosse tolto delle mani vedemmo di sopra, quando se n'andò a Roma, che fu raggiunto da lui mentre fuggiva. Com'in quel Sonetto, Ben sapev'io che natural consiglio, vedemmo, minacciandolo che fe i begli occhi di Madonna Laura; Onde, cioè da quali egli se li mostrò; e là dove il suo dolce ridotto era, quando che lei lo fece innamorare, e che ruppe tanta durezza al cuore. Onde nella prima Stanza di quella Canzone, Nel dolce tempo de la prima etade, E d'intorno al mio cuor pensier gelati fatto havean qua adamantino smalto, Ch'allentar non lassava il duro affetto etc, gli rendon l'arco, inteso per gli amorosi sguardi di lei, ch'allora, per esserne egli forse lontano, non glie li rendeva. Che, il qual arco, Spezza, rompe ogni cosa: a dinotar quanta forza essi sguardi avessero in lui, che lo farà ancor tornar a pianger per pascersi et esser vago di lagrime, com'egli per prova sa bene. Onde nel primo capitolo del Trionfo d'Amore, Del Re sempre di lagrime digiuno.
Amor pascersi di lagrime, vede Virgilio nelle Egloghe.
Nel precedente Sonetto abbiamo veduto ch'amor ha detto al Poeta ch'egli debba scrivere certo atto di due amanti, i quali essendo l'uno contro l'altro scontrati avea veduti pallidi e smorti divenire. La qual cosa egli, com'obbediente, ora nel presente elegantissimamente et con natural ragione lo descrive, quasi in questa forma dicendo: che quando, et ogni volta accade, che per la via de gli occhi giunga al core la donna, la signora immagine di tutte l'altre, che quelle altre immagini tutte si diportano e danno luogo a quella sola; e le virtù, cioè la forza e 'l vigore, che mediante 'l sangue sono da l'anima compartite per le membra, sentendo 'l core, per lo giunger in lui della donna immagine, esser da quel timore, che dal troppo intenso amore e da riverenza suol nascere, alterato, ancora loro dalla superficie delle membra a in soccorso di quello partendosi, a lui ritirano. Onde le membra ne vengon pallide e smorte, in forma d'uno inanimato pondo rimanere. E questo per lo primo miracolo intende, dal quale nasce talor il secondo; perché la discacciata parte, la qual intende, per esser virtù, comparire da l'anima per le membra, e che lassato aveano esse membra quasi come peso immobile, Fuggendo, Arriva da se stessa, in Parte, in luogo che fa vendetta. E 'l modo è questo: ch'andando questa tal scacciata parte nel cuor della cosa amata, cioè discendendo nel cuor di lei, mediante l'impallidire dell'amante, la cognizione che la sua immagine e sola a tutte l'altre nel cuor de l'amante prevale; perché niente è che tanto la muovi verso d'esso amante quanto 'l vedersi da lui sommamente amare, a questo de l'impallidire esserne segno manifestissimo, ha forza di rimuoverne tutte l'altre immagini che vi trova, come da l'immagine di lei erano state tutte l'altre immagini del del core de l'amante rimosse. Essendo esso cor di lei, per la venuta in lui, nel modo ch'abbiamo detto, da la scacciata parte alterato, il sangue si parte dalla superficie ne le membra per soccorrer il core; onde esse membra ne vengono medesimamente pallide e smorte rimanere, come le membra dell'amante, per lo simile accidente, rimase erano. E questo secondo miracolo dice nascer allora, ma non sempre, dal primo, perché solamente segue quando la cosa amata corrisponde con l'amante in amore. E Fa 'l suo esilio giocondo, vedendosi esser in luogo ove si sente gradire. Apparisce dunque nel volto de' due amanti un color morto, non essendo più in loro Il vigor che li mostrava vivi. E di questo atto, come possa seguire, dice essersi ricordato un dì che vide due amanti in tal modo trasformare, come nel precedente Sonetto ha dimostrato; e far com'egli ancor si duole, quand'in Madonna Laura si scontra, fare.
Donna Signora
Averti […]
La sentenza del presente Sonetto dimostra che dal Poeta fosse al suo amico et innamorato Orso mandato e che la donna d'esso Orso devendo a certo dì e luogo destinato, con altra compagnia, per festeggiare trovarsi, et egli per qual cagione si fosse, non potendovi intervenire, ne fosse, com'è da credere, in sommo dispiacere. E tanto maggiormente sapendo ch'alcuni de' suo concorrenti rivali vi si doveano trovare. Onde il Poeta, volendolo confortare e persuadergli ch'egli se ne dovesse attristare, gli scrive dicendo ch'al suo Destriero, inteso per lo suo desiderio, il qual era di volerlo guidare ove la donna amarta andava, Si può ben porre un freno che 'l volga in dietro di suo corso; si può ben fargli forza e divertirlo che non vi vada. Ma domanda chi sarà quello che leggerà il core, cioè l'animo in forma, che bramando egli contra de' suoi rivali onore, E'l suo contrario, cioè la vergogna aborrendo, non si sciolga, e senza alcuno impedimento non vi vada. Volendo inferire che l'animo non si può, come 'l corpo, ad alcuna legge stringere. E però dice che non debba sospirare, perché al cuore non si può Suo Pregio, cioè la cosa da lui pregiata e amata, torre, benché l'andare a lei si tolga. Che come fama publica divolga, perché sì come pubblica e divulgata fama, egli è già nel cuor di lei il saldamente fisso e stabilito, che nessun de'suoi rivali Il precorre, cioè l'avanza. Dunque dice, che dipoi ch'egli non vi può personalmente essere, bastin che 'l suo odore, il qual da nessuna difficultà può essere impedito, si trovian mezo 'l campo, cioè in mezzo al destinato luogo per combatter, a similitudine d'una deputata giostra contra de' suoi rivali sotto quell'armi che gli dà Il tempo, amor, vertute e 'l sangue. Intendendo per lo tempo, la prospera gioventù quale era in lui; Amore, per lo effetto verso la cosa amata; Virtute essendo egli di quelle ornato; Il sangue, per la nobile generosità dell'anime, le quali parti in un cor gentile possono assai. Forse più potevano in quel tempo, ma oggi bisognerebbe giungervi la fortuna, senza la quale rade volte avviene che si possa alcun desiderato effetto conseguire, e solo con la qual si può sicuramente ogni grande e difficil impresa tentare. Onde Ovidio:
Dummodo sic dives barbarus ille placet
. Et altro luogo:
Aurea sunt vere nunc secula, plurimus auro Venit honos auro conciliatur amor
. Vuol dunque il Poeta che giunto in campo sotto di quest'armi che gridi dicendo ch'egli avvampa d'un gentile amore. E insieme col suo signore Orso, dal quale non può esser seguitato, e del non poter in quel luogo esser seco, si strugge, languisce e muore. E così appresso della sua amata donna lo venga a scusare.
Quale è il soggetto del presente Sonetto
Precorre, avanza
Fu il presente Sonetto scritto dal Poeta d'un altro mandatogli da Iacopo Colonna vescovo, nel tempo ch' egli fu a Roma laureato; del quale onore da lui conseguito, mostra in quello molto rallegrarsi, il cui principio è questo: Se le parti del corpo mie distrutte, com'in fine della presente ultima parte, dove sarà posto, vedremo. Avvenga che tal risposta il Poeta non la facesse in vita d'esso Vescovo, perché poco tempo dopo 'l mandar del Sonetto egli morì, ma dopo la sua morte, della quale veggiamo il Poeta amaramente dolersi dicendo: Mai Quelle note, cioè quelle parole e rime in esso Sonetto scritte, Ove, cioè nelle quali note, Par ch'amore sfaville, par che grande amore verso di lui dimostrino, E pietà l'abbia costrutte di sua mano; perché essendo gli morto, moveano a pietà di lui coloro che le leggevano; Non vedranno asciutte le mie luci, volendo inferire ch'ogni volta e sempre che le vedrà, egli sarà da pietà costretto a piangere, con le parti dell'animo, intese per mente, ragione et intelletto, tranquille, perché saranno, come vuol inferire, dal dolore alterate. Spirto già invitto a le terrene lutte, spirto già inespugnabile al contrasto delle terrene passioni, C'hor su dal ciel tanta dolcezza stille, che ora su dal cielo tanta dolcezza abbondi, c'hai ricondutte le divisate rime a lo stile, Onde morte dipartille, dal quale morte l'avea dipartite, volendo inferire, che per lo dolore, il quale avea della morte avuto, egli n'avea diposto lo scriver in rima. Ma che allora era tanta dolcezza che giù dal ciel, ove vuol inferire ch'egli era andato, della memoria di lui piovea, c'avea ricondotte le disviate rime all'usato stile. Soggiungendo che nelle sue Tenere, cioè novelle frondi delle quali nuovamente egli era stato coronato, credea mostrargli Altro lavoro, altra opera poetando, di quella che fino allora gli avea mostrato. Onde domanda da qual fiero pianeto fossero insieme tanto invidiati, che per la sua morte egli non potesse tal lavoro mostrargli et esso Vescovo non lo potesse vedere. E chi era quello che innanzi tempo glielo nascondeva e vietava di poterlo più vedere, Che, cioè perché allora, dice che lo mira col cuore, et onorava , delle sue lodi parlando, con la lingua; dove quando vivea, vuol significare che lo mirava con gli occhi et onorava con le opere. En te dolce sospir, intendendo egli esser cosa dolce, e da lui sospirata, com'ancora di Madonna Laura in quel Sonetto, In quel bel viso ch'i sospiro e bramo, et in quella Canzone, Qual più s'acqueta; perché della memoria di lui, non potendo far altramente, si confortava, come di Madonna Laura in quella canzone, Solea della fontana di mia vita, ove nella prima Stanza dice: Sol memoria m'avanza, e pasco 'l gran desir sol di quest'una, Onde l'alma vien mem frale e digiuna.
Note, parole
Lutte, perché intese
La presente moral Canzone fu scritta dal Poeta con una epistola fra l'altre sue Famigliari, quasi del medesimo tenore, ad un Nicolò di Renzo, Cittadino Romano, il quale desideroso della libertà della patria, nel Pontificato di Clemente sesto, che la corte teneva in Avignone, come nell'istorie di quel tempo si legge, solevò tutto il popolo di Roma, col favor del quale prese 'l Campidoglio, e discaccionne tutti i Luoghitenenti che v'erano per lo Papa, pigliando di Roma la Signoria: il cui titolo era Nicolao Severo e Clemente, Tribuno della libertà, giustizia e pace, e liberatore del popolo Romano. Regnò solamente sette mesi perché, essendo appresso del popolo diliberatore, e venuto in nome di tiranno, dubitandosi di quello, si fuggì in Boemia a Carlo, figliuolo del re Giovanni, dal qual fu fatto prigione et mandato in Avignon dal Papa. Ma perché nel principio che si fece signor et quando dal Poeta gli fu la presente Canzone scritta, diede grande speranza di lui che non solamente Roma, ma tutta Italia ancora da tumulti, che per le parti Guelfe et Ghibelline era in pessimo stato, dovesse quietare, il Poeta con ottime argomentazioni lo conforta doverlo fare. Onde in questa prima Stanza allo spirito di lui parlando, domanda genti de rispetto alla sua nobiltà, che regge quelle membra, dentro alle quali alberga Peregrinando, non essendo questa vita altro ch'una peregrinazione. Un valoroso Signore, intendendo pur d'esso Signor Nicolò, ma per esprimere, oltre alla nobiltà, il valore che 'n lui dimostrava essere, dicendo che poi ch'egli è giunto A l'Honorata verga, a l'onorata potestà del tribunato, con la qual corregge et affrena Roma co'suoi erranti, con quelli che errano; e la richiama al suo viaggio antico, il qual, virtuosamente operando, già soleva tenere. A lui dice parlar per non veder in altri Un raggio, un segno di virtù, essendo quella dal mondo, come dice, spenta; et non trovar chi si vergogni di far male. Onde dice non saper che cosa questa vecchia, oziosa et lenta Italia s'aspetti, O Che s'agogni, o che si pensi o sogni, che non par che senta, né curi de suoi guai, domandando s'ella dormiva sempre senz'aver chi la svegli, mostrando desiderar d'averle Le mani ne capegli, e poter sopra di lei, da poterla al suo modo destarli e farla risentire.
Nella presente Stanza il Poeta, seguitando il proposito della precedente al Signor Nicolò principiato, mostra d'aver poca speranza che per altrui parole Italia si debba mai dal suo pigro sonno, che nella precedente ho detto, destare. Nondimeno dice che non senza destino di qualche degno effetto crede, Che alle sue braccia, che sotto le sue forze, sia il suo capo Roma stato commesso. Nella cui venerabil chioma lo conforta che debba sicuramente metter mano et nelle trecce sparte, nelle sue membra, per le parzialità divise; talmente Che la Neghittosa, che la vezzosa negligente et pigra, Esca del fango, esca di vituperio e vergogna. Et tale speranza dice aver in lui perché Se 'l popol di Marte, se 'l popol di Roma, per esser da Marte disceso, dovesse mai alzar gli occhi della mente al proprio onore, et riconoscesse l'antico suo valore, gli par pure ch'a suoi dì la grazia debba ad ogni modo toccare.
Seguita il Poeta nella presente Stanza in lode del signor Nicolò a dire come tutta Roma spera per lui Saldare, cioè terminare Ogni suo vizio, ogni sua viziosa consuetudine et rea usanza. Soggiungendo quanto i grandi Scipioni, per lo maggiore et minore Africano intesi, essendo di tutti gli altri stati i più famosi, E 'l primo e fidel Bruto, per aver Roma fidelmente liberata e conservata del Tiranno, et ultimamente esser per quella combattendo gloriosamente morto, e Fabrizio, si debbon di Roma rallegrare se, là giù ne campi Elisi, dove secondo i Poeti sono andati, è giunto Il romore, cioè la fama, del suo ben locato officio del tribunato, sperando che per lui si debba ancor restaurare.
Nella presente Stanza il Poeta al signor Nicolò, il suo parlar seguitando, dice come de l'anime beate, se là suso in cielo sicura cosa di qua, che fra noi mortali si fia, era pregato ch'al lungo odio e discordie civili di Roma dovesse por fine, per le quali la gente non s'assecurava bene e serravasi il cammino d'andar a lor tetti, cioè lor tempi; i quali già solevano esser devoti, ma che allora erano quasi fatti spelonca di ladroni, imitando San Luca al xix cap. ove dice:
Scriptum est Domus mea, domus orationis vocabitur, vos aurem fecistis eam speluncam latronum
; perché in quelli gl'insidiosi rei a trattar le crudeli imprese de l'uno contra l'altro s'adunavano. E so a' buoni, i quali forse con le loro persuasioni avrebbono a tanti mali potuto por freno, Era chiuso l'uscio, non era chi li volesse udire. Et oltre a gli altri, loro tanto diversi e contrari Atti, cioè modi tenuti da loro, dice Senza squille, senza suono di campane, le quali sole per ringraziare Dio fur poste in alto, i loro assalti non s'incominciano; perché il suono di quelle faceva lor segno quando dovevano l'un l'altro assalire.
Narra il Poeta nella presente Stanza al Signor Nicolò tutte quelle condizioni di persone che Inerme, senz'arme et inabili di poterle portare, gli chiedevan aiuto e mercede, contra le loro tante e sì crudeli distruzioni, che per le civili discordie ogni giorno a loro gravissimo danno e pregiudizio seguivano, imitando Virgilio nel xii de l'Eneida ove dice:
Iam studio effusae matres et vulgus inermum Invalidique senes
; et Lucano nel i:
Ac miseros angit sua cura parentes, Oderuntque gravis vivacia fata senectae
. Le quali distruzioni dice che sarebbe Pio Annibale non ch'altri, per esser Annibale stato in molti suoi gesti, reputava, oltre modo dispietato e crudele. Onde dice Marco Tullio in quello de gli
Officii
:
Poeni foedifragi, crudelis Hannibal
; soggiugnendo che s'egli guarda e considera bene Alla magion, alla Chiesa di Dio, la quale d'ira e d'odio tutta ardea, che Poche faville spegnendo, poche cagioni levando via, le voglie che allora tanto infiammate esser si mostravano, sarebbono tranquille et acqueterebbonsi. Onde le sue opere sarebbono laudate in cielo.
Il Poeta nella presente Stanza il signor Nicolò tutti quei potentati, ch'a suoi Colonnesi eran contrari e che gli Orsini favorivano, per le cui parzialità Roma, dalla quale era stato chiamato acciò che di lei dovesse gli insidiosi e rei stirpare, piangeva, confortandolo a tanta utile e sì lodevole impresa; intendendo per gli orsi, essi Orsini, per li lupi la Repubblica di Siena, per li leoni quella di Firenze, per le aquile, Ferrara, per le serpi i Vesconti di Milano. Questi dice far noia alla colonna e danno a se stessi, perché né ancora loro ne stavano bene, di che Roma, com'abbiamo detto piangeva. E dice esser già più che 'l millesimo anno passato che'n lei erano mancate le leggiadre anime di quei famosi et eccellenti uomini che l'avean locata, sublimata e posta in quella altezza che già esser soleva; biasmando l'altiera et oltra misura superba nuova gente che sì poco riverente, rispettosa verso tanta e tal veneranda madre fosse. Onde dice da lui, come marito e padre di quella, attendersi ogni soccorso, perchè Il maggior padre, cioè il Papa intende, è ad altra opera volto. Volendo inferire che 'l Papa nella contemplativa et egli ne l'attiva vita doversi esercitare; ovveramente intende che 'l Papa fosse ne l'impresa contra gl'infedeli occupato, come di sotto in quella Canzone, O aspettata in ciel beata e bella, vedremo.
Il Poeta nella presente Stanza, pur al signor Nicolò parlando, mostra seco rallegrarsi che fortuna, la qual rade volte dice avvenire, ch'a l'altre lodevoli imprese non contrasti, ch'a lui, nel ascendere al grande officio del tribunato, non abbia contrastato. Anzi avere sgombrato e volto 'l passo, per lo quale v'era asceso. Onde dice ch'ella se gli fa di lui molte altre offese, ch'ogni giorno vuol inferir che gli faceva oltre a quelle che per innanzi gli aveva fatto, perdonare, ch'almen qui da se stessa si discorda; cioè perché almeno in questa d'usar il suo officio s'è discordata, però che quanto 'l mondo si può ricordare, mai non fu uno al quale fosse così ben'aperta la via di farsi eterno per fama, com'era a lui, se di Roma, che la più nobil Monarchia era, voler restaurar intraprendeva. Perché sarebbe detto che da gli altri, quando ella era giovane e forte, fu aitata, Ma da lui in vecchiezza et estrema debilità, da morte campata.
In questa Stanza volendo il Poeta la Canzone al Signor Nicolò mandare, il quale più del pubblico che del privato e proprio ben, vuol inferire, ch'era pensoso, parla con lei dicendo com'ella lo vedrà sul monte Tarpeo a Roma, ove già il Campidoglio esser soleva; Al qual per parte di lui dice gli debba dire che uno, il qual non l'aveva ancor da presso veduto, Se non come fama huom s'innamora, se non come l'uomo vede da presso quella persona della quale egli è per fama innamorato, perché avendola sempre, nel pensiero, sempre da presso a vedere. Onde nella v Stanza di quella Canzone Di pensier in pensier, di monte in monte, del bel viso di Madonna Laura parlando, Che sempre m'è sì presso e sì lontano, diceva che Roma, da tutti i sette suoi colli pietosamente gli domandava lagrimando mercede.
Niccolò di Renzo Cittadino Romano
Carlo figliuolo del re Giovanni
Agogni non pensi, ma più tosto desideri e voglia
Neghittosa, negligente e pigra
Scipioni
Bruto primo
Tetti presi qui per Tempi
Virgilio nella Eneido (sic)
Per questi animali quello che intende il Petrarca
Sì tanto finitamente
Roma la più nobil Monarchia
Tarpeo monte
Fu il presente Sonetto, per quanto ne par poter comprendere, dal Poeta al Signor Stefano Colonna mandato, et in risposta d'un altro suo insieme con una Epistola nella quale si conteneva, com'essendo le differenze di loro Colonnesi con gli Orsini, da Nicolò di Renzo, del quale abbiamo nella precedente Canzone detto, per allora state composte. Onde egli era tornato a Roma et aveva fatto prova di di voler con la sua Donna al giuoco amoroso tornare, dal quale prima le occorrenze, era stato sforzato doversi rimuovere. Ma per esser da lui in quel tempo stata mal sollicitata, et ella forse aver l'animo ad altro segno volto, essendo proprio l'instabilità delle femmine, avea trovato duro il terreno; perché ricordandogli gli effetti acerbi e strani della guerra, dice ch'Amor piangeva et egli seco talvolta, mirando, per cagione di tali acerbi estranni effetti, la sua anima esser da lacci d'esso amore sciolta. Ma essendo allora ogni tumulto quetato, Che Dio l'aveva rivolta al vero e dritto cammino della virtù, il qual cammino prima, per le dette occorrenze, avea smarrito, quello che di sopra in quell'altro, Gloriosa colonna in cui s'appoggia, disse, ch'ancora non avea potuto fare. Onde dice Ringrazio lui, ringrazio Dio, che benignamente ascolta i giusti preghi umani, volendo inferire che lui umilmente era stato pregato che ad esse discordie e risse por fine, di che era stato esaudito. Ma se tornando alla vita amorosa, per divertirlo da quel desiderio trovò Fossati o poggi, cioè alcuni impedimenti, questo essere stato per mostrare quanto è spinoso, erto e difficile il cammino, per lo qual convien et è necessario, Che poggi, che monti, chi vuol alla virtù pervenire; facendo comparazione di quanto si pena in quella voler ottenere, a quello che si fa per voler la cosa amata conseguire. Et è la comparazione ottima, perché ne l'uno e ne l'altro studio con piacer si sopporta l'affanno, ch'altramente sarebbe impossibile a poterlo tolerare. Onde sapientemente Boezio:
Aspera primo et pene in via et sudoris continui et laborum plena est via, quae ad virtutem ducit
. Ovveramente, che più mi piace, intende che la sua donna gli fosse previa alle virtù, come Madonna Laura in più luoghi dimostra essere stata a lui. Onde dice che, se tornando, per mezzo de l'amor di lei, alla via delle virtù, la qual per l'occorrenze avea smarrita, trovò impedimenti per divertirlo da tanto bel desiderio, fu per mostrare quanto è difficil cosa il voler tal desiderio conseguire.
A chi fu scritto il presente Sonetto
Quanto è difficile ottener la virtù
Nel presente Sonetto il Poeta, per due ottime comparazioni, dimostra allegrezza ch'egli ha di veder deposte quel'armi che lungamente infeste al signor Stefano et a tutti gli altri Colonnesi erano state, come nel precedente detto abbiamo. E prima per coloro che salva vedon giunta a terra la nave, ch' in alto mare aveano veduto esser da l'onde combattuta, imitando Stazio nel secondo libro della
Tebaide
, ove dice:
Nec minus haec laeti trahimus solatia quam si precipiti convulsa noto prospectet amicam Puppis humum
. Poi per colui che si vede dalle carcere liberare, il quale poco avanti aveva al collo avuto capestro per andar alla foca. Et onde a tutti quelli che scrive le lodi d'Amor in rima si dilettano, il parlar volgendo dice che debbano ad esso signor Stefano, inteso per lo buon testor de gli amorosi detti, render onore, ora ch'è tornato a scriver di quelli che primo, come nel precedente Sonetto abbiamo veduto, et per le date occorrenze smarrito e deposto aveva lo scrivere. Ovveramente intende parlar di lui stesso, e questo dice che debban fare perché ancor in cielo si fa più festa d'uno spirito qui fra noi converso al bene che di novantanove altri perfetti là su, imitando Luca Evangelista dicente:
Ita gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente, quam supra nonagintanovem iustissimis
.
Stazio nel secondo libro della
Tebaide
A più chiara notizia del presente Sonetto è da sapere ch'avendo Clemente sesto, dopo la fuga di Nicolò di Renzo, del quale abbiamo nella precedente Canzone detto, composto le cose di Roma e ridottola sotto la sua obbedienza, sollecitò Filippo Re di Francia, con molti altri Principi Cristiani, a l'impresa contra di Turchi e de'Mori, che 'n quel tempo aveano scorso tutta la Spagna e gran parte della Germania. Onde adunate le loro forze in uno, gl'infideli furon con grande loro occisione e danno discacciati. E perché fu fama ch'essi Principi dovesser far l'impresa per lo racquisto di Terra Santa e che 'l Papa dovesser per tal cagione d'Avignone, dove tenuta la corte, torna a Roma, il Poeta scrive ad alcuni suoi Fiorentini amici a Roma la mossa di tal impresa; per circuizione dicendo Che Filippo re di Franza, il qual fu successor di Carlo suo fratello, ch'adorna la chioma Del suo antico Carlo, intendendo di Carlo Magno, figliuolo di Pipino, aver già preso l'arme Per fiaccar le corna, per abbassar la superbia a Babilonia et a quelli che da lei si nomano, che sono col Soldano tutti Maumetani; e che 'l Vicario di Cristo, cioè il Papa, con la soma delle chiavi e del Papale manto Torna al nido, torna a Roma, non disturbandolo altro accidente; La mansueta vostra e gentil agna, chiama Firenze agna, mansueta e gentile, per applaudere a coloro a quali scrivea e, per istar nella traslazione, fieri lupi alcuni suoi cittadini, i quali essendo in quei tempi stati posti alla custodia delle pubbliche intrate, convertivano quelle nel loro privato uso et eran fatti rapaci lupi. Onde meritamente a chi scompagna da sé il legittimo amore della patria erano stati pubblicamente abbattuti e puniti. Dunque il Poeta dicea a questi tali, a chi egli scrive, che debbano consolar Firenze e Roma, perché l'una per le dette occorrenze era tutta in travaglio et non aveva ancor determinato voler il suo favor a questa impresa dare; e l'altre si doleva del Pontefice, che la corte tenesse in Avignone, ch'ella ne fosse privata; esortandoli a doversi oggimai per Iesu Cristo, contra de'perfidi infideli, cinger la spada.
Nicolò de Renzo
Argomento e Sposizion del Sonetto
Seguita il Poeta, nella presente moral Canzone, il descrivere col laudar l'impresa che, nel precedente Sonetto, abbiamo dimostrato Papa Clemente Sesto et Filippo Re di Francia principalmente apparecchiavano contra gl'infideli. Ma in questa prima Stanza solo lauda il Papa, dimostrandogli per metafora della barca, intesa per la sua vita, questa tale impresa mossa da lui essergli un mezzo mediante il quale la sua anima, sciolta da' lacci degli antichi, umani errori, sarebbe per mezzo questa oscura valle di miseria, ove noi piangiamo il nostro e l'altrui torto, il nostro e l'altrui errore, intendendo ancora di quello che che feron e nostri primi parenti, per drittissimo calle, per destro et spedito cammino, condotta alla vera beatitudine, intesa per lo verace oriente, la quale ella era volta e indirizzata.
Avendo il Poeta nella precedente Stanza mosso a questa santa impresa contra gl'infedeli il Papa, ora in questa muove il Re Cristianissimo, dicendo che Dio per li devoti preghi dei mortali Cristiani, ovveramente per la sua grazia et benignità, avendo rispetto al sacro luogo, dove per noi redimere volse in croce patire, aver spirato mosso il Cristianissimo Re a fare vendetta del danno ch'essi infideli per molti anni aveano fatto in Europa, terza parte della terra abitata, nel quale quasi tutta la Cristianità è contenuta. Et al racquisto d'esso sacro luogo così dice ch'egli soccorre alla sua amata sposa, alla Chiesa, la qual è sposa di Cristo e de' suoi Vicari.
Nella presente Stanza il Poeta, per li fiumi, monti e mari dividono i popoli dinota quali di quelli si son mossi e quai sono spronati e dalla caritate astretti a pietosamente doversi a questa sant'impresa muovere, circuendo quasi tutta la Cristianità. E prima quei popoli che seguiron le Cristianissime insegne, che furon gli Aquitani, oggi detti Guasconi, contenuti tra Garonna, fiume che nasce ne'monti Averni et il monte Pireneo, che la Spagna dalla Gallia divide; ei Savoini, gli Elvezi, Borgognoni e Provenzali, contenuti tra 'l fiume del Rodano et il Reno, e tra l'onde salse del Gallico mare; poi per li contenuti tra 'l monte Pireneo a l'ultimo orizzonte del occidentale Oceano, a cui mai, a quali alcuna volta, Calse cura Di vero pregio, di vero onore, intendendo de' popoli della citeriore e ulteriore Spagna, fra quali contenuto il reame d'aragone e di Granata, L'Isole più famose che l'Oceano In tra 'l carro e le colonne, in tra settentrione et occidente, bagna. Oltre a quelle d'Inghilterra sì sono Scozia, benché ad Inghilterraquasi sia congiunta, Ibernia e Thile. Poi scorre fino in Grecia, l'altra estrema parte d'Europa, dove suona dottrina del santissimo Helicona, per esser Elicona giogo del monte parnaso, posto in Beozia, ovveramente in Focide, che sono parti della Grecia, ad Apollo dedicato, come in quel Sonetto, La gola e'l sonno e l'otiose piume dicemmo; popoli tutti per la diversità delle regioni, Vari, come dice, di lingue, d'amare e delle gonne, ad imitazione di Virgilio, nel 8 dell'Eneide ove dice:
Quam varie linguis, habituram vestis et armis
. E conchiudendo domanda qual amor fu mai sì licito o sì degno, alludendo a quei popoli che, per lo licito amore delle patrie loro, hanno già fatto degne e magnifiche imprese contra de'suoi adversari, come più volte i Romani e gli Ateniesi fero. O quai figli, o quai donne mai furon cagione e materia di sdegno tanto giusto quanto è a noi di vendicatrici di questi cani infideli, per gli figli, alludendo al impresa (sic) che fece Minos Cretese contra gli Ateniesi, per lo sdegno avuto della morte del figliuolo Androgeo, che da loro era stato ucciso; per le donne, a quella che feron I Greci contra de' Troiani per lo sdegno della rapita Elena. Volendo inferire nessun sdegno esser d'agguagliar a questo, per lo quale più caldamente ogn'uomo alla vendetta si debba movere. Per lo carro s'intende quelle settentrionali stelle, delle quali quattro in forma quadrata, come 'l carro, e le tre distesamente l'una appresso da l'altra in forma di cavalli che lo tirano, ruotano continuamente, senza mai tramontare intorno al nostro artico polo. Le colonne sono quei due monti Abila e Calpe in Occidente, l'uno sul lito d'Africa, l'altro su quello d'Europa, fra l'una e l'altra delle quali entra il Mediterraneo mare. Et le favole dispongono che furo da Ercole poste in quel luogo per segno che i naviganti più oltre non dovessero passare, perché gliantichi ebbero opinione che, in quel luogo, il globo della terra mancasse e chi passasse quello stretto dovesse nell'altro emisfero ruinare.
Avendo il Poeta nella precedente Stanza circuito la Gallia, la Spagna con tutti gli altri riconvicini popoli e, distesosi fino a l'occidentale Oceano et in Grecia, l'altra estrema parte dell'Europa, ora in questa vien a quei popoli settentrionali come Rossesi, Pollacchi (sic), Ungari e Valacchi, la cui regione e natura descrive ad imitazione di Lucano nel i libro, ove dice:
Mori media est certe populi, quos despicit arctos Felices errore suo, quos ille timorum Maximus haud urget lethi metus inde ruendi in ferrum mens prona verum
. Et Orazio, nel iv libro Oda 14:
Te non paventis funera Galliae, duraeque tellus audit Hiberiae
. Dice dunque che se questi, per esser popoli feroci e per natura indomiti pigliano l'armi col furor Tedesco in favor di questa impresa, che Turchi, Arabi e Caldei, con tutti quesi Barbari Africani che ne' vani Dei sperano; Di qua dal mar che fa l'onde sanguigne, di qua dal Mar Rosso, e non perché le sue onde sanguigne né rosse sieno, ma per esser da Greci detto Eritreo da Eritra Re, il qual vi perì dentro, che rosso significa, è da farne poca stima, per esser ignudi e malusati a maneggiarle arme; ma solo con gli archi le saette tirando, coommettono I lor colpi al vento, imitando Lucano nel viii libro, ove dice:
Et quo ferre velit permittere vulnera ventis
.
Ha il poeta fino a qui dimostrato al Papa esser cosa facile a vincere, pur che questi popoli da lui di sopra nominati insieme a questa impresa si convenghino. Ora, nella presente, esorta ciascuno a quella, aggiungendovi i popoli d'Italia. Onde dice esser tempo di liberarsi dal giogo de gl'infedeli, i quali lungo tempo, non solamente aveano Terra santa posseduta, ma scorrendo ancora per la Cristianità, l'aveano messa in preda; e da squarciar il velo de l'ignoranza, aprendo gli occhi della mente a riconoscer le nostre forze. E che 'l nobil ingegno, di quello del Papa intendendo, che per grazia vien dal cielo dell'immortale Apollo, del furor poetico, essendo Apollo Dio de'Poeti; e ben dice che tien per grazia, perché i Poeti bisogna che per grazia naschino, non essendo la poetica facultà scienza che si possa, come l'altre, imparare. E l'eloquenza mostri la sua virtù e forza talmente ch'ora con la lingua et ora con scrivere persuada a popoli, e specialmente quelli d'Italia, questa impresa, dicendo che s'egli non si meraviglia d'Orfeo ch'al suono della sua dolce citera facesse le fiere e monti venire et i fiumi restare; e che Amfione similmente al suono di quella cingesse di muri la città di Tebe; che più agevolmente farà egli ch'Italia con suoi figli, suoi popoli, si desti e svegli al suono del chiaro sermone. Talmente che pigli, onde ancora per Iesu Cristo, perché se questa antica madre, per aver detto figli, onde ancora Virgilio,
Antiquam exquirite matrem
, mira bene al vero, In nulla sua intenzione, in nessuna contenzione, furon mai sì belle o leggiadre cagioni come sono queste, le quali ha contra d'essi infedeli, per le quali la debba più tosto pigliare.
Volendo il Poeta nella presente Stanza tutti l'Italici da lui sotto del suo capo Roma intesi, persuader questa impresa, drizza pur il suo parlar al Papa dicendo ch'egli, il qual per arricchir d'un bel tesoro di virtù, avea L'antiche e le moderne carte volto, l'antiche e moderne istorie letto, sapeva che da l'imperio del figliuol di Marte, che fu Romulo di Roma conditore, fin ad ottaviano Augusto, grande sommo Monarca, quante volte Roma per L'altrui ingiuria vendicare, cioè l'ingiurie di coloro ch'a torto erano d'altri potentati oppressi, e ch'a lei ricorrevano per soccorso, fu nello spander il sangue cortese. Onde domanda perché non sarà ora non cortese com'era a coloro, ma di tanti benefici da Dio ricevuti, in forma conoscente, che pietosamente col glorioso figliuolo di Maria si mova a voler le dispietate offese fatte a lui e a suoi fideli Cristiani vendicare. Ottaviano Augusto trionfò tre continui giorni di tre trionfi diversi: de l'Illirico, de l'Attico et de l'Alessandrino. Onde Virgilio ne l'ottavo dell'Eneide,
At Caesar triplici invectus Romana triumpho Moenia Diis italis votum immortale sacrabat
, perché dice Al grande Augusto che di verde lauro tre volte trionfando ornò la chioma.
Nella presente Stanza il Poeta, per far il Papa più animoso contra gl'infideli, dimostra quanto poco le genti Oriental ne l'armi vagliono, adducendo prima l'esempio di Xerse, figliuolo di Dario re de' Persi; il quale con settecento milia Persi, per fornir la guerra cominciata dal padre, venne contra gli Ateniesi e fece Oltraggio, cioè ingiuria alla marina di nuovi ponti, perché fece il ponte sopra l'ellesponto, per lo qual d'Asia passò in Grecia. Onde Virgilio nel viii de l'Eneide,
Et pontem indignatus Araxes, Et Atos monte
, che prima era terra ferma, con gran fossa inducendo il mare, puose in isola. Nondimeno, per l'industria di Temistocle Ateniese, in battaglia navale fu ignominiosamente nel mar di Salamina rotto e con gra viltà si fuggì. Il simile era prima al padre Dario ne' campi Maratoni, per la virtù di Milziade, Capitano d'essi Ateniesi avvenuto. Leonida Spartano, per lo Leone inteso dal Poeta che a tal nome et alla sua ferocità allude, fu il primo che, ne l'angusti e stretti passi di Termopili, solo con quattro milia combattenti, in favor de gli Ateniesi, a tanto innumerabile esercito di Xerse s'opponesse. Col quale tre continui giorni virilmente combattendo, sempre con l'occisione d'incredibile moltitudine de' nemici, rimase superiore. Il quarto giorno, perché l'Oracolo avea che ovveramente il Duca e Re degli Spartani, o le città Greche era necessario che cadessero, licenziò tutto l'esercito, solo seco ritenendo settecento de' suoi Spartani, co quali essendo francamente contra de' nemici proceduto, dopo mirabilissime prove, fu co suoi fortissimi commilitoni da vinti nemici, lui vincitore, superato e vinto. Dunque tutti questi esempi dice che gli promettono la vittoria. Onde l'esorta a dover umilmente ringraziare Dio, ch'abbia i suoi anni a questo bene universale di tutta la Cristianità reservato.
Parla il poeta nella presente Stanza alla Canzone, dicendo ch'ella vedrà Italia e l'honorata riva, intendendo quella del Tevere, avendo pensato volerla mandar ad alcuni suoi amici a Roma, come la più parte de l'altre sue cose era usato di fare, avvenga ch'al Papa s'addrizzi. La qual Italia e riva dice ch'a gli occhi suoi è contesa e celata, non da mare, non da poggi, non da fiumi, che tra quella et essi suoi occhi s'interponga, ma da l'amor di Madonna Laura, dal quale in quel luogo era, come vuol inferire, ritenuto. Il lume del quale amore di quanto più l'incende, di tanto dice che lo fa più Vago, cioè desideroso, sollecitando ch'ella si debba muovere a partire, acciò che non smarrisca l'altre canzoni e rime sue compagne, fatte da lui sotto simile (sic) et altri soggetti et a Roma mandate. Perché amore non alberga, né sta pur solamente sotto le bende ne gli occhi de l'amate donne, che n'è ancora l'amor sociale, il qual debb'esser tra le sue compagne e lei, ridesi e piangese per amore, secondo gli effetti allegri e mesti che gli amanti sogliono dalle loro amate rapportare.
Papa Clemente sesto. Filippo Re di Francia
Europa terza parte della terra abitata
Aquitani oggi detti Guasconi
Virgilio
Minos Cretense
Abila e Calpe
Popoli settentrionali
Orazio
Apollo qui inteso per il furor poetico
Amfione
Figliuol di Marte Romulo
Ottaviano di che trionfò
Xerse
Virgilio, Atos monte
Temistocle superò Xerse. Leonida Spartano
Il presente Sonetto tegnamo che dal poeta fosse mandato al suo amico sennuccio di Senno del Bene, secretario del Signor Stefano Colonna, al quale, essendo egli dalla sua donna lontano, fa intendere ella a l'altra riva esser passata e, per quello che ne spera, mediante i segni veduti nel suo morire, salita al cielo. Onde lo conforta a dover ricovrar le chiavi del suo cuore, cioè la sua libertà la quale, in vita lei, era posseduta. E poi che per tal morte egli è scarico della maggior salma, del maggior peso, il qual era l'amoroso incarco, ch'agevolmente l'altre, come meno gravi, può deponere et, a modo di pellegrino, libero et spedito seguitarla. Per tal morte potendo ben vedere come ogni cosa creata velocemente passa, e quanto lieve e dagli umani lacci disciolta bisogna a l'anima a quel dubbioso e tremendo passo della morte andare.
A cui fu fatto il presente Sonetto
Varco, passaggio
Fu il presente Sonetto fatto dal Poeta in condolersi della morte di Messer Cino da Pistoia, suo amicissimo e famigliare. E basti solamente dire chi egli fosse, essendo il Sonetto per se stesso chiaro. Fu dunque Messer Cino, come abbiamo detto, da Pistoia, della nobile famiglia de Sighibuldi. Dottissimo in utroque iure, compose sopra del Codico (sic) una lettura utilissima, e sopra una parte del Digesto vecchio, e sopra gli altri Digesti, cioè l'Inforzato, il novo di molte addizioni. Ma in componer versi e rime volgari d'amore et in commendazione delle donne, per esser stato a quelle molto dedito, fu in quei tempi eccellente. Et ancora di quelle, oltre alle poste in ristampa, ne sono appresso di noi e d'alcuni nostri virtuosi amici.
Cino chi fosse e la dottrina sua
Tutti intese, fu tutto intent
La tela che 'l Poeta nel presente Sonetto dice ordire, noi intendiamo quella opera, fra l'altre sue Latine, De remedijs utriusque fortunae intitolata, nella quale dando i veri, anzi certi et infallibili remedi a tutti coloro che ne l'una o ne l'altra, ciò o nella buona o nella rea fortuna si trovano, accoppia l'un con l'altro vero. Sarà dunque doppio con questo suo lavoro, essendo doppio il soggetto, perché da (sic) l'una e de l'altra fortuna tratta; et ancora per introdurvi, come dice, Lo stile, cioè dottrina de'moderni con quello de gli antichi, udirassene lo scoppio, cioè la fama e 'l nome infino a Roma, per tutta la Cristianità, come capo di quella intesa. Ma perché a fornir l'opra dice che gli manca alquanto delle fila, stando nella traslazione della tela, cioè alquanti documenti di quelli ch'avanzaro a quel suo diletto padre, Santo Augustino, in quell'altra sua opera De secreto sive de conflictu curarum suarum. Colloquium trium dierum intitolata, dove l'introduce seco parlare, come ancora Boezio la Filosofia. Prega colui al quale il Sonetto s'addrizza che non glie ne voglia, contra sua usanza, esser avaro, ma che Opra, cioè apra, porgendogliene le sue liberali e larghe mani.
Augustino introdotto dal Petrarca in un suo libro a favellare
Nella presente moralissima Canzone il Poeta finge un colloquio tra la fama e lui, dimostrando quanto più la virtù ch'essa fama sia d'apprezzare, l'una e l'altra in figura di donna significando, e la fama altro non esser ch'ombra d'essa virtù diffinisce. Ma tacitamente accenna che noi non dobbiamo cercar di conseguire le dottrine per divenir famosi, come in questa prima Stanza, quando a quelli si diede, mostra d'aver fatto lui, per esser vanità. Né ancora si debbono ricercar per accumular robba, che sarebbe avarizia, né solamente per sapere, che sarebbe curiosità. Ma debbonsi volere per giovar a sé prima e poi ad altri, essendo vera carità. Onde Salomone, nella Sapienza, de primi due intendendo parlare,
Vani sunt homines, in quibus non est scientia Dei
, perché la scienza di Dio è propriamente quest'ultima; e nel'Ecclesiastico,
in molta scientia est multa indignatio
. De gli ultimi ancora parla nella Sapienza, dicendo:
Dedit illi scientiam sanctorum et honestavit illum in laboribus
. Dice dunque il Poeta, Una donna, intesa per essa fama, assai più bella e più lucente e d'altretanta etade che'l Sole, Mi trasse ancor acerbo a la sua schiera; cioè mi fece, essendo io ancora giovinetto, nel numero de' famosi intrare, pigliando la similitudine da frutti che prima sono acerbi e poi maturi. Onde ancor in quella canzone, In quella parte dov'amor mi sprona, di Madonna Laura parlando, Parmi veder in qull'etate acerba, La bella giovinetta c'hora è donna. Et è la buona fama più bella e più lucente che 'l sole, che può esser in un medesimo tempo in tutte le parti, quello ch'non (sic che non ) può 'l sole. E d'altratanta etade, perché allora cominciò ad esser conosciuta la potenza e la sapienza di Dio, che da lui le prime cose, fra le quali fu 'l sole, furono create. Onde al principio del Genesi:
In principio crevit Deus coelum et terram
. Questa dice per esser della (sic) cose rade al mondo, essendo poco numero quello di coloro che famosi si rendono. Ma fu sempre leggiadra altiera innanzi, a dinotare quanto fosse da lui desiderata, solo per lei; Poi ch'I soffersi gli occhi suoi da presso, poi ch'i conobbi quanto ella era bella; Tornai da quel ch'i era, tornai a quelli studi a quali seguitare io era destinato, avendo fino allora, cioè nella vita di lui dicemmo contra sua voglia a gli studi delle leggi dato opera. Onde in quella Canzone: Anzi tre dì creata era alma in parte Da por sua cura in cose altiere e nuove, E dispregiar di quel ch'a molti è 'n pregio. E per amor di lei dice essersi messo assai per tempo a faticosa impresa, essendo cosa laboriosissima il voler la buona fama conseguire; talmente che s'egli n'arriva al desiderato fine, si spera, quando altri lo terrà per morto, Viver gran tempo per lei, cioè viver lungamente per fama.
Dimostra il Poeta, nella presente Stanza, esser trascorso nella sua novella età molti anni, contentandosi della fama, alla quale egli era salito, credendosi esser famoso assai. Ma conosciuto quanto poteva ancora più famoso divenire, essergliene dato paura di non poter alla perfezion venire. Onde dice che questa sua Donna, cioè essa fama, lo menò molt'anni ardendo, cioè desiderando, pieno di vaghezza giovenile, pieno di quei leggieri principi, che per l'un l'altro convincer, i gioveni studenti sogliono esser vaghi. Solo sì come egli allora dice che comprendeva, per aver più certa prova lui, cioè solo per più apertamente vedere s'egli era per voler nelli studi perseverare, Mostrandogli pur l'ombra , o 'l velo, o panni talor di sé, ma nascondendo 'l viso: mostrandogli pur i principi, per li quali a lei si perviene, ma nascondendo se stessa. Et egli credendo vederne assai, passò di quelli contento tutta la sua nova, giovenile etate. Ma allora che di lei vedeva alquanto più innanzi, cioè vedea quanto ancora poteva, più di quello ch'era, famoso divenire, gli giovava 'l rimembrare, perché il vedersi in quelle cose che piaceno avanzare, molto suol dilettare. E per meglio il suo concetto esprimer dice: pur dianzi, pur poco innanzi ella se gli era scoperta, intende tale quale egli fino allora non l'avea veduta, e questo per esser di lei in più perfetta cognizione venuto. Onde dice essergli nato Un ghiaccio, cioè un timor al cuore, come delle cose, che molto si desiderano e temesi di non poterle conseguire, avviene. E sempre vi sarà finché sia in braccio, fin che io ne venga al desiderato fine.
Avendo il Poeta conosciuto in quanta fama egli poteva ancora, oltre quella che fino allora aveva conseguito, pervenire, come nella precedente Stanza abbiamo veduto, gli n'era nato timore al core di non poterla conseguire. Onde ora in questa mostra che tal timore non gli tolse però ch'egli non desse Tanta baldanza, cioè tanto ardire, al suo cuore di stringersi a piedi della fama, cioè che più dentro nella considerazione di quella non intrasse; Per trar de gli occhi suoi, per trar delle sue eccellenti parti più dolcezza nel considerarle, che fino allora non aveva fatto. Ma ella, la qual dice che già gli avea dinnanzi a suoi il velo della ignoranza rimosso, e fattagli quanto era bella vedere, non però gli vuol tutta la sua bellezza contribuire; ma dice che di quella egli debba chiedere quanto sia pari et conveniente a gli anni suoi. E non perché secondo gli anni si debba la fama contribuire, essendo solamente premio della virtù; ma dice a gli anni per non esser ancora da lui, come di sotto vedremo, stata la virtù conosciuta. E per esser ancora quasi cosa impossibile che, dove gli anni non sono, possino essere tante e tali virtù, che meritino in sommo d'ogni gloria e fama, acquistandosi le molte gran virtù per lunga e continua operazione; ond'egli, ch'ad altro ch'a la fama non pretendeva, risponde che in quello stato gli era tolto ogni altro volere e disvolere, perché quella, come suo primo oggetto, vuole e non può voler che non la voglia. Onde mostra ch'ella sì risponde nella fama ch'appresso vedremmo, con sì dolce voce e volto allegro, che per la ragione detta nella precedente Stanza, farà sempre temer sperare.
Afferma la fama nella presente Stanza il dir del Poeta, ch'ella sia da lui desiderata, com'in fine della precedente ha detto, dicendo Che rado, cioè quasi nessuno, fra così gran turba, o moltitudine, essere stato al mondo, ch'udendo del suo valor ragionare, non l'abbia, almeno per qualche tempo, desiderata. Perché tutti gli uomini, da quelli in fuori I quali del tutto hanno gli onori e la gloria del mondo disprezzato, e sono sì con lo spirto alle cose superne elevati, che rarissimi sono stati; hanno almeno per qualche tempo d'esser famosi desiderato. Ma la volontà avversaria, d'ogni virtù e fama nemica e del bene perturbatrice, tosto ha loro tal desiderio spento, Ond'ogni virtù muore, come ancor in quel Sonetto: La gola e 'l sonno e l'otiose piume, Hanno del mondo ogni virtù sbandita. E Marco Tullio:
Atque etiam voluptas, quae maxime est inimica virtuti, bonaque naturae fallaciter invitando, adulterat
; perché la bona fama, alla qual solamente per lunghe e continue vigilie, sudori e stenti si perviene, non si può senza virtù conseguire. E ben dice promette, perché non lo tien poi, ma che della sua mente, per quello ch'ella n'intende d'amore, onde desidera esser famoso, dice che tal desiderio lo farà degno pur d'onorata fine; e per Segno, cioè per fede, ch'egli già sia de'suoi rari e famosi amici, che vedrà donna, la qual farà gli occhi suoi, molto più ch'ella non fa, felici.
Non avea ancor il Poeta veduto e conosciuta la virtù, da lui ne suoi studi conseguita, né gli pareva ch'oltre alla fama, alcuna cosa più bella si potesse desiderare, perché solamente ad essa fama pretendeva. Ma eesendogli da lei fatta conoscer la virtù, cioè considerando egli la virtù per mezzo della conseguita fama, cominciò a conoscere ch'essa virtù alla fama precedeva. Onde di quella, più che della fama fatto non avea, s'accese; perché dice che, sentendo dentro nuovo fuoco e maggiore, egli rettamente inchinò la vergognosa fronte, Et ella, cioè la fama lo prese in giuoco dicendo ch'ella vedeva bene dv'egli con gli occhi fisi, come vuol inferire, stava, e come la sua luce era vinta da quella della virtù; ma ch'ella per questo non lo dipartiva però da quella de gli occhi suoi. Ma quello che significhi lo vedremo nella seguente Stanza. Produsse un sol parto la virtù e la fama, ma prima la virtù, perché prima essa virtù e poi la fama, mediante quella, si vien a conseguire.
Vergognavasi il Poeta che la fama si fosse accorta ch'egli non più tanto di lei, quanto della virtù facesse stima, talmente che non sapea che cosa in sua scusa dovesse dire. Ma veduto lei pigliarselo in giuoco, se gli ruppe di tal vergogna il nodo che la lingua teneva interdetta; onde lodando ciascuna, richiede di voler più avanti di lor condizion sapere. E moralmente, poi che'l Poeta ha conosciuto la virtù esser più bella e più d'apprezzar che la fama, si vuol del tutto volgere e darsi a quella; nondimeno si vergogna dover senza fama rimanere, parendogli che, se egli piglia per lo suo oggetto la virtù, dover d'essa fama mancare. Ma inteso poi l'una non dipartirsi da l'altra e ciascuna del suo officio contentarsi, rimove da sé la vergogna e, lodando ciascuna, desidera sapere a che fine per lo mezzo loro si può pervenire.
Risponde la fama nella presente Stanza al Poeta, il quale nella precedente abbiamo veduto l'ha domandata di voler di lei e della virtù più amanti sapere, dicendo l'una e l'altra di loro esser nata immortale, perché, quando ben la virtù mancasse al mondo, sempre in Dio datore e padre di quella si troverebbe, conseguentemente ancora la fama. Ma la loro immortalità domanda quello che vale, o giova a noi mortali, poiché per la nostra pigrizia a farci ancora noi, per lo mezzo di loro, immortali non ce ne serviamo. Onde dice che meglio per noi sarebbe stato che da loro fosse il difetto venuto, cioè che fossero state mortali come noi siamo, perché a non voler mettere il nostro fine nelle cose finite, saremmo stati degni di scuse. Ma in questa forma il difetto è tutto alla nostra negligenza et ignavia attribuito, soggiungendo essere stato un tempo ch'elle furono belle e giovani e leggiadre amate, intendendo di quella età nella quale gli animi erano alla virtute più accesi; ma che sono ora tal termine condotte che la virtù, non trovando qua giù in terra più luogo, batte l'ali per ritornarsene su in cielo a Dio, suo antico ricetto. Et ella altro non esser ch'un'ombra di quella diffinisce, perché la fama seguita la virtù, non altramente ch'ogni ombra il suo material corpo usa seguitare. E questo dice esser quanto brevemente per lui si può di loro condizione intendere, Poi che i pié suoi fur mossi, poi che la fama di lui fu sparsa, Colse una ghirlanda di verde lauro, la quale ella con le sue mani avvolse intorno alle sue tempie. Significando per tal sua fama sparsa esser della laurea stata, come nella sua vita dicemmo, coronato. Onde dice ch'egli non dovesse temere, se ben ella da lui s'allontanava.
Ha il Poeta dimostrato doversi la virtù sopra di tutte l'altre cose amare. Ora, nella presente ultima Stanza, alla Canzone parlando dice ch'a colui il qual la sua ragione o sentenza chiamasse oscura e difficile ad intendere, ella debba dire di non curarsi, perché tosto spera ch'altro messaggio farà Con più chiara voce, con più aperto dire manifesto e noto il vero. Intendendo di quella opera che nel precedente Sonetto abbiamo detto, che de l'una e de l'altra fortuna aveva principiato, perché in quella dimostra, mediante essa virtù, doversi la buona fortuna moderatamente usare e l'avversa pazientemente tollerare. E di quella sola armato, potersi tutte le difficultà vincere e mai da nessuna esser vinto; onde a quella solamente gli animi svegliare dice ch'ella dica d'esser venuta, se da chi gl'impose questo ella non fu, quando partì da lui, ingannata.
Argomento della presente Canzone
Salomone nella Sapienza
Poco è il numero di coloro che famosi rendono
Vista in vece di veduta
Ghiaccio in scambio di timore
Come si contribuisce la fama
Rado, nessuno
Marco Tullio
La virtù precede alla fama
Torsi, piegai
Me in vece di miglio (sic)
La fama esser ombra della virtù
Soggetto della opera de remedio utriusque fortuna del Petrarca
Il presente Sonetto intendiamo essere stato dal Poeta al Signore Stefano Colonna scritto; nel quale l'esorta a dover l'animo da l'amorose passioni liberare, poi che l'uno e l'altro de lor due ha provato come 'l suo, della cosa amata, sperare torna fallace e vano, somigliando questa terrena et mortal vita ad un prato, perché tra fiori e l'erba sta nascosto 'l serpe, a imitazione di Virgilio,
Latet anguis in herba
. Perché, come chi tra fiori e l'erba andando, cade in bocca al serpe, così chi nella dolcezza d'essa terrena vita procede, cade nel vizioso abito; soggiungendo che se a gli occhi alcuna vista di tal vita piace, esser solamente per lassar più l'animo da esse terrene dolcezze invescato e preso. Ma s'egli cerca anzi l'estremo dì della vita aver giammai la mente queta e tranquilla, che debba l'esempio di pochi seguitare, intendendo de l'esempio di quei pochi i quali, il sommo bene avendo con l'animo gustato, sono nel seguir quello in stato di grazia pervenuti. Onde Dante nel Cap. ii del Paradiso: Voi altri pochi chi drizzaste 'l collo, per tempo al pan de gli Angeli, del quale vivesi qui, ma non si viè satollo, Metter potete ben per l'alto sale Etc. Et ultimamente dice ch'a lui si può dire ch'egli va mostrando la via ad altri, che per se stesso non sa tenere. A dar ad intendere ch'egli non è ne l'errore di coloro li quali Marco Tullio nelle Tusculanae riprende dicendo:
Proprium enim stultitiae est aliorum vitia cernere, suorum oblivisci
; e nel i degli Offici:
est enim nescio quomodo, in alijs magis quam in nobis cernamus, si quid deliquitur
(sic).
Virgilio
Dante
La comune opinione del presente Sonetto è che 'l Poeta mandasse a donar al Cardinale, o fosse Vescovo Colonna un cuscino, un breviale et un calice. E che sul cuscino dica che debba posar la guancia e col libro richiuder la strada a messi d'amore, e col calice bere il sugo d'erba che purghi il cuore d'ogni amoroso pensiero. La quale opinione noi non la danniamo né ancora possiamo così leggiermente, per un'altra che n'occorre, approvarla. La qual per meglio intender è prima da sapere, ch'a tutti coloro i quai sono da qualche infirmità oppressi, tre principale (sic) rimedi dichiamo esser loro necessari, se da quella intendono volersi liberare. Il primo de quali è il riposo, onde veggiamo quando comincia l'alterazione, l'uomo mettersi a letto; il secondo è il guardarsi dalle cose nocive, acciò ch'el male non s'abbia a notrire; il terzo et ultimo, per via di qualche medicinal bevanda, rimuover il mal che già dentro era radicato. Era dunque il Signor Stefano Colonna, al quale intendiamo esser il Sonetto stato scritto, infermo, avendo , come nel precedente abbiamo veduto, l'animo a Venere volto; et aveva, per quanto la sentenza del resto ne dimostra, dalla sua amata donna tutto 'l desiderio suo avuto et al Poeta scritto quanto fosse'l diletto et piacere che, mediante questi tre sentimenti, il toccare, il vedere et il gustar i dolci baci di quella, usava pigliare. Onde, parendo forse ad esso poeta ch'egli troppo sfrenatamente si lassasse nel vizio trasportare, et volendo, quanto a lui fosse possibile, persuadergli che da quello si volesse rimuovere, ora per lo presente Sonetto rispondendo, gli dà i già detti rimedi per via d'essi tre sentimenti che de la infirmità medesimamente erano cagione. E prima il riposo, per via del tatto, dicendo che debba la guancia, Che fu già, che fu prima che del suo amore potesse gioire, piangendo stanca, su l'un riposare; perché colui che vuol posar la guancia, usa appoggiar il gomito e poi posar la guancia su la mano, del quale è proprio il tatto, perché quello sentimento è molto alla libidine incitativo. Soggiungendo che nel concedersi a quel lascivo amore che' mbianca, et fa suoi seguaci impallidire, sia oggimai più avaro di se stesso. Il secondo rimedio è di guardarsi dalle cose nocive. Questo glie lo dà per via del vedere, onde vuole che con quest'altro sentimento rinchiuda da man manca la strada che va da gli occhi al cuore, A messi d'amore, che sono della cosa amata gli amorosi sguardi; onde ancor in quella Canzone Tacer non posso, e temo non adopre, degli occhi di Madonna Laura parlando, Indi i messi d'amor armati usciro Di saette e di fuoco. Et al principio de l'opera: Trovommi amor del tutto disarmato, Et aperta la via per gli occhi al cuore. Et in sentenza vuole ch'egli s'astenga d'andar a veder la cosa amata, perché a tal infirmità niente è che più nuoca quanto' l veder la cagion di quella. Onde Properzio:
Oculi sunt in amore duces
; e Quintiliano:
Oculi tota nostra luxuria sunt
. I quali sguardi dice che gli mostrano Un d'Agosto e di Gennaio, cioè sempre e d'ogni tempo, una cosa medesima. Perché mentre l'uomo si lassa da tale appetito guidare, senza mai accorgersi del suo errore, sempre uno medesimo stile usa tenere et d'ogni tempo viene ad essere a quello ingannato, perché alla lunga via della virtù, la quale hanno da fare, per esser la via breve, dice che manca loro il tempo. Il terzo rimedio il quale di rimover il male, che dentro viene ad esser radicato, vuole che sia per via del gusto. Onde dice che debba con quello bere un suco d'erba che sia atto a purgar di dentro ogni amoroso pensiero, che per lo rimorso della coscienza, come vuol inferire, affligge il cuore, cioè l'animo, come ancor in quel Sonetto, Sì traviato è 'l folle mio desio, sol per venir al lauro, onde si coglie acerbo frutto che, le piaghe altrui gustando, affligge più che non conforta; perché a volerlo ancora nelle lascive dolcezze usare, molto conferisce alla libidine. La qual erba, benché nel principio gli abbia da parer acerba e aspera, al fine sarà dolce e suave. Il che suol della medicina avvenire, la quale al gusto de l'infermo par nel principio amara, ma poi nel fine, perché è cagione di restituirgli la sanità, la trova dolce. Ma quello che moralmente voglia significare si è che, quanto egli avrà riposato e quetato l'animo dalle passioni, dalle quali era agitato, e che astenendosi da quelle cose lo (sic) facevano prevaricare, sarà fatto continente, vuol che gusti qualche salutifero documento, il quale abbia forza di purgare e del tutto rimuovere de l'animo ogni memoria che della donna amata vi fosse rimaso. Se bene questo nel principio gli abbia da parer difficile et duro, essendo cosa molto dura il voler rimover l'anima dalla volontà e specialmente quando vi s'è fatto qualche abito, perché nel fine alla salute sarà util'è buona (sic). Ultimamente lo prega che voglia riponer lui, Dove si serba 'l piacere, cioè nella memoria, dalla quale ogni piacer e dispiacer è riserbato; e talmente che non tema del nocchier di Stige, cioè che non tema ch'egli lo dimentichi. Perché il nocchier di Stige è Caron, il quale passa al fiume Leteo, che significa oblivione, l'anime de morti. E vogliono i Poeti che, quando hanno de l'acque di quello gustato, non si ricordino più di cosa che 'n questa vita abbiano operato.
Argomento del presente Sonetto
Stefano Colonna
Quintiliano de gli occhi
Moralità del Sonetto
Lete, oblivion
La presente Stanza giudichiamo essere stata fatta dal poeta l'ultima volta che da Madonna Laura s'era, per venir in Italia, partito, come vedemmo in quel Sonetto: Aura, che quelle chiome bionde e crespe; essendo sul Monginevra, dove mostra aver veduto una villana che doveva guardar qualche bestie (sic) , la qual era posta a lavar un velo. Onde egli, come se de l'altrui bene invidioso, per esser da Madonna Laura lontano, lo desidera a coprir il vago e biondo capello di lei, quello di che abbiamo in più luoghi veduto, che essendole da presso, s'usava gli recava dolore. Soggiungendo che Diana non piacque tanto ad Ateon suo amante, quando la vide ignuda nel fonte lavarsi, quanto la pastorella piacque a lui; talmente ch'allora, quando per lo caldo il cielo cioè l'aere ardeva, lo fece tutto d'un amoroso gielo tremare.
Monginevra
Finge il Poeta nel presente Sonetto un colloquio tra certa antica matrona e lui, che si debba più appreggiare la vita o l'onore, perché senza quello dice non esser vera vita, anzi vita peggior che morte e piena d'ogni amaritudine, adducendo l'esempio di Lucrezia Romana, donna di Collatino. Della qual dice che, dopo la violenza fattale da Sesto Tarquinio, non si maravigliò ch'ella proponesse l'onore alla propria vita, volendo inferire che ragionevolmente così doveva fare. Ma si meravigliò com'a morire non le bastasse solamente il dolore, senza ch'ella avesse adoperare, come fece, il ferro. Alla quale opinione, che Lucrezia facesse bene ad occidersi, invita tutti i morali filosofi, quali (negandola diranno la morte di Lucrezia non essere stata necessaria, non avendo ella con l'animo peccato, come per manifestissimi segni, prima che si desse la morte, avea dimostrato; essendo la castità solamente virtù d'animo, il quale animo non può in alcun modo essere sforzato, come può esser il corpo, essendo nell'altrui forze. E che quando per le macchie nel corpo si perdesse la castità, non sarebbe virtù d'animo, ma di natura, per la qual nessuno meriterebbe esser lodato.
Lucrezia Romana
Sesto Tarquinio
Fu il presente Sonetto scritto dal Poeta ad uno maestro Antonio del Beccaro da Ferrara, in risposta d'una Canzone, il cui principio è questo: l'ho già letto il pianto de Troiani, fatta in condolersi della falsamente creduta morte d'esso Poeta per certa infermità; della quale, com'egli ancora in una sua epistola al Signor Pandolfo Malatesta scrive, era stata molto grave. Onde lodando le sue pietose rime, col cortese affetto ch'esso Messer Antonio in tal Canzone gli avea mostrato, gli fa intendere non aver ancora gli estremi morsi della morte, com'egli dubitava, sentito; perché non era ancora il tempo suo Prescritto, cioè terminato vivere venuto, avvenga ch'egli fosse corso fino a l'uscio del suo albergo. E però dice che debba quetar il cuore da tal timore e che quando l'onora, tanto quanto nel suo scrivere avea onorato lui, che debba cercar uomo che sia degno di tali onori, volendo inferire che tanto a lui non gliene conveniva.
Antonio Beccaro da Ferrara
Il presente Sonetto fu scritto dal Poeta per dimostrare quali si fosse sua intenzione di che pessima natura suol esser l'ira, adducendo al proposito alcuni esempi. Et prima quello d'Alessandro Magno, il qual benché gran parte della terra vincesse, sottomettesse al suo imperio, nondimeno fu però egli stesso, come in molti suoi gesti scrive Plutarco, da l'ira vinto. Et in questa parte lo fece inferiore al suo padre Filippo, perché meglio di lui seppe l'ira frenare. Fra tutto il numero de gli scultori di quel tempo, da nessun altro che da Pirgotele et da Lisippo volse Alessandro esser intagliato e scolpito; et fra tutti i pittori solo d'Apelle dal natural dipinto. Ma per averlo quelli eccellentemente scolpito e questi dipinto, non però gli poteron levare ch'egli non fosse, per la sua ira, di grandissima infamia notata. Onde dice quello che gli vale se ben da questi soli fu intagliato e dipinto. Tideo figliuolo del Re Eneo di Callidonia, come Stazio nella Tebaide scrive, andò in aiuto di Polinice et contra di Eteocle nella guerra di Tebe; col quale Eteocle era Melanippo Tebano. Ferì Menalippo Tideo e Tideo occise lui. Ma vedendo Tideo la piaga ricevuto esser mortale, si fece il capo del già morto Menalippo recare e quello per ira et rabbia co denti rose. Onde dice che morendo ei, si rose Menalippo. Silla, nobile Romano, avendo in Roma, come scrive Plutarco, occupato la Tirannide, usò per la sua molta ira n' propri cittadini, in pubblico et in privato, infinite e grandissime e nobilissime crudeltà. Et ultimamente essendo a Pozzuolo infermo, intese ch'un certo principe Granio, il quale era in gran numero di danari al comune obbligato, differiva al pagare, aspettando la sua morte. Onde egli lo fece davanti a sè, là dove giaceva, venire et a ministri che Granio dovessero strangolare avendo comandato, fu da tanta ira vinto che per lo gridar e crucciarsi se li ruppe una vena del petto, dalla quale tanto sangue abbondò, che'n breve spazio finì la vita, perché dice, A l'ultimo l'estinse. Dunque l'ira aveva fatto Silla non solamente Lippo, cioè di corta e insana vista, ma cieco del tutto, perché quello il quale da l'ira si lascia vincere è alla condizione del cieco, per avere il lume de l'intelletto perduto. Valentiniano, Imperatore de'Germani, ancora lui della medesima morte perì perché, essendogli stata introdutta la legazione de' Quarti, nella qual di notissime rapine volendosi scusare, fu tanta l'ira che l'assalse che 'n breve spazio, per grande effusione di sangue, morì. Onde dice che l'ira lo condusse a simil morte ch'avea fatto Silla. Aiace, figliuolo di Telamone, come Omero scrive, fu nell'armi eccellente tanto ch'essendo alla guerra di Troia con gli altri Greci andato, furon da lui molti Troiani uccisi e più volte, in battaglia singulare, fu ardito opporsi al fortissimo Ettore. Ma ultimamente, avendo per sentenza di tutti Greci l'arme del già morto Achille con Ulisse perduto, fu per grandissima ira di se stesso omicida. Onde dice Aiace in molti, e poi in se stesso esser stato forte, avvenga che alcuni vogliano che per opera di Ulisse fosse morto. Conchiude appresso il Poeta l'ira esser breve furore; ma chi nol frena, esser furor lungo, che spesso mena il suo possessore a vergogna, come d'Alessandro e di Tideo, et allora a morte come di Silla, Valentiniano et Aiace ha dimostrato. L'ira si definisce esser ribollimento di sangue intorno al cuore per vendicarsi et è nel principio detta excandescenza; se persevera se alquanto, è detta ira; ma perseverando lungamente, diventa odio. È dunque da reprimere l'iracondia, perché solo da questa veggiamo che tutti i mali nascono, non essendo cosa che più contamini la mente de l'uomo. Onde il filosofo:
Furor corrumpit optimum virum. Hora Qui non moderabit irae, infectum volet esse, dolor quod suaserit et mens.
Perché fosse scritto il presente Sonetto
Alessandro Magno
Tideo
Silla
Aiace
Fu il presente Sonetto scritto dal Poeta in risposta alle consonanze d'un altro avuto da Giovanni de' Dondi da Pistoia, posto in fine della presente ultima parte, il cui principio è questo: Io non so ben s'io vedo quel ch'I veggio, nel quale narra alcune contrarietà et varietà del suo fato, molto nel fine esso Poeta lodando. Onde egli il suo simile stato narrandogli, dice esser seco in simile frenesia, in simile fantastico pensiero intrato. Ma per non volersene altro affanno dare, che di loro sarà pur quello che nel cielo è ordinato che sia et benché del grande onore, che nel suo scrivere gli fa, non se ne reputi esser degno, nondimeno il suo consiglio esser però di voler l'anima alzare al cielo et senza più tardare, conoscendo il cammino per lo quale vi s'ascende esser lungo et il tempo della vita breve.
Giovanni de' Dondi
Scrisse 'l Poeta il presente Sonetto nella morte del suo amico amico Sennuccio, al quale il suo parlar drizzando, si duole che solo di sé l'abbia lassato. Ma poi d'altra parte si conforta, pensando che l'anima sua, la quale nel suo terrestre carcere del corpo era prima presa et ne l'umane fragilità, morta altieramente si sia levata a volo et itasene in cielo, ove ora vede l'artico et l'antartico polo, le vaghe stelle, con il loro torto e obliquo viaggio; talmente che nel gioire d'esso Sennuccio dice che tempre il proprio dolore che della morte di lui avea, pregandolo che nella terza spera saluti Guittone Bonati d'Arezzo, messer Cino da Pistoia, Dante eccellente, notissimo Poeta, Franceschino, il quale con esso Sennuccio et l'altra schiera di volgari scrittori di quel tempo, da lui nel Trionfo d'Amore nominati, i quali per esser in vita stati soggetti ad amore e cose amatorie avere scritto, mette che siano nella terza spera, la quale a Venere è attribuita. Soggiungendo che alla sua Madonna Laura, la qual nella medesima spera pone, può ben dire il misero stato nel qual, per la memoria del bel viso di lei e delle sue sante opere in lui rimase, esser si trova.
Guittone d'Arezzo. Cino da Pistoia. Dante. Franceschino.
IL FINE DELLA TERZA PARTE DEI SONETI ET CANZONI DI MESSER FRANCESCO PETRARCA